di Massimo Giuliani e Elisabetta Mendini
Cosa resterà di questo periodo?
La gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha costretto gli psicoterapeuti a trovare dei modi per dare continuità al lavoro in corso, per continuare ad essere presenti per persone e famiglie con cui c’era già una relazione avviata. Modalità alternative a quelle classiche si sono rese necessarie ancora di più per adempiere a precise ordinanze in merito: in particolare ecco cosa prescriveva la Regione Lombardia il 22 marzo: “Sono chiuse le attività degli studi professionali salvo quelle relative ai servizi indifferibili e urgenti o sottoposti a termini di scadenza” (Ordinanza 514, punto 11).
Ma già alcuni giorni prima – in particolare modo in Lombardia, dove il virus si faceva strada più veloce e pernicioso che altrove – ci si domandava come limitare o riorganizzare l’attività allo scopo di limitare traffico e contatti ravvicinati. Dapprima con i casi del lodigiano, poi con quelli della Val Seriana si faceva chiaro che gli studi professionali e le loro sale d’aspetto rischiavano di diventare altrettanti punti di trasmissione potenziale del virus.
La soluzione che è apparsa più immediata e ragionevole consisteva nel proporre ai propri pazienti di proseguire attraverso strumenti di videochiamata consulenze e terapie già iniziate. Non sempre questa modalità è stata di facile applicazione. Ad esempio, prima della “chiusura della Lombardia” e del sostanziale fermo di parte delle attività, una delle prime misure adottate per limitare il dilagare del coronavirus è stata la chiusura delle scuole. Questo ha reso difficile per chi aveva figli in casa avere quell’ora di tranquillità da dedicare alla seduta a distanza. Ancora, i pazienti che erano impegnati come sanitari vedevano sconvolta la propria agenda, e anche da casa non era sempre facile avere a disposizione il tempo necessario. Non solo: altri pazienti avevano parenti ammalati per l’effetto del coronavirus, qualche volta erano ammalati essi stessi. Le prime ore, i primi giorni, forse addirittura le prime due settimane, molti colleghi hanno vissuto ore febbrili in cui l’impegno era contattare i propri pazienti, cercare di comprendere le esigenze, aggiornarsi nel trascorrere delle ore, trovare modi per restare in contatto, o in qualche caso salutarsi per darsi appuntamento a più avanti.
Gli autori di questo articolo dall’inizio di marzo avevano fatto la scelta di non incoraggiare gli spostamenti da e verso lo studio. Avendo dedicato da anni (v. Giuliani, 2019 e 2020) parte dell’attività dello studio alla sperimentazione prima, e alla realizzazione poi, di forme di consulenza a distanza – sia per individui che per famiglie – abbiamo cercato di ampliare questo canale.
Già dall’8 marzo, comunicando ai pazienti la scelta di spostare le sedute su Skype, formulavamo anche il nostro auspicio che questo periodo eccezionale fosse un momento di apprendimento, anche in considerazione di quanto e come il nostro lavoro potrebbe cambiare una volta che tutto questo sarà passato.
È indubbio che molti clinici, come molte persone che frequentavano i loro studi, si sono ritrovati ad avere confidenza con una modalità che potrebbe essere ancora più diffusa nel futuro: per esempio, se l’esperienza dimostrasse che la terapia a distanza è davvero ben accetta – su scala più ampia di quanto non fosse già evidente a chi in parte lavorava in quel senso – e non impoverisce la terapia né dal punto di vista della relazione né da quello dell’efficacia, è possibile pensare che i pazienti che non vivono vicino al terapeuta – che devono affrontare un viaggio, o hanno bisogno di sottrarre al lavoro non solo il tempo della seduta ma anche quello sello spostamento – troveranno buono continuare, o iniziare, terapie nella modalità a distanza, o per lo meno “blended”, cioè parte a distanza e parte in presenza. Ancora, non è fuori luogo considerare la possibilità che una volta che questa modalità sia diventata familiare si aprano nuove prospettive per offrire cura psicologica a chi non l’avrebbe altrimenti a portata di mano, e che comunque l’integrazione della terapia in studio con le nuove tecnologie (v. Manfrida, Albertini, Eisenberg, 2020) sarà sempre più normale.
A mano a mano che i pazienti – quelli già in carico, ma poi anche quelli che sono arrivati nel frattempo – accedevano alla terapia a distanza, sperimentavamo che generalmente i pazienti avevano un vissuto positivo della terapia così condotta. Tanto che non escludiamo che almeno in alcuni casi questa potrebbe restare la modalità elettiva anche dopo la fine dell’emergenza. Insomma, ogni apprendimento derivato dall’esperienza intensiva di questo periodo è di una certa importanza per far crescere una pratica e una teoria della relazione clinica a distanza, che nel prossimo futuro potrebbe non costituire più una eccezione marginale.
