di Laura Formenti, con un’introduzione di Paolo Bertrando
(da Connessioni n. 10, settembre 1995)
L’importanza clinica – oltre che teorica – di un modello terapeutico è direttamente legata alla sua applicabilità: alla possibilità, cioè, di adattare e plasmare la pratica così da farla corrispondere alle necessità dei diversi contesti di applicazione, senza per questo tradire o alterare irrimediabilmente i principi-base su cui il modello è fondato.
Il modello di Milano ha dimostrato negli anni il suo alto grado di applicabilità, passando dal contesto selezionato e ristretto di un Centro privato all’espansione, attraverso la formazione degli operatori, nei servizi pubblici italiani; contemporaneamente, si è rivelato anche applicabile ad altri contesti culturali e sociali, dando vita a una rete di scambi che ha interessato colleghi di tutto il mondo. Da questa attività è originata non solo una disseminazione ubiquitaria del modello, ma anche una sorta di fertilizzazione incrociata: l’attività del Centro si è modificata, per via sia del contatto con gli allievi italiani, sia dell’influsso internazionale, d’altra parte varie scuole sono passate dalla semplice applicazione dei precetti fondamentali del modello (connotazione positiva, ipotizzazione, neutralità, domande circolari, importanza dell’inviante e così via) all’amplificazione dell’uno o dell’altro (la categorizzazione delle domande circolari, il sistema determinato dal problema, l’importanza del linguaggio, il reflecting team e così via). Questo fenomeno è diventato noto come “Post-Milan Approach” o post-Milano. È legittimo, allora, chiedersi che cosa i tanti colleghi esposti negli anni alle idee originate nel Centro milanese abbiano ritenuto della loro esperienza, e quanto di Milano rimanga ancora nella loro prassi attuale. Queste le domande che abbiamo posto a una serie di terapeuti di spicco che in anni diversi hanno ricevuto una formazione o comunque un’influenza da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. Le loro risposte sono qui riunite e, insieme a due interviste in cui Boscolo e Cecchin offrono una sintesi delle loro idee attuali sulla formazione sistemica.
È proprio la varietà delle risposte dei colleghi il dato che più colpisce in questa collezione, dal puro riferimento autobiografico al resoconto clinico, fino alla più profonda elaborazione teorica. Tanta varietà dimostra quanto il modello di Milano sia riuscito a essere, più che una serie di “regole” terapeutiche da applicare in maniera più o meno diligente, uno stimolo alla riflessione autonoma e al cambiamento per i colleghi, proprio come spesso lo è stato per i clienti. E testimonia anche l’apertura, l’interesse, la capacità innovativa dei colleghi che hanno compiuto insieme al Centro e ai suoi rappresentanti almeno una parte della propria strada.
Paolo Bertrando
La formazione del terapeuta: conversazioni con Boscolo e Cecchin
Boscolo: Un viaggio alla ricerca di mondi possibili
Formenti – Luigi, so che queste cose le avete raccontate tante volte, ma cominciamo a dire qualche cosa della Scuola di Terapia Familiare, di come è nata.
Boscolo – La decisione di iniziare un training in terapia della famiglia risale al 1978. Cecchin e io iniziammo con due gruppi, l’idea era insegnare il modo di lavorare sviluppato negli otto anni precedenti. Eravamo già usciti dall’approccio strategico, specie dopo che la lettura di Bateson ci aveva portato ad abbandonare l’idea della scatola nera. Già allora eravamo interessati al dialogo (oggi diremmo conversazione) e all’orizzonte temporale più ampio, che comprendeva oltre al presente anche il passato e il futuro. La nostra domanda era: Come mai le famiglie che vediamo hanno trovato la “soluzione patologica” tra tante possibilità? Questo ci incuriosiva, capire come la famiglia si era organizzata per arrivare alla situazione in cui uno o più membri presentavano una sofferenza.
F – Quali premesse vi siete dati nell’iniziare questa avventura?
B – Fin dall’inizio avevamo l’idea di un isomorfismo tra terapia, training e ricerca. Pensavamo che al centro di questi tre contesti doveva esserci la cosiddetta team, cioè il sistema degli operatori. La team era vista come sistema – noi allora eravamo “quattro cervelli in batteria” – che continuava ad elaborare informazioni. Interessante è che già a quel tempo, e questo ci distingueva dalle altre scuole, eravamo usciti dall’idea della verità e abbracciavamo completamente l’idea dei punti di vista. Ognuno di noi poteva soltanto fare punteggiature. Questo ci ha permesso di anteporre le idee alle persone; se si parte dall’idea della verità, c’è qualcuno che la possiede, che l’ha studiata di più, che la conosce di più. L’approccio di Milano era basato dunque sulla team paritetica. A differenza degli approcci strategici, basati sull’idea di gerarchia. Anche dal punto di vista pratico: lì c’era il supervisore che dirigeva il gioco da dietro lo specchio, addirittura con il telefono, ad esempio Minuchin continuava a chiamare il terapeuta, a volte entrava in seduta ignorandolo completamente. Noi abbiamo preso un’altra strada, quella della team paritetica e dell’ecologia delle idee.
Quindi, già da allora eravamo costruttivisti e forse costruzionisti, senza saperlo. Ce ne siamo accorti nel 1985 durante l’incontro di una settimana a Calgary, in Canada, con Maturana e von Foerster. Furono colpiti dal fatto che il nostro modo di lavorare aveva senso per loro, e viceversa le loro idee avevano senso per noi. È lì che abbiamo imparato che lavoravamo con concetti simili, che provenivano in gran parte da Bateson.
Ad ogni modo, per tornare al punto iniziale, sulla base delle nostre esperienze decidemmo che il punto centrale del training doveva essere l’elaborazione di informazioni, di idee, la ricerca dei pattern che connettono. Lo facevamo già come terapeuti e dovevamo utilizzare questa idea anche nel training, ecco l’isomorfismo. In quel periodo ricordo di aver letto qualche articolo su altre scuole (negli Stati Uniti, perché in Italia eravamo la prima); si parlava già allora di tre possibili contesti di apprendimento: Contesto terapia, cioè il gruppo imparava nel fare terapia in vivo, oppure vedendo le video-cassette e così via. Il secondo contesto era la riflessione nel gruppo sul sé del terapeuta; secondo le diverse scuole, si partiva da una sorta di terapia di gruppo, utilizzando racconti personali, del proprio passato, per poi interessarsi alle dinamiche di gruppo ed alle reazioni che emergevano nel qui ed ora. Terza possibilità: già allora un paio di centri avevano introdotto l’interesse per la famiglia d’origine dell’allievo. Che poteva avvenire in forma verbale, raccontandola, o addirittura portando la famiglia per una consulenza, che a volte si trasformava in terapia vera e propria. Queste erano tre possibilità che avevamo anche noi. Invece scegliemmo di occuparci in maniera diretta soltanto della famiglia o della coppia, lavorando in modo che i membri della team esprimessero i loro diversi punti di vista. Ritenevamo che questo fosse necessario e sufficiente per diventare terapisti della famiglia. Quello che allora era più importante per noi, e rivoluzionario, era il pensare sistemico, cioè pensare in senso circolare e non solo lineare causale. Questo tipo di pensiero era nuovo, eccitante, oggi forse se lo aspettano, ma allora era proprio una cosa nuova. E così, lavorando con queste premesse di base gli allievi potevano cambiare le loro premesse individuali, sviluppare nel tempo un’idea diversa di sé, della loro famiglia e del mondo che li circondava. In questo senso aveva un effetto “terapeutico” sugli allievi stessi.
Qualche volta Cecchin e io dedicavamo un’ora o due a chiedere agli allievi se ritenevano che ci fosse stato un certo cambiamento nel loro modo di vedere. La maggioranza diceva che la teoria e prassi sistemica avevano permesso loro di vedere in modo diverso, di vedere le cose da più punti di vista. Avendo avuto queste retroazioni favorevoli, ci siamo sentiti soddisfatti – come si direbbe oggi – del cambiamento del “sé” del terapeuta-allievo e quindi abbiamo continuato per quella strada.
F – Come mai avete scartato le altre possibilità, di agire sul gruppo?
B – È ovvio che agendo in un gruppo indirettamente lo influenzi: quando decidi di fare una domanda, fai un’azione come docente. Ci siamo limitati ad agire sulle dinamiche di gruppo in modo discreto e attraverso l’azione, evitando le interpretazioni. Ma quello che ci ha portato a scartare l’idea di lavorare direttamente sulle dinamiche del gruppo è stato il timore di creare confusione. Anzi, il termine giusto è “complessità”: il dubbio di creare un grado di complessità che alla fine poteva diventare pregiudiziale rispetto all’apprendimento. A posteriori dico che è stata una decisione logica e ne sono contento. Anche perché all’inizio era meglio ridurre il grado di complessità. Come i chirurghi quando operano: tengono pulito il campo, procedono per gradi, vanno a strati…
F – Si può dire che comunque si realizza una vera e propria formazione personale, nel modo di lavorare che la scuola propone?
B – Sì, perché l’allievo durante la formazione viene ad assumere diverse posizioni nel sistema. Nella simulata può essere cliente, paziente. Può essere terapeuta, nella simulata e nella realtà. Può far parte del gruppo terapeutico che discute con il terapeuta, e poi può essere membro del gruppo esterno, di osservazione. Operando da diversi punti di vista l’allievo vive un’esperienza diretta della complessità. Non si tratta solo di un’idea, ma è l’esperienza che effettivamente non esiste la verità, ma solo punti di vista connessi al ruolo e alla posizione che si ha nel sistema. In questo senso quella che facciamo è formazione, e non soltanto informazione. E ritengo anche che la formazione sistemica debba dare la possibilità agli allievi di entrare in contatto con la loro creatività. Mi piace molto l’idea di creatività. Quando ho cominciato a lavorare con i sistemi, negli anni ‘70, il modello puzzava un po’ di behaviorismo, poi a poco a poco si è aperto, e questo proprio grazie all’apertura verso i significati e alla struttura più complessa, cioè al gruppo, in cui si sviluppano diversi punti di vista. Questa premessa è ineliminabile nel nostro modo di lavorare.
F – Secondo te per quali motivi sta ora nascendo questo nuovo interesse per la formazione personale degli allievi?
B – Ci sono varie ragioni. Ora cerco di vedere questa evoluzione dal punto di vista storico. Nel tempo, ci si abitua a usare un certo format. In Italia, Andolfi, Cancrini, per esempio utilizzano da molto tempo l’intervento sulla famiglia dell’allievo come uno dei cardini della formazione. Qualche volta lo faccio anch’io se me lo chiedono, al quarto anno. Però non lo sento come parte integrante del nostro programma. Secondo me non si tratta soltanto di un problema teorico, è anche un problema politico. Adesso ci sono tanti approcci, tante scuole, e chi “fa di più” tende inevitabilmente a presentarsi come più serio. Trovo che sia un po’ triste e superficiale tutto questo.
Ma ci sono altre ragioni che vale la pena sottolineare. Mi preme rilevare che i modelli di terapia breve – Watzlawick, Haley, Erickson – cominciano con il non fare una distinzione che invece fanno tutti gli altri modelli: la distinzione tra sanità e patologia. È il paziente che decide qual è il problema. E questo problema è visto come problema esistenziale in un circuito comportamentale, un pattern in cui il tentativo di soluzione diventa il problema. Rompere questo pattern è la finalità della terapia. In questi modelli, problema e soluzione racchiudono tutto ciò che, in quanto terapeuta, devi sapere. Come conseguenza diretta, il tempo della terapia si è abbreviato. In questi modelli il problema della relazione terapeutica, del mettersi in una posizione di ascolto, dell’esplorare insieme, è secondario. Il discorso è molto diverso per l’analisi e le terapie basate sulla persona, in cui i sintomi sono epifenomeni, e il problema sta in qualcos’altro. Questa distinzione è fondamentale. Come analista ero stato addestrato a pensare che il problema stava in qualcos’altro, per me Palo Alto è stato come scoprire un nuovo continente. Ed effettivamente ho visto dei cambiamenti, anche rapidi. Le terapie basate sulla persona sono inevitabilmente più lunghe, mentre le terapie basate sul problema contano una media di 4-5 sedute. Inoltre si applicano a tutti i casi. Alcuni ammettono che per le psicosi è un altro discorso. Oppure chi ha problemi di ansia diffusa, borderline, disturbi post-traumatici, questi probabilmente hanno bisogno di una terapia rivolta alla persona. In questa seconda categoria di terapie metterei anche la nostra, in quanto è indirizzata a cambiare le premesse, le idee, a creare un contesto di deutero-apprendimento, è una terapia batesoniana. Nelle terapie sulla persona il terapeuta e il cliente non sanno mai dove sono, non c’è un obiettivo specifico. Semmai puoi dire a posteriori: all’inizio era cosi, adesso è così. Puoi descrivere dei cambiamenti, ma è difficile prevederli, e anche trovare le ragioni per cui sono avvenuti: è un viaggio aperto. Ora, l’evoluzione che sta avvenendo mi dà l’impressione che si stia mutuando dalla psicoanalisi l’idea che per fare questo lavoro gli allievi devono fare un’analisi personale, per conoscere se stessi. Il problema è complesso: abbiamo noi una teoria che possa andar bene per l’individuo? I terapeuti della famiglia hanno dovuto ammettere da tempo che più o meno inconsciamente si avvalgono della psicologia, della psicoanalisi, anche se dicono di no. La teoria sistemica poteva essere considerata una metateoria, più che una teoria. Il costruttivismo, in particolare Maturana e la seconda cibernetica, e anche il cognitivismo sono teorie che danno un senso alla relazione tra l’individuo e il mondo esterno. L’altro riferimento è quello psicodinamico. Mi pare che alcuni tempisti anche sistemici abbiano come riferimento la teoria psicoanalitica. A questo punto, se dovessimo andare a parlare della personalità del terapeuta, con quale teoria la vediamo?
F – È necessario avere una teoria? Con gli ultimi sviluppi epistemologici si è detto che le teorie sono tanti punti di vista, e che avere una teoria forte è limitativo. Perché scegliere a priori una teoria psicologica, quando per noi le teorie psicologiche sono strumentali? Un modello ce l’abbiamo, tutto quello che hai detto ne è la testimonianza, ci sono premesse costruite nel tempo, condivise, che sono in grado di dare senso alla nostra pratica…
B – Si deve andare oltre le teorie. Un vecchio articolo di Whitaker s’intitolava “Contro le teorie”. Il percorso che deve fare un allievo nel training è di imparare delle teorie, servono per trovare delle regolarità, ma evitando di diventare ortodosso, di avere una teoria forte. Quindi tenendo aperti gli occhi anche su altre teorie. Le persone che hanno esperienza tendono, nel tempo, a trascendere le teorie. Una volta chiesero a von Foerster qual è la teoria di Minuchin o di Whitetker, perché sembrano fare cose incoerenti con la teoria… e lui ha risposto: “Il Maestro è la teoria”.
F – Eh, sì. Ogni Maestro è una teoria implementata in un corpo, in una pratica di vita.
B – Questa posizione trascende la teoria. Nel libro che sta per uscire, sulla terapia individuale sistemica, uso l’idea di epigenesi. Dirò, tra l’altro, che – vuoi o non vuoi – non puoi eliminare le teorie avute in passato. È un’ingenuità, semplicemente, diventano il non detto. Negli anni ‘70 eravamo convinti di lavorare con l’approccio sistemico e di aver abbandonato le idee precedenti. Invece ci siamo accorti che non si può.
F – Forse allora il discorso della formazione personale dovremmo spostarlo dall’idea di terapia a quella di educazione, o conoscenza di sé. Ha a che fare con la valutazione dei nostri apprendimenti e con la loro integrazione. Le persone che escono di qui sono in grado di “usare” questa formazione? Si citano spesso ostacoli esterni, istituzionali (“nel mio servizio, questo non si può fare”), ma in realtà dipende da una mancata integrazione tra apprendimento e vita. Come uno integra nella propria vita (professionale e non) la teoria, il modello appreso? Non possiamo evitare di interrogarci su questo.
B – Dobbiamo creare le occasioni per riflettere. Mi vengono in mente due possibilità che sono un mio sogno da diverso tempo. Uno dei meriti del nostro training è che non è gerarchico. Il fatto stesso che siamo in due e su molte cose abbiamo idee diverse è in sintonia con il discorso che facciamo, nel senso che permette di pensare, di trovare anche tu le tue posizioni. Ma mi sembra che manchi un anello ricorsivo: dovremmo creare un continuo dibattito interno su quello che si fa con le famiglie e con i gruppi, su che cosa può essere formativo, sulle teorie di riferimento, ecc. Ad esempio, la tua idea che certi allievi si nascondono è interessante come metafora. Potrebbe portare a una riflessione tra didatti, e poi a idee che implementi non tanto con il verbale, ma con l’analogico. Nel senso che dalla discussione dovrebbero sorgere, in maniera quasi automatica, nuove idee e nuove prassi. Una seconda iniziativa che riterrei molto utile dovrebbe essere quella di proporre degli stage, ad esempio ogni due anni, per gli ex allievi, che ti portano i feed-back raccolti nel tentativo di portar fuori l’approccio, magari 5-6 anni fa. Tu li ascolti e li “aggiorni” sulle nuove idee emerse nel frattempo. Questi sono due esempi di “sistema che apprende”, che si auto-organizza.
F – Se invece dovessi organizzare un percorso di formazione personale del terapeuta, come lo faresti?
B – Si potrebbe fare in piccoli gruppi, cioè utilizzare sempre la team. Invece dell’individuo, usare il piccolo gruppo. In un piccolo gruppo possono parlare delle loro emozioni, sempre finalizzate al loro lavoro. Questo sarebbe il corrispettivo dell’analisi didattica…
F – Però non sarebbe connotata come una terapia. Piuttosto come un modo per conoscere se stessi, anche dal punto di vista cognitivo e non solo emotivo. Far emergere l’“inconscio cognitivo” è altrettanto importante che lavorare sulle emozioni.
B – Tu come lo faresti? Faresti raccontare nel piccolo gruppo lo storia di vita di un allievo?
F – Sì, ad esempio ricostruire aspetti della biografia personale che sono legati alla pratica terapeutica. Per certi seminari ho usato un questionario come stimolo iniziale alla discussione. L’obiettivo era focalizzare certe premesse personali. Ad esempio, qualcuno dice: io lavoro da 5 anni in una stanza orribile, dove mi sento malissimo, sento che non è casa mia… come mai? Come c’entra questo con un certo modo di posizionarsi nella professione, rispetto al Servizio, con i clienti? Non sono solo aspetti emotivi. E non mi piace l’idea della “pulizia dell’anima”: puoi fare il terapeuta solo se prima fai la tabula rasa. È un obiettivo illusorio.
B – Quello che mi preoccupa è la rigidità. Nell’analisi classica, la purificazione dell’anima contiene una rigidità, perché c’è un solo percorso possibile, basato su certi parametri che sono sempre gli stessi. Quello ti preclude altri mondi. I mondi possibili che io ho scoperto nel mio viaggio, per esempio il mondo della terapia strategica, usare la distinzione problema/soluzione, niente patologia, sono diversi. Adesso c’è il mondo ermeneutico, dove tutte le tipologie scompaiono ed entri nella narrazione. Anche quello è un mondo possibile. E credo che se ne conosci due o tre, se entri in diversi mondi possibili, diventi un miglior terapeuta che se rimani in un mondo per dieci anni, o fai per dieci anni una terapia…
F – Sì, perché anche il linguaggio dopo un po’ diventa involuto…
B – Non solo: eviti situazioni incresciose quali l’analisi classica con i bambini o con le anoressiche. Psicoanalisi che durano in media 12 anni e senza certezza di risultati. Quando fai terapia, se conosci più di un mondo possibile, teorico e anche pratico, puoi calibrare le tue idee e anche il tempo della terapia in base a quello che osservi. Se hai la conoscenza del mondo possibile “terapia breve”, e magari la persona ti porta un problema di agorafobia o insonnia, puoi in 3-4 sedute risolvere questo problema e il paziente è contento. Se vuole continuare, continua. Se non vuole, ha finito, perché ritornerà se avrà problemi, in quanto un risultato l’hai ottenuto. Qualcuno ritorna, ma la maggioranza va avanti senza ritornare. E questi sono risultati.
F – In questo modo non crei dipendenza dalla figura del terapeuta.
B – Il problema da evitare è proprio quello della dipendenza: dall’analista, dai farmaci, e anche dalla teoria. Se hai una teoria sola, c’è il pericolo che diventi dipendente da questa teoria. Bisogna superare le categorie valoriali per cui “ortodossia è bene, eterodossia è male”. Oppure “psicoanalisi è profondità, il resto è superficie”. Tutte queste idee creano steccati, e alla fine sono idee nefaste. Ci ho messo anni per capirlo; ero analista negli anni sessanta, era come una religione, le altre erano “terapie ortopediche”. Alla fine ho capito una cosa banale: è l’uovo di Colombo, ma dovevo arrivare a sessant’anni per capirlo. Sono anni che leggo nei libri che ogni paziente è diverso dall’altro, ma poi le teorie prendono possesso di te e ti fanno vedere delle cose. Adesso sì capisco quello che vuol dire “le persone sono diverse l’una dall’altra”, ogni teoria è un punto di vista, una rete come quella dei pescatori, che i pesci non li prende tutti… e sono convinto che in certi casi la psicoanalisi non solo non è indicata, ma è pericolosa, mentre un intervento di ipnosi, oppure strategico può essere la risposta più adeguata. In altri casi la psicoanalisi può essere la risposta.
F – Quello che dici indica una maturità del modello, ormai l’approccio sistemico ha un po’ di anni…
B – No, penso che dipenda proprio dal modello sistemico, dalle sue idee di base. Prima di tutto, il fatto di non prendere mai per buono quello che vedi, ma sempre estendere il contesto. Il cliente viene già con una sua visione, ma estendendo il contesto gli permetti di vedersi diversamente, allarghi il suo spazio e tempo, per cui riesce a posizionarsi diversamente nei confronti della sua storia. La seconda idea è il fatto di non avere una teoria chiara e precisa adattata all’uomo, come l’ha sviluppata Freud. Il complesso di Edipo, per esempio, è una teoria che ti indirizza a vedere i rapporti triadici in un certo modo, e già introduce una rigidità nel tuo pensiero. Terza idea, la visione circolare. No, non è solo una questione di maturità, tu puoi anche maturare e diventare sempre più rigido. Credo che invece il modello sistemico abbia dato la possibilità di uscire dall’idea di verità. Tutti gli interventi possono avere un effetto, quindi esci dall’illusione che c’è un modello teorico, una prassi terapeutica che è quella vera. In fondo, sono queste tre-quattro idee che hanno creato la rivoluzione, che hanno permesso di arrivare all’accettazione degli altri mondi possibili.
G. Cecchin: Per un modello non autoritario
Formenti – Gianfranco, qual è la tua posizione rispetto alla formazione personale del terapeuta, il famoso “lavoro su di sé”?
Cecchin – È un’idea che viene dalla psicoanalisi… Penso che per prima cosa sarebbe interessante capire se le persone che vengono da noi cambiano il loro stile, all’inizio dicevano di sì, che cambiava non solo con i pazienti, ma anche nella loro vita relazionale. Poi, penso che si possa lasciare agli allievi la libertà di presentare la loro famiglia, se vogliono. Il genogramma familiare. Però ci vogliono una domanda e un metodo preciso. L’allievo descrive liberamente la sua storia, il gruppo ascolta, poi discute senza parlare con l’interessato, cercando di rispondere alla domanda: “Perché questo collega ha scelto di fare questo mestiere?” Deve essere mirata in questo modo, perché dire: “Vediamo che problemi ha” non ha senso. Oppure “Che tipo di personalità ha”, siamo fuori strada.
F – Ma non siamo fuori strada anche dando per scontato che il lavoro debba essere fatto proprio sulla famiglia? Dipende anche dal tipo di storia che un allievo porta in quel contesto. E poi, mi viene in mente che si può lavorare non solo su “come mai questa professione”, ma anche “come mai proprio il modello sistemico”.
C – Sì. Uno dei motivi di successo della nostra scuola è stato proprio per il fatto che liberavi le persone dall’obbligo dell’analisi. La psicoanalisi è troppo faticosa, lunga e anche costosa. Poi dipendi da una persona, l’analista didattico: se non è soddisfatto lui non c’è niente da fare. È una forma autoritaria. La nostra è una forma democratica, che “viene dal basso”. Però il discorso è: si riesce ad imparare stando dentro una forma democratica? Nel ‘68 hanno tentato di creare un’università assembleare, democratica, ma non ha funzionato. E questa funziona o no? Sarebbe interessante discuterne. Per esempio, Andolfi, Minuchin, ed altri hanno le idee chiare, propongono uno stile autoritario: l’insegnante ne sa di più, è più bravo dell’allievo. È più prevedibile come stile. Noi continuiamo a dire che è la famiglia che deve trovare le sue risorse. Quindi anche l’allievo deve trovare le sue risorse, il suo stile personale.
F – Per cui, se un allievo ti venisse a dire “io ho deciso di fare un’analisi personale”, va benissimo…
C – Certo, se questo è il suo percorso… ma l’idea su cui dovremmo lavorare è quella di stimolare un allievo a scoprire quali sono i suoi handicap e trasformarli in risorse.
F – Mi piace, e come fai a mettere l’allievo in condizione di porselo, il problema? Mi sembra che oggi, così come è organizzato adesso il training, sia sempre possibile per un allievo “nascondersi”, “raccontarsi delle storie” ed evitare così di occuparsi di sé, anche perché il gruppo è molto forte. Andando avanti senza porsi mai una domanda di tipo auto-riflessivo, è facile pensare di riprodurre semplicemente dei modelli…
C – La nostra strada nel training è quella di far entrare gli allievi con le famiglie, che sono come dei “Rorschach”, no? E poi chiedere: “Che cosa pensi, che fantasie ti vengono con questa famiglia?”. Io vedo che funziona, in questo modo. Interrompo gli altri: “Non interferite, sentiamo le sue fantasie”. E dopo la gente si guarda e dice: “Ma che strane fantasie, noi dietro lo specchio ne avevamo altre”. È così che uno si accorge di avere qualche cosa di suo, no? In altre parole, bisogna dimostrare sul campo che quello che uno dice viene dall’esperienza personale. La lettura che fai del mondo dipende dalla tua storia.
F – Forse però qualcuno pensa ancora che il problema sia stabilire qual è la verità. Ho provato a seguire per caso dei terzi o quarti anni, e trovo che ci siano differenze anche grandi tra gruppi e tra allievi diversi, direi proprio a livello epistemologico, su come affrontano l’essere con la famiglia. Non dico che si possa o si debba standardizzare il percorso, però renderlo più esplicito, forse.
C – Bisognerebbe cominciare fin dall’inizio con l’idea costruttivista che per vedere la realtà in un certo modo ci vogliono anni e anni, lo impariamo fin dalla nascita. Dopo, andiamo avanti con degli schemi. La capacità di organizzare il linguaggio con una grammatica è biologica. Ma i modi di usare una grammatica per leggere il mondo non lo sono. Quello che metti dentro la grammatica dipende dalla tua esperienza. Ecco, se noi cominciamo dal primo anno a dire: “Avete tutti una testa diversa uno dall’altro e se vi mettiamo insieme non è perché cominciate a leggere il mondo tutti uguale”. Essere in gruppo serve a diventare coscienti che tu hai un modo originale di vedere la realtà. E non lo sai neanche. Spesso è confuso e non riesci neanche a descriverlo. Invece ognuno di noi è una “roccia di pregiudizi”.
F – Quindi si potrebbe dire che l’obiettivo del training è far emergere questo nucleo roccioso pregiudiziale…
C – Sì, anzi, se uno non li ha vuol dire che non ha nessuna idea, che può cambiare idea ogni giorno, è una posizione strana, pericolosa… Invece anche le persone più miti, più tranquille, se riesci a provocarle abbastanza scopri un nucleo imbattibile… E trovi che spesso i discorsi si ripetono. Ad esempio, c’è quello del “fare le cose per gli altri”. Il pensiero è: “Se io faccio qualcosa, deve essere per qualcuno”. Quindi l’incapacità di dire: “Faccio questa cosa per me”… “Se penso a me non penso a niente”… “Se faccio qualcosa è per i bambini, per l’umanità, per gli altri”. Non ti rendi conto di avere questa follia, non ti rendi nemmeno conto di quanto fai arrabbiare gli altri con questa follia.
F – Come terapeuti e come adulti è importante occuparsi di sé, dei propri desideri e dei propri limiti. Per me è il tema del momento, questo. Invece, per un vecchio malinteso, lavorare con il gruppo significa spesso escludere la riflessione sui singoli e su di sé. E il contesto del gruppo sistemico è affascinante: se si lavora bene insieme, tutti diventano più intelligenti. Ma poi, quando vai fuori, quanto riesci davvero a spendere questa intelligenza nei tuoi contesti abituali? Questo è un problema.
C – Bisognerebbe praticare fin dall’inizio l’idea dei pregiudizi. il gruppo serve per tirarli fuori, trasformarli in linguaggio e renderli utili.
F – Quindi non dobbiamo aggiungere niente a quello che già c’è.
C – C’è e devi solo imparare ad usarlo nel mestiere che stai facendo. Lo potresti usare in qualsiasi mestiere, ma specialmente nel campo terapeutico i pregiudizi personali non elaborati possono essere un danno. Per altri lavori è meno ovvio il danno che fai, invece nel nostro campo è indispensabile capire quali sono, per metterli al servizio del cliente. Si potrebbe anche usare l’idea neurologica: se da un occhio vedi male, per anni usi solo quello sano, così quello malato diventa sempre peggio, allora la cura è quella di impedire per un certo tempo di guardare con l’occhio sano. Lo stesso vale per i pregiudizi; tu hai un’idea, per esempio quella di dire: “lo lavoro per gli altri”. Per cui uno si esercita solo su quell’attività lì e non riesce a sviluppare altri elementi, tipo un sano egoismo, eccetera. Per cui, anche con gli allievi, il lavoro che fai è tirar fuori questi aspetti che sono stati trascurati, descriverli e usarli.
F – Durante l’attività clinica secondo me non c’è tempo sufficiente: c’è la famiglia che aspetta, hai troppi vincoli e non riesci a farlo diventare un momento di auto-formazione. Bisognerebbe poterlo fare in modo più approfondito.
C – Nella supervisione è più facile. Uno parla, e poi ci si chiede: “Che atteggiamento ha il nostro collega verso questo problema? Che cosa è venuto fuori?” Ci sono una serie di stili, abbastanza prevedibili: Sembra che si commuove troppo… vuole proteggere… si sente in colpa… Cominci da lì, perché uno non si rende conto di avere questi atteggiamenti.
F – E quando c’è la famiglia?
C – Anche con la famiglia, bisogna che il didatta stia attento al gruppo. Spesso pensiamo più alla famiglia, oppure il didatta parla troppo, e anche quello non va, diventa autoritario… io mi diverto a vedere come reagisce il gruppo dietro lo specchio. Lascio parlare loro e uso quello che dicono per finire la seduta. Se uno dice sottovoce una parola, lo invito ci parlare perché sentano tutti. Se uno parla con me a parte, viene a spiegarmi un’ipotesi sottovoce, non voglio sentirla. L’ipotesi deve venire fuori nel gruppo. Anche essere affascinati dalle ipotesi sulla famiglia e ignorare il gruppo è una perdita di tempo. Dobbiamo costringere le persone ad esprimere un’idea. È impossibile non avere un’idea; ma solo esprimendola uno scopre quello che pensa. Sente tutte le fesserie che sta dicendo… oppure cose interessanti… Se uno chiedeva a una mia vecchia zia, ora scomparsa: “Che cosa pensi di questo argomento?”, lei rispondeva: “Come faccio a saperlo, se non ne ho ancora parlato con nessuno?”
F – E se dovessimo prevedere uno spazio a sé stante per fare una formazione personale, come lo useresti, che cosa proporresti di fare?
C – Seguirei lo stesso metodo. Chiederei alla persona che cosa vuole fare: “Vuoi parlare della tua famiglia, di un cliente che hai… Quello parla per un quarto d’ora, poi si mette da parte e il gruppo discute: Che tipo di lettura della realtà ha fatto il vostro collega? “Mi sembra che a questa persona interessino questi aspetti” “Mi sembra che abbia detto sei volte la stessa parola”. Come insegnante, puoi dare suggerimenti. Come hai detto, non è indispensabile che sia la famiglia: qualcuno può presentare un caso, una situazione, il rapporto con i compagni di lavoro…
F – Si può anche andare più in là e chiedere che cosa c’è stato prima. Ricostruire come mai si è formato questo pregiudizio, da dove è nato…
C – È l’idea di Mony Elkaim: “Che cosa le viene in mente rispetto al suo passato, a come si comportava con suo padre, sua madre… Qual è la risonanza, il ricordo?”. Dopo che il gruppo ha discusso, può parlare l’allievo: “Che cosa ti ha colpito di quello che hanno detto loro?” Lo si può guidare a costruire un’idea di come sia arrivato lì, e permettergli di descrivere una storia, se vuole.
F – È l’idea di connettere un apprendimento presente con la propria storia. Così diventa un apprendimento molto più forte. Se ti limiti a chiedere “Come sei stato in seduta?”, anche se c’è il confronto con le visioni diverse dei colleghi, c’è sempre la possibilità che resti occasionale. Che la porta che è stata aperta, una volta usciti di qui, venga richiusa. Se invece queste riflessioni sono connesse alla storia personale, a qualcosa che è successo, ad una ridondanza, c’è apprendimento. Poi c’è un altro tipo di domande interessanti. Quelle in cui chiedi alle persone di riflettere sul percorso realizzato nel gruppo. Una meta-riflessione sul processo realizzato insieme. Ad esempio chiedere come hanno partecipato a questa discussione. Creare un’auto-osservazione, a posteriori.
C – Mi fai venire in mente che noi abbiamo sempre a che fare con discorsi a due, tre livelli. Il lavoro del trainer è quello di mantenere i livelli separati: “Adesso parla tu”, “Adesso facciamo una riflessione su quello che ha detto”, “Cosa pensi tu di quello che hanno detto gli altri”, e alla fine “Facciamo la riflessione sul processo”. Il lavoro del trainer è quello di mantenere l’ordine. Perché se lasci la conversazione libera, diventa solo rumore.
F – Non solo dare ordine, ma anche rendere possibile che i vari livelli si manifestino. Se si rimane sempre a un solo livello, le connessioni non riesci a farle.
C – Ecco, quello è il lavoro del trainer. Non dare dei contenuti, spiegare, ma metterli in grado di fare questo passaggio da un livello ad un altro. Quindi un trainer dovrebbe essere sempre molto cosciente: “Di che cosa stiamo parlando adesso?”
F – Si, come didatta mi rendo conto che il vero lavoro spesso devo farlo su di me. Se resto attenta a queste premesse, tutto viene di conseguenza. Altrimenti cado nella lezione, comincio a spiegare delle cose… Ma dimmi, visto che tu e Luigi viaggiate molto, come sono i training all’estero, nei gruppi “post-milanesi”?
C – Hanno inventato degli esercizi interessanti. Specialmente in Inghilterra e Irlanda: fanno fare un sacco di cose, sono molto vivaci, inventivi. Invece in America in questo momento prevale il Problem Solving, preferiscono approcci come quello di White: prima esternalizzi il problema, e poi lo risolvi. È un’idea antica, già nella psicoanalisi fai l’alleanza con la parte sana dell’Io contro la parte malata. È un’idea più facile da capire. Per molte persone l’idea sistemica è ancora troppo complicata, non ti offre una soluzione. Invece De Shazer, White, piacciono molto: hanno un’idea precisa di che cosa vogliono ottenere, anche perché lì ci sono le assicurazioni che vogliono vedere il risultato. Invece con l’idea sistemica non puoi fare un piano preciso di che cosa vuoi, non puoi sapere dove vai a finire.
F – Oggi si sente dire spesso – anche nell’ultimo convegno SIRTS è stato ribadito – che alla terapia sistemica manca una psicologia dell’individuo. Tu che cosa ne pensi?
C – Mi sembra un inquinamento. Il mio dubbio è che la psicoanalisi da ottant’anni fa la psicologia dell’individuo, e la fa meglio di noi. Penso che quando lavori con l’individuo cerchi sempre di collocarlo in un sistema umano. Ti chiedi “per chi lavora” questa persona. Il pregiudizio sistemico è che nessuno è solo al mondo. Allora, quando vedi un individuo lo colleghi al suo sistema significativo, alla sua storia. E lo trovi sempre, un collegamento. È molto facile.
F – Si, anche perché è una tua premessa…
C – (ridendo) Eh, quindi la trovi di sicuro! Quindi è uno strumento ottimo, perché così hai in mano una lettura che va bene sempre. Ti metti a seguire un’idea che all’inizio è un pregiudizio tuo, ma vedi che comincia a costruirsi nel tempo. È divertente, anche.
F – Torniamo al tema della nostra conversazione. Oggi, con la legge sulle scuole di psicoterapia, i corsi di formazione si sono allungati e si moltiplicano le ore. In maggio e giugno ci sono stati incontri tra le diverse scuole per capire come organizzare un percorso di formazione personale del terapeuta. Molte scuole chiedono agli allievi di farlo, in maniera molto precisa e strutturata. E la nostra scuola?
C – Le idee non sono chiare. Come facciamo a sopravvivere con un modello così strutturato, che è in antitesi al nostro modo di lavorare? Possiamo seguire il modello autoritario, ma c’è il rischio di tradire tutto quello che si è detto finora. Forse si dovrebbero separare i due livelli. Un livello di controllo, gestito da una commissione esterna, per cui ogni allievo che vuole avere un diploma si fa esaminare. Invece, la via per diventare terapeuta dovrebbe essere lasciata libera. Noi pensiamo che si possa apprendere senza un sistema autoritario di controllo: è un pregiudizio forte.
F – Il controllo può essere spostato all’esterno. Ad esempio, in Svizzera uno psicoterapeuta ha la possibilità di costruire il suo iter formativo sulla base di un menu personalizzato, anche trasversale alle varie scuole. Poi è l’istituzione (una commissione cantonale) che ratifica o meno il percorso che hai fatto, secondo certi criteri stabiliti e noti. Nell’altra idea, quella di istituire e gestire un percorso obbligato come scuola, il contesto è più confuso: mescola l’autorità, il riconoscimento formale, con l’adesione spontanea che è indispensabile per qualsiasi processo di auto-conoscenza.
C – Forse prima o poi bisognerebbe arrivare al punto che ogni scuola offre qualcosa di diverso. E le persone scelgono. A Milano andiamo ad imparare questo. Magari un’altra cosa la impariamo meglio a Roma. Oppure da un privato. È come se noi volessimo offrire tutto, anche il controllo. Una volta approvati come scuola, siamo costretti a fare quello che non abbiamo mai fatto. E non ne siamo capaci, anche perché finora abbiamo seguito la strada dell’auto-determinazione, come conseguenza logica del modello democratico. La psicoanalisi era autoritaria: più uno era freudiano, più era bravo. La mia difficoltà è questa: io non riesco a essere autoritario. Anche se a volte sono gli allievi che vogliono il sistema autoritario. La domanda adesso è: come possiamo difendere un sistema democratico senza essere uccisi?
F – Parliamone!
Sguardi e storie sul modello milanese
Congratulazioni, con gratitudine
Barnett Pearce
Carl Tomm (onore al merito!) mi fece conoscere per la prima volta il lavoro del gruppo di Milano nel 1982. Aveva partecipato ad un seminario sul “CMM” (Coordinated Management of Meaning) e invitò a Calgary me e Vernon Cronen. In quel periodo ero molto interessato ad approfondire alcuni temi di carattere metateorico che il CMM faceva emergere nel contesto delle nostre conversazioni professionali, e stavo cercando di dimostrare che si potevano condurre quelle che i colleghi della mia disciplina avrebbero definito “ricerche” a partire dalla prospettiva del CMM. Vern mi convinse che il viaggio a Calgary sarebbe stato utile: la mia introduzione alla terapia familiare fu affidata alla lettura del libro di Lynn Hoffman durante il viaggio verso il Canada. Pur così maldestramente preparato, quella settimana finì per regalarmi una delle esperienze più memorabili della mia vita professionale.
Chi conosce Carl non si stupirà del fatto che ci fece sgobbare senza pietà. Cecchin e Boscolo vedevano famiglie di pomeriggio, Vern e io ci portammo le registrazioni in hotel e lavorammo tutta notte nel tentativo di trovare qualcosa di interessante da dire sulle sedute dal punto di vista della comunicazione, e facemmo un intervento nella sessione del mattino. Rapido break per il pranzo e poi di nuovo all’opera. Anche se il regime impostoci da Carl ci privava di cose non secondarie (il sonno, ad esempio), non ci lasciò di certo a corto di buona compagnia, buon cibo e intriganti opportunità di far funzionare l’intelletto.
Chi conosce Luigi e Gianfranco non faticherà a comprendere la mia gratitudine per la generosità con cui divisero la scena con noi e per averci messi nella condizione di credere di avere qualche contributo interessante da offrire. En passsant, vorrei ricordare che in quel periodo loro erano “guru” in tournée e noi (nel campo dei terapeuti) non eravamo che sconosciuti accademici provenienti da un’altra disciplina. Eravamo totalmente inconsapevoli del fatto che l’accoglienza che ci fu riservata derivava dalla fortissima propensione all’apertura e alla curiosità che poi scoprimmo essere una caratteristica del team di Milano: sapevamo soltanto che stavamo assaporando l’opportunità di un’esplorazione non competitiva di idee e pratiche.
La mia prima impressione fu che si trattava dei “migliori studenti di Bateson” in circolazione. In quel periodo ero profondamente immerso negli scritti di Bateson, e avevo appena partecipato ad una conferenza della Scuola di Palo Alto. Per quella conferenza avevamo scritto una relazione che metteva in evidenza le differenze tra il CMM e la “prospettiva interazionista”. Avendo ancora in mente quel ricordo, avvertii un’immediata sensazione di affinità nei confronti delle idee e delle pratiche milanesi. Del tutto indipendentemente, eravamo giunti alle stesse conclusioni a cui il ritorno a Bateson aveva condotto i quattro fondatori del gruppo di Milano.
Un’“altra” prima impressione che mi suggerirono fu la loro abilità nel tradurre concetti astratti in pratiche concrete senza alcuna banalizzazione. Si tratta di una capacità che, sfortunatamente, non posso che ammirare a distanza, ma la cui importanza va rimarcata in tutta evidenza. Se dovessi darmi una collocazione all’interno del lavoro della Scuola, non potrei che cercare di praticare il “rovescio” di questa capacità: tradurre pratiche innovative ed efficaci in concetti astratti, con la speranza di non banalizzarle. Se si tratti di un’impresa importante, non so proprio dirlo, spero solo che costituisca un’utile componente del sistema allargato.
Dal 1982 ho continuato a collaborare con vari membri del gruppo di Milano, spero che questa collaborazione sia stata produttiva per loro come lo è stata per me. In questo percorso non sono mancati i momenti spinosi. Ricordo, ad esempio, che in un convegno a Bologna nel 1989 stavo cercando di proporre la sottile distinzione a cui oggi ci riferiamo parlando di “storie raccontate” e “storie vissute”. Ero molto compiaciuto per essere riuscito a mettere in evidenza la coppia semantica composta da “history” (storie raccontate nel presente e riguardanti eventi del passato) e “story” (il racconto attuale di storie con parole e azioni) e avevo costruito l’intero intervento su queste due parole. Gianfranco Cecchin, che mi faceva da traduttore, si blocca quasi subito, spiegando che l’italiano ha una sola parola per esprimere i due concetti e rendendo la mia relazione una sofisticata tautologia! Fortunatamente, eravamo abbastanza a nostro agio da discutere la questione pubblicamente e, per quanto il relatore fosse piuttosto avvilito, tutto andò per il meglio fino alla conclusione.”
Dopo più di un decennio di collaborazione col gruppo di Milano, la mia stima è ancora aumentata. Una volta chiesi a Gianfranco Cecchin perché lavorava tanto (da tempo cerco di capire le motivazioni delle persone di successo) e lui mi rispose: “Noi siamo artigiani, facciamo quello che facciamo perché ci piace farlo”. Se non ho frainteso, Gianfranco si riferiva all’orgoglio che deriva agli artigiani esperti dalla pratica della loro maestria.
Eppure il gruppo di Milano ha qualcosa di diverso dalla tradizionale immagine dell’artigiano, non foss’altro per la rapidità con cui le pratiche vengono modificate e per l’alacrità con cui scovano nuove idee. La durata di un’idea o di un metodo nella Scuola di Milano è decisamente breve: ricordate il telefono che collegava osservatori e terapista in seduta? E i discorsi sulla battaglia per il potere tra clienti e terapisti? E le prescrizioni dei rituali? O i raffinati interventi controparadossali?
Tra gli aspetti che ritengo essenziali dell’approccio milanese c’è la sua tenace attenzione ai sistemi piuttosto che ai singoli componenti, la pratica della riflessività, col riconoscimento che il terapista/consulente fa parte del sistema invece che restare all’esterno, a fare diagnosi o a manipolare, e il coraggio di giocare, di esercitare la curiosità, magari di essere irriverenti piuttosto che accettare il ruolo di esperti che talvolta viene disperatamente offerto su un piatto d’argento dalla famiglia o dal cliente. Il “demone” che i milanesi cercano di evitare è il rischio di diventare “Dr. Omeostato”, i cui tentativi di cambiare la famiglia finiscono di fatto per perpetuare la situazione esistente. Voglio per questo fare le mie congratulazioni ai colleghi di Milano per il perpetuarsi del loro successo, anche per la loro (relativamente) nuova avventura, la rivista “Connessioni”, e per avere ottenuto il riconoscimento legale per il training in terapia familiare sistemica. Sono certo che anche attraverso questi strumenti la Scuola di Milano continuerà a sviluppare metodi originali ed efficienti per l’intervento coi sistemi umani.