di Massimo Giuliani
1. Sempre più “arte di lenti”
Sebbene il lavoro del primo Gruppo di Milano (Selvini Palazzoli et al., 1975 e 1980) sia stato salutato all’epoca, non solo in patria, come la novità che avrebbe rivoluzionato la cura di psicosi e anoressia, il vero salto di paradigma che dobbiamo al movimento sistemico fu quello che è ricordato come “cibernetica del secondo ordine” (Bertrando e Toffanetti, 2000; Giuliani, 2013a). Se in un primo momento l’osservatore aveva allargato la visuale per abbracciare una realtà più ampia di quella considerata dalla psicologia individuale, un bel giorno, allargando ancora di più lo sguardo, quell’osservatore trovò se stesso che osservava (von Foerster, 1981; Maturana, Varela, 1984; Bocchi, Ceruti, 1985, Telfener, Casadio, 2003, Bianciardi, 2016).
Allo spostamento delle spiegazioni causali dall’intrapsichico al relazionale seguì una radicale messa in discussione della possibilità di fondare una clinica su qualcosa che somigliasse a spiegazioni causali: se l’osservatore sta dentro alla realtà che osserva, la pretesa di esserne l’ingegnere che ne scopre il funzionamento e lo modifica, come nel grande sogno della prima terapia strategica di Palo Alto, è un’ingenua velleità.
Con l’accento sul ruolo dell’osservatore prendono a circolare nella terapia sistemica le metafore delle lenti e del vedere. Lynn Hoffman (1990) definisce “arte di lenti” una terapia che ambisca a farsi scienza interpretativa interessata ai significati, non più a scoprire i modi in cui le famiglie producono sintomi in pazienti designati.
Hoffman sostiene nel suo articolo-manifesto la necessità non solo di nuove lenti, ma soprattutto della consapevolezza della loro natura – appunto – di lenti, cioè di artefatti culturali. Pensare che quel che si vede è una costruzione condivisa, piuttosto che uno statuto di realtà oggettiva, è la nuova posizione del terapeuta sistemico.
Luigi Boscolo, legato a una sensibilità costruttivista, spiega nello stesso periodo (Boscolo, Cecchin, 1992) la propria posizione con la metafora della visione binoculare (Bateson, 1979). Per Bateson due punti di vista sono meglio di uno perché permettono di vedere una dimensione in più: la profondità. Questa premessa, per il terapeuta, è in consonanza col bisogno di usare una rete di teorie per avvicinarsi quanto possibile alla complessità del mondo “là fuori”. Rete che è anche il prodotto dell’esperienza del clinico e delle teorie che lo hanno influenzato nella sua storia: questa è la teoria “epigenetica” della terapia (Boscolo, Bertrando, 1996).
Due punti di vista, dunque, sono migliori di uno: e allora perché non tre, o quattro? Boscolo raccontava come, nell’osservare il caso clinico, sceglieva di muoversi fra il punto di vista della cibernetica del primo ordine – per vedere il sistema osservato come separato dall’osservatore –, quello della cibernetica di secondo ordine, quello del costruttivismo, quello da cui guardare le relazioni umane come pattern, poi ancora come storie.
Imparare bene una teoria, conoscere la relazione tra premesse e tecnica e i limiti dell’ortodossia, fa accedere alla consapevolezza che una teoria è solo una lente con cui vediamo il mondo. E ogni lente vede una certa cosa e non ne vede altre: come “una rete che prende certi pesci ma non ne prende degli altri” (Boscolo, Cecchin, cit.).
Quello che il terapeuta sceglie per sé non è un modello disincarnato, ricevuto in eredità da qualcuno che l’ha usato prima di lui: è un precipitato della sua biografia e della rielaborazione personale delle sue esperienze cliniche e di formazione. L’assunzione di responsabilità di un terapeuta che elabora la propria biografia culturale per costruire il proprio modello epigenetico è ben altro da quella “integrazione fra modelli”, che è un’operazione strumentale che genera mostri epistemologici a due (o più) teste (Giuliani, 2017).
Basta dare un’occhiata superficiale alla letteratura sistemica degli ultimi vent’anni per vedere che cresce l’interesse per le cornici culturali dentro le quali i clinici inventano i linguaggi che li descrivono (Barbetta, 2003 e 2014), anche se non diminuisce quello a descrivere processi e realtà relazionali.
Le invenzioni più preziose degli ultimi decenni, nel campo della terapia della famiglia, non sono tanto teorie sul funzionamento delle famiglie, quanto riflessioni sulla pratica del terapeuta e qualche volta cambiamenti nella tecnica e nel setting.
E anche del periodo precedente, l’eredità che oggi portiamo con noi non è costituita tanto dalle idee sugli scontri per il potere nelle famiglie, quanto da una sensibilità alle storie (che dire delle grandi saghe familiari di Paradosso e controparadosso?), alle relazioni e al paradosso che sta in esse – non come incidente logico da correggere, ma come condizione esistenziale alla quale non si sfugge (Cecchin, Apolloni, 2003).
Spogliàti da qualunque intento strategico, antichi capisaldi della tecnica sistemica come le “domande triadiche” (Giuliani, 2013b) o la “connotazione positiva” (Selvini Palazzoli et al., 1975; Penn, 1985) sostanziano una posizione di apertura e di curiosità per le storie delle famiglie e per la molteplicità dei modi in cui la soggettività si manifesta (Cecchin, 1987; Giuliani, 2013c, 2016): più che un posizionamento strategico dal quale sorprendere le famiglie, una ricollocazione dell’osservatore che prova a guardare le cose da un altro punto di vista.
Anche nei casi in cui sopravvive l’utilizzo dello specchio unidirezionale nel setting della terapia, esso acquista un nuovo statuto. Al tempo in cui esso separava due livelli gerarchici di osservazione, si riteneva che un osservatore potesse godere di una certa separatezza dal campo osservato: in caso di differenza di vedute tra il terapeuta nella stanza di terapia e quello – o quelli – nella stanza di osservazione, la norma era che prevalesse l’autorità dei secondi, più distanti e dunque più oggettivi. Oggi, con l’abbandono delle metafore del controllo e della cibernetica, lo specchio disegna lo spazio della terapia come un territorio orizzontale che offre punti di osservazione differenti. Meno preoccupati di quale sia la lettura “giusta”, e più di quanto l’interazione sia “utile”, i terapeuti sistemici preferiscono attribuire voce in capitolo al collega che conversa con la famiglia, e che della conversazione si assume la responsabilità: è lui nella stanza, è lui che interagisce con la famiglia e non esiste un punto di vista che possa attribuire ad altri maggior competenza sulla “realtà” di quella conversazione.
Lo specchio è sempre meno unidirezionale: l’équipe può spostarsi di là, per interagire dal vivo col conduttore della seduta e con la famiglia; parte della famiglia può raggiungere l’équipe in posizione di osservazione, per vedere da un punto di vista mai sperimentato prima l’altra parte che interagisce col terapeuta.
Nell’esperimento di Tom Andersen (1979) sul reflecting team, un altro impianto audio si accendeva nella stanza di terapia: spegnendo le luci e accendendole dalla parte dei supervisori, la famiglia e il paziente potevano assistere allo scambio di vedute dell’équipe. Da allora, è diventato piuttosto comune che i terapeuti decidano di rinunciare allo specchio per condividere la conduzione della seduta e lasciare che la famiglia ascolti senza schermi i commenti che si scambiano. In passato Adriana Valle e io (Giuliani, Valle, 2007) cercammo di fare il punto di tutti i vantaggi che poteva offrire la conduzione congiunta di una terapeuta donna e un terapeuta uomo: a cominciare da una maggiore consapevolezza dell’influenza dei pregiudizi di genere nell’osservare relazioni familiari e dalla possibilità di utilizzarli creativamente, anche esplicitandoli.
Spesso le famiglie avvertono in questa scelta di trasparenza un grande riconoscimento di competenza. Capita che ci raccontino quelle conversazioni polifoniche come un passaggio emozionante della terapia. Ciò che restituiamo loro non è il prodotto finale del processo in cui le diverse ipotesi dei terapeuti si confrontano, ma tutta la ricchezza di quel processo. Forse una lettura meno compiuta, ma in cambio della cognizione che la propria vita può essere letta in un certo numero di modi differenti. A questi naturalmente la famiglia aggiungerà il proprio, o i propri, punti di vista.
Ma non è tutto qui: decidere di rinunciare al diaframma dello specchio è un intervento che i clinici fanno su di sé, imponendosi di parlare tra di loro in un modo che sia comprensibile alla famiglia. Ciò modifica il modo stesso in cui i terapeuti pensano: non avendo un “dietro le quinte” privato nel quale scambiarsi le idee, il loro pensiero sarà più rispettoso e libero da giudizio e da moralismo.
2. Tutti gli occhi del terapeuta
Dunque, al di là degli strumenti concreti attraverso i quali tale posizione si esplica – non sempre abbiamo a disposizione uno specchio, una parete da sfondare, dei locali separati – l’autoriflessione è il focus del terapeuta sistemico di oggi, come ieri lo erano le teorie sui giochi familiari, sul doppio legame e sulle lotte per il potere. L’impegno che ieri riponeva nello svelare trame nascoste delle famiglie e nel pianificare strategie per sventarle, oggi lo investe nell’osservare se stesso in rapporto col sistema e con il processo terapeutico. Il terapeuta non è più l’esperto, il mago, colui che scopre danni da riparare: le nuove metafore della terapia sono metafore sensoriali. Fino a ieri l’ascolto delle storie e delle voci diverse; oggi il vedere da punti di vista molteplici (e in questi anni digitali, chissà, la metafora prossima ventura potrebbe avere a che fare col tatto e col con-tatto).
Tutta la formazione alla terapia sistemica è un addestramento a quel “pensare per punti di vista” che è il fondamento della pratica clinica.
Tante sono le opportunità di auto-osservazione e di moltiplicazione di punti di vista a disposizione di un terapeuta. La supervisione in diretta, dietro lo specchio, e quella indiretta, in un momento successivo alla seduta. La supervisione individuale, in gruppo o di gruppo. La co-conduzione della seduta nella stessa stanza. Il reflecting team.
La consulenza costituiva gran parte dell’esperienza di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, nei loro viaggi intorno al mondo: un clinico o un’équipe “ospita” un collega in una terapia già avviata – familiare o individuale – che sente bloccata e improduttiva, per ricavarne qualche idea sul modo in cui inconsapevolmente contribuisce allo stallo.
Qualche tempo fa chiesi alla mia collega di studio [1] di avere una seduta con me e Alessia, una donna di trentatré anni che soffriva di pesanti paure legate ad esperienze traumatiche che risalivano alla sua giovinezza; queste paure la rendevano tremendamente ansiosa nel rapporto coi suoi due figli maschi di sette e cinque anni, che crescevano e cominciavano a sfuggire al suo controllo. In quel contesto, e grazie alle domande della collega, la donna riuscì a osservare che mi avvertiva piuttosto preso dall’aspettativa che facesse progressi per stare meglio: in certe sedute avvertiva le mie pressioni, in altre mi trovava silenzioso e pensoso – quasi alla maniera di uno psicoanalista. Sia nelle mie pressioni che nella mia avvilita rinuncia a farne, sentiva che le mie attese si opponevano al suo desiderio, che era semplicemente quello di parlare di come si sentiva e di ciò che le accadeva, senza dovere preoccuparsi di “guarire” a tutti i costi. Accolse anche con piacere un suggerimento della collega: per meglio affrontare l’irruzione dei suoi ricordi traumatici, avrebbe potuto chiedere aiuto a un professionista che praticasse tecniche di desensibilizzazione per superare il trauma, e tenere la terapia come luogo in cui parlare della propria vita con maggiore libertà.
Dopo quella consulenza prese delle informazioni sulla possibilità di sottoporsi a quel tipo di cura nella sua zona; anch’io le diedi qualche indirizzo. Abbandonò quel proposito dopo un paio di nostre sedute: le nostre conversazioni erano tornate a essere ricche come all’inizio della terapia, e forse sapere di avere altre possibilità – con me concorde – l’aveva in qualche modo liberata dalle ansie di efficienza del suo terapeuta. Ricominciai ad ascoltare il racconto delle sue giornate, e pensai che per Alessia poteva essere un modo più che utile di usare le sue sedute. Riuscì a venire a patti con le sue paure, a guardare i bambini partire per il mare con i parenti e a parlarne in seduta col cuore in gola ma contenta di riuscire a correre quel rischio.
È ovvio che quel che accadde in quella seduta di consulenza dovrebbe essere normalmente reso possibile dall’auto-riflessione del terapeuta e dalla sua disponibilità a comunicare adeguatamente sulla relazione: quel che voglio sottolineare è che nella pratica sistemica quel livello di riflessione è garantito anche dalla costante propensione a non considerarsi soli nella stanza di terapia. La terapia sistemica, ovviamente nel rispetto della riservatezza e della confidenzialità della relazione fra terapeuta e paziente – o famiglia – prevede pratiche di condivisione che in altre forme di terapia sono impensabili.
Dall’inizio della formazione il futuro terapeuta sistemico apprende a lavorare in un contesto che prevede il gruppo di osservazione e la videoregistrazione, da usare con il massimo di misure di protezione: misure che oggi, che l’informazione viaggia su supporti smaterializzati ed è così facilmente riproducibile, sono anche più severe. Impara a pensare al proprio rapporto col paziente non come un territorio privato e autoreferenziale, ma come un campo di responsabilità: nel senso originario della parola, cioè che implica il rispondere delle proprie scelte. Rispondere al paziente, a una rete di colleghi, a una comunità scientifica. E non solo.
3. Il “lavoro su di sé”
Il dibattito sul modo in cui i terapeuti delle diverse scuole si prendono, per così dire, cura di sé, genera talvolta nonsense del tipo: “alcune scuole di psicoterapia non richiedono l’analisi personale”. Che è come dire: “alcuni mezzi di trasporto non hanno pneumatici”: magari perché, ad esempio, corrono su rotaie – in quel caso non hanno pneumatici, ma hanno qualcosa che, in considerazione della loro struttura e della loro organizzazione, garantisce loro di avanzare e di svolgere la funzione che ci aspettiamo. Il punto è che ciascun mezzo di locomozione affronta il problema di quale sia il modo migliore di muoversi nel proprio particolare dominio.
Ci sono scuole di psicoterapia che richiedono ai propri adepti un severo percorso personale per conoscere e “far pulizia” di tutto quel che può inquinare o ostacolare la relazione terapeutica, “come garanzia per l’utenza e come sostanziale raffinamento delle proprie capacità di intervento” (Jesurum, 2017). Spesso, oltre a questo lavoro preliminare, è incoraggiata e prescritta la pratica della supervisione con un collega più esperto che guida il clinico, sin dagli anni della formazione, nella conduzione delle terapie che ha in carico [2].
La posizione della psicoanalisi è che l’attitudine del futuro analista si sviluppa nell’analisi personale. Sosteneva Freud in “Analisi terminabile e interminabile” (1937) che essa non può che essere breve: il didatta, in seguito ad essa, giudicherà se il candidato sia adeguato a un successivo addestramento. Il suo scopo è di permettere al futuro analista un’esperienza dell’inconscio, e di dargli gli strumenti per adoperare le successive esperienze ai fini della ristrutturazione dell’Io. Si contano posizioni anche differenti dentro la tradizione psicoanalitica. Lacan, per esempio, nel suo “Atto di fondazione” (1964), annuncia una rottura “con gli standard sostenuti nella pratica didattica”: se nella tradizione freudiana la seconda analisi è a priori didattica, per Lacan non è scontato che in essa si compia il cosiddetto atto analitico. “Uno psicoanalista è didatta per aver fatto una o più analisi che si sono rivelate didattiche”, e si riveleranno eventualmente tali solo a posteriori.
Ma la questione risale a parecchio tempo prima di “Analisi terminabile e interminabile”: nei “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” Freud (in 1912) la annovera fra i “meriti della scuola analitica zurighese”, e infatti è Jung il vero artefice del concetto di “analisi didattica”. A Jung risale la metafora delle “mani pulite” (v. Trevi, 1993, p. 141): come le mani del chirurgo devono essere asettiche, per non provocare danni al paziente, così lo strumento dell’analista (che non sono le mani, ma la sua stessa “psiche globale”) deve essere “disinfettata”, cioè messa “in condizioni di non nuocere” (ibidem).
Fuori dalla tradizione psicoanalitica, altre scuole si pongono il problema di come prendersi cura dei futuri terapeuti, e fondano anch’esse la propria didattica su lavoro personale e supervisione, ma le dimensioni e la durata di questa parte della formazione sono ben differenti dalla psicoanalisi, perché differenti sono le premesse teoriche.
Per fare un esempio, nella formazione alla Gestalt il senso della supervisione non è quello di insegnare modalità “giuste” di lavorare, quanto quello di fornire supporto nella co-costruzione della relazione unica col paziente. Le emozioni del terapeuta non sono lette come un controtransfert dal quale proteggersi, ma come strumento di conoscenza e “fondamento dell’esser-ci” e dell’empatia. L’adesione rigorosa alla teoria è più un rischio dal quale guardarsi che un ideale al quale rivolgersi: per quanto essa sia importante, non è centrale quanto il “vuoto fertile”, vale a dire quella distanza fra didatta e allievo che permette l’empatia e lo sperimentarsi emotivamente (v. Ravenna, 2003, e Simmons, 2003). I momenti di formazione continua, le “maratone”, sono esperienze intensive e residenziali di sviluppo della consapevolezza di sé e delle proprie difficoltà, che non prescindono dalla presenza del gruppo e da un clima caldo di condivisione.
Altri orientamenti prescrivono percorsi più o meno lunghi di terapia personale (da alcune decine fino a quasi duecento ore nell’arco dei quattro anni; chi dopo un po’ dall’inizio del corso, chi addirittura come prerequisito per l’accesso) non soltanto proporzionati al peso teorico che in ciascun modello riveste la soggettività del terapeuta, ma alla rilevanza che si attribuisce all’individuo e al gruppo nel gioco figura-sfondo che è il training alla psicoterapia.
Altre ancora, coerentemente con la propria “metafora fondativa”, si disinteressano della questione o non la ritengono decisiva, essendo centrate più su tecniche di modificazione dei comportamenti, che riducono in buona sostanza l’influenza delle emozioni del terapeuta (v. ancora Jesurum, cit.).
Un’altra ancora è la posizione dei terapeuti sistemici della Scuola di Milano.
Una terapia è un processo nel quale si trova – è auspicabile che si trovi – qualcosa di nuovo. In alcune lo si svela illuminando con la luce della coscienza contenuti mentali che per le ragioni più varie non raggiungono il livello della consapevolezza. In quella sistemica se un apprendimento avviene, esso riguarda soprattutto la cognizione di sé come parte di una rete di relazioni mutuocausali (si veda anche la ricerca di Bertrando e Defilippi, 2005) e del proprio punto di vista come parziale e incompleto. Distante sia dalla metafora chirurgica che da quella dell’esplorazione del profondo, il terapeuta sistemico è sensibile piuttosto al rischio di perdere interesse alla ricerca di descrizioni molteplici. Il terapeuta analitico ha cura di mantenere le “mani pulite”; quello sistemico si preoccupa di mantenere un addestramento costante a cercare realtà molteplici e a pensare che esse non sono necessariamente in contraddizione. Quello che può renderlo inefficace, o addirittura dannoso, per il paziente, è la perdita della curiosità (Cecchin, 1987); essa è necessaria per stare in una relazione unica e creativa con la famiglia o del paziente che ha davanti; per confrontarsi in modo non competitivo con il o la collega e con l’équipe; per riuscire a trovare nella seduta successiva punti di vista nuovi mantenendo allo stesso tempo la memoria della relazione terapeutica.
L’impegno del terapeuta sistemico è su due piani distinti ma fortemente connessi: autoriflessivo il primo, vale a dire conservare l’attenzione a quel circuito ricorsivo che connette il terapeuta, le sue premesse e il sistema osservato; cooperativo il secondo, cioè mantenere l’abitudine ad usare tutte le risorse della sua comunità: supervisione, lavoro d’équipe, confronto con i colleghi. Come dire: la formazione è anche imparare a non essere mai soli.
Come fra pensiero e azione esiste una relazione di reciprocità, così anche la riflessione su di sé non è disgiunta dalla pratica: è parte di un processo in cui il terapeuta oscilla costantemente tra diversi centri di attenzione (dal sistema preso in carico a se stesso come osservatore), ed è un processo che attraversa tutto l’arco del suo lavoro, più che una forma di igiene preventiva.
“Se vuoi vedere impara ad agire”, dice von Foerster (1973): i nostri stessi punti ciechi ci sono tanto più ignoti quanto più cerchiamo di vederli (e come potremmo, se sono ciechi?). Non c’è modo di acquisirne consapevolezza se non attraverso il movimento, attraverso variazioni nella posizione del corpo e nella distanza con l’oggetto, che ci mostrano non solo come non vediamo, ma anche i modi in cui ci inganniamo credendo di vedere, tanto da non sapere di essere ciechi (vedi l’esperimento discusso anche da von Foerster e Porksen, 2001, p. 113).
A interrogarsi su come vede quel che vede nel corso dell’azione, il o la terapeuta si addestra dalle prime esperienze in cui affianca il docente nella stanza di terapia. Quando torna col gruppo di formazione, nella pausa e al termine della seduta, l’attenzione di tutti sarà sul suo vissuto: come si è sentito nella relazione con la famiglia, quali fatiche e quali ostacoli ha dovuto affrontare, quali emozioni quell’incontro ha generato. Il gruppo, a sua volta, si sperimenterà in una posizione rispettosa e non prevaricante di aiuto e di ascolto.
Ci sono anche i momenti in cui il “lavoro su di sé” è rivolto più direttamente alla storia dell’allievo. Una possibilità a cui è auspicabile che tutti accedano è il lavoro in gruppo sul proprio genogramma familiare (Sorrentino, 2008; Ganda, 2010). Dove è centrale certamente il lavoro di connessione fra momenti della biografia dell’allievo – e fra quelli e il momento presente – ma è sommamente importante il fatto che queste connessioni diventino narrazione polifonica, attraverso la partecipazione del didatta e del gruppo di formazione. Un aspetto importante di quell’esperienza sta nello sperimentare come quella storia generi domande e risposte diverse a seconda degli occhi che guardano.
Di grande utilità, nella formazione di futuri psicoterapeuti, è anche il genogramma culturale (Hardy, Laszloffy, 1995; Hoffman, 2001) e il genogramma professionale (Schinco, 2005). Attraverso la rappresentazione grafica di una sorta di genealogia professionale, esso aiuta a vedere le proprie scelte dentro una rete di appartenenze e di influenze affettive e identitarie oltre che culturali, attraverso il racconto degli incontri importanti e dei legami stretti nel corso della formazione e del lavoro, come dei legami personali che hanno influenzato quelle scelte.
I genogrammi, riproposti a distanza di tempo e osservati nelle somiglianze e nelle differenze tra le versioni successive, possono dare la misura di quanto l’allievo abbia modificato le proprie premesse o il modo di vedersi, e di quanto questi siano flessibili o rigidi.
Non è nemmeno infrequente che la domanda di cura delle proprie lenti trovi risposta anche in una terapia o in una analisi personale. È una scelta da incoraggiare, perché spesso costituisce un’occasione cercata e desiderata, più che un vincolo a cui attenersi durante la formazione. Anche simili occasioni di cura di sé hanno certamente lo scopo di aiutare una riflessione sulla propria biografia e sulle proprie premesse e su come esse guidano lo sguardo del terapeuta. Oltre a ciò, al livello del contenuto costituiscono un’esperienza di decentramento del punto di vista e un’esperienza nella posizione del paziente.
Per “decentramento del punto di vista” mi riferisco a quelle esperienze che insieme a delle buone spiegazioni della realtà forniscono, paradossalmente, la cognizione che ciascuna di quelle spiegazioni è parziale e limitata.
Nel corso della mia formazione, un lavoro di alcuni anni con una terapeuta psicosocioanalitica fu molto gratificante per la possibilità che mi offrì di chiarire alcuni nodi biografici che mi riguardavano; mi capitò nello stesso periodo di lavorare con Gianfranco Cecchin e col mio gruppo di quell’anno al mio genogramma familiare. Fu illuminante non soltanto per i contenuti in sé – ne emerse una trama alla quale non avevo mai pensato e che mi parve piuttosto esplicativa – ma anche per il fatto che la storia che ne emergeva prendeva tutt’altra direzione da quella che andava chiarificandosi nel mio trattamento analitico. In nessun momento ho sentito il bisogno di domandarmi quale fosse la versione “vera”.
Circa quella che ho chiamato “esperienza nella posizione del paziente”, vorrei ricorrere a un parallelo con la letteratura (è vero o no che il nostro lavoro ha a che fare col costruire storie? Diamo ascolto allora ogni tanto a chi sulle storie si interroga, cioè gli scrittori). È fuor di dubbio che per diventare uno scrittore sia necessario leggere molto. Per imparare dai maestri? Certamente, ma non solo. Come dice Giulio Mozzi (2009):
Non c’è altro modo di imparare a immaginare il lettore, che provare a sentire noi stessi mentre siamo lettori. Per questo si dice (…): “Se vuoi scrivere, devi leggere”. Perché noi siamo prima di tutto lettori, perché scriviamo in quanto abbiamo letto, abbiamo fatta l’esperienza del leggere. (corsivo mio)
Come per lo scrittore è importante “mettersi nei panni” del lettore, allo stesso modo per il terapeuta stare in un processo terapeutico dal punto di vista del paziente è una esperienza formidabile. “Immaginare il paziente” è ascoltarsi mentre si è seduti dall’altra parte, e ascoltare gli effetti su di sé di quel che succede nel processo terapeutico: è avere la misura della responsabilità che chi cura si assume accogliendo il compito che gli viene affidato. Dunque La cura delle proprie lenti consiste nel coltivare la consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista e nell’immaginare quest’ultimo come uno dei tanti possibili. Il modo in cui ha cura delle proprie lenti consiste soprattutto nel fare di tutto per non sentirsi mai solo. Appartenere a una comunità di colleghi, a un’associazione scientifica. Non lavorare in solitudine, quando la situazione lo permette, e cercare occasioni di confronto sulla propria attività, quando non è possibile condividerla nel suo svolgersi. Leggere più che può: non solo per essere al corrente dell’ultima teoria, quanto per misurare il tempo di vita di quella che gli sembrava così definitiva, E poi nutrire il proprio immaginario di storie e metafore. Affidarsi all’arte, al cinema, leggere libri di narrativa e provare a pensare che le storie che si possono raccontare sono infinitamente più numerose di quelle che stanno nella sua testa.
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[1] Elisabetta Mendini, con cui condivido le sedute di terapia della famiglia a Brescia.
[2] Mi hanno aiutato ad esplorare i modi in cui le diverse Scuole affrontano la questione della cura del terapeuta, in relazione alla propria cornice epistemologica, alcune conversazioni con i colleghi Costanza Jesurum, Marco Tarantino, Alessandro Busi, Francesca Di Sipio. Li ringrazio di cuore per la disponibilità.