Perciò ci pare utile fare un bilancio di come sono andate le cose finora e di quello che la nuova situazione ci sta insegnando.
L’introduzione degli strumenti di comunicazione a distanza: chi ha accettato e chi no
In modo più o meno invariabile, la nostra proposta di utilizzare Skype nasceva dalla convinzione che fosse uno strumento noto a molti e abbastanza semplice da imparare. Di lì alcuni pazienti o famiglie ci hanno segnalato strumenti per i quali erano già competenti. Così abbiamo integrato nelle nostre risorse anche Meet di Google e Teams di Microsoft. Ma soprattutto è accaduto che chi ha familiarità con gli strumenti di videochiamata soprattutto per ragioni di lavoro – e magari li utilizza per una certa parte della giornata, anche con un certo senso di oppressione – talvolta non ha accettato di proseguire, almeno in un primo momento.
In qualche caso chi aveva detto di no, al protrarsi delle misure di distanziamento, è tornato spontaneamente a richiedere una seduta, ma con la condizione che fosse al telefono: naturalmente la proposta è stata accettata e alla fine della seduta i pazienti hanno dichiarato di essersi sentiti a proprio agio, chiedendo di proseguire con la stessa modalità.
Una prima indicazione che abbiamo ricavato da tutto questo è che avere una disponibilità ampia di strumenti diversi e chiedere ai pazienti quale preferiscano – senza porre vincoli – accelera il passaggio alla dimensione online qualora si presentino improvvise cause di forza maggiore e favorisce una migliore accettazione.
Riflettendo sulle prese in carico in cui non è stato accettato di proseguire a distanza, emerge che se la proposta è stata accettata in buona parte per le prese in carico individuali, è stato più basso il numero delle prese in carico familiari proseguite (si considerano anche quelle di coppia).
Abbiamo alcune spiegazioni per questa differenza: la prima è piuttosto fattuale, le altre sono ipotesi che meriterebbero un approfondimento. E cioè:
- La chiusura delle attività, scuole comprese, comporta per la coppia la difficoltà di avere in casa la riservatezza necessaria per le due ore della seduta.
- L’intervallo tra le sedute di terapia familiare o di coppia è piuttosto ampio (un mese, contro una o due settimane delle terapie individuali). Una interruzione di un mese è un evento che può presentarsi anche in altri momenti, e si risolve, in definitiva, in un rinvio. Il rischio di discontinuità è avvertito meno che nella terapia individuale.
Connesso al punto precedente è il fatto che la portata emotiva della relazione col terapeuta nel setting individuale e in quello familiare è probabilmente differente. Non a caso ci troviamo a volte a spiegare alle persone che nel gioco di figura e sfondo fra le sedute e gli intervalli, questi ultimi sono non meno rilevanti delle prime. Nel processo di una terapia, più o meno lunga, la seduta è una scansione più leggera e gran parte del processo si snoda nel tempo fra le sedute. Per quanto detta così appaia iperbolica: nelle terapie familiari il terapeuta è meno indispensabile!
Al numero delle terapie che sono rimaste sospese aggiungiamo le coppie che avevano un appuntamento per la prima seduta hanno preferito rimandare. Se dovessimo aggiungere una nostra considerazione, probabilmente è più difficile ancora mettersi in discussione come coppia quando davanti c’è prevalentemente incertezza. Ma è stato anche abbastanza chiaro, anche dall’ascolto delle loro perplessità, che se già iniziare una terapia è impegnativo, lo è ancora di più farlo a condizioni che non erano previste. Tanto che altre richieste arrivate in pieno lockdown (cioè quando le persone erano piuttosto informate del fatto che i clinici stavano lavorando prevalentemente in questa modalità) sono approdate alla terapia senza difficoltà.
A mano a mano che passano i mesi dall’inizio della pandemia, osserviamo che la richiesta di terapia online aumenta sia per le richieste di terapia di coppia che per le richieste di terapia individuale. Questo non ci meraviglia per due ragioni:
- siamo usciti dalla fase di impatto col trauma per entrare in una fase di adattamento al trauma individuale, famigliare e collettivo. Dal punto di vista neurofisiologico, questo richiede una maggior attivazione delle funzioni corticali superiori: i nostri organismi non sono più alle prese con le istanze di sopravvivenza di base, ma necessitano di azioni (quali la richiesta di sostegno) che garantiscano il mantenimento e la riorganizzazione delle relazioni interpersonali che a loro volta sono garanzia di sopravvivenza insieme fisica e psichica. È necessario pertanto per tutti trovare una forma intellegibile a ciò che ci è capitato, parole che descrivano, spieghino, accompagnino i pensieri e le emozioni che in questo periodo sono intercorse dentro di noi e tra di noi. Questa riorganizzazione può richiedere un sostegno che la terapia può fornire anche se svolta online: anzi, in questo formato ben si adatta all’urgenza e alle difficoltà organizzative del momento dovute anche al permanere delle limitazioni di movimento e di contatto interpersonale. In questo senso la terapia-svolta-online-in-questo-momento potrebbe avere addirittura una funzione preventiva secondaria circa l’insorgenza di complicazioni traumatiche;
- in poco più di due mesi abbiamo assistito a un apprendimento intensivo di massa sull’uso degli strumenti telematici, spesso avvenuto nella modalità peer education. Anche i più refrattari si sono trovati a misurarsi con questi mezzi ed hanno potuto apprezzarne l’utilità, oltre al fatto che hanno potuto constatare di essere in grado di utilizzarli. Non è stato raro in terapia osservare l’orgoglio con cui alcuni pazienti ci hanno mostrato la loro nuova competenza: potremmo dire una nuova declinazione del machiavellico (o gesuitico) “il fine giustifica i mezzi”!
Insomma, per quanto possa sembrare incredibile per il pregiudizio corrente, persone (o coppie) anziane hanno accettato di buon grado la proposta, in misura simile a pazienti più giovani. In alcuni casi, anzi, hanno scaricato l’applicazione e hanno imparato ad usarla nell’arco di poche ore. Dunque un elemento ci è sembrato particolarmente interessante e lo sottolineiamo per proporlo alla riflessione: non abbiamo registrato, dal punto di vista dell’accettazione del passaggio all’online, una differenza sulla base delle età. Anzi: se c’è stata, non è andata nella direzione che ci si aspetterebbe. Semmai abbiamo osservato un lieve flessione della partecipazione di giovani e adolescenti alle terapie individuali.
Una prima ipotesi è del tutto analoga a quella sopra formulata più sopra per le coppie: in casa non sempre ci sono spazi che garantiscono necessaria privacy. In aggiunta, spesso per gli adolescenti la terapia è un luogo necessario allo svincolo dalla famiglia: il fatto che si svolga fuori della casa è uno degli ingredienti necessari alla riuscita della terapia in quanto costituisce una sorta di esercizio allo stare dentro stando fuori che è poi quello che succede quando la crescita è armonica: il giovane trova una dimensione altra salvaguardando le proprie relazioni. Inoltre, dobbiamo considerare che un adolescente impara a tenere a bada le proprie fantasie distruttive, ma parallelamente deve poter prendere contatto con esse: farlo nella casa potrebbe essere psichicamente troppo faticoso ed ostacolare l’intero processo. Per questo riteniamo che, a maggior ragione, dopo averla analizzata caso per caso, la volontà dell’adolescente possa essere addirittura assecondata. Anche questo tema merita di tornarci su.
Naturalmente, a tutti i pazienti abbiamo chiesto, soprattutto dopo la prima seduta ma anche nel prosieguo, se sentissero penalizzata la relazione terapeutica o se sentissero ugualmente fruttuosa la seduta. Ebbene: tutti i pazienti, indistintamente, hanno confermato l’integrità dell’esperienza della seduta dal punto di vista della temperatura emotiva, da quello della relazione clinica e da quello dell’utilità.
Cosa stiamo imparando nel lavoro online a tempo pieno: i formati della terapia
Gli spunti di riflessione più interessanti stanno arrivando dalla terapia di coppia condotta in équipe. C’è da dire che nelle discussioni fra terapeuti all’inizio dell’emergenza, alcuni manifestavano il timore che la terapia di coppia e della famiglia non fosse “esportabile” nella dimensione online. Secondo noi questa convinzione nasce da una premessa fallace, un po’ come quella per cui “nell’online manca il non verbale” (Giuliani, 2019). La convinzione è quella per cui la dimensione online dovrebbe essere tale da permettere di “replicare”, o da trasferire senza nessuna perdita, un’attività che di solito si svolge in presenza.
Dal nostro punto di vista il problema è mal posto. Dato che il lavoro con la relazione presuppone un’abilità di lettura di contesti e cornici, la domanda “questa cornice è adatta o non adatta?” è un nonsense. La domanda è piuttosto: “come adattare questa cornice alle nostre necessità?” Se una cornice esercita una “forza contestuale” su quello che vi accade dentro, dal nostro punto di vista si tratta di mettere a frutto la “forza implicativa” che possiamo esercitare sulla cornice, tanto da costruirle un sistema di significati che la rendano terapeutica. Il punto non è trovare nel contesto online il corredo non verbale di una seduta in presenza, bensì interessarci ai modi in cui si manifesta il piano non verbale della comunicazione in quel peculiare contesto (ci torniamo fra un po’). Ancora, il punto non è capire se si possa o non si possa avere una conversazione terapeutica con una coppia o con una famiglia nella cornice online, ma come una conversazione possa diventare terapeutica in quella cornice. Rimandiamo alla letteratura in merito le riflessioni al riguardo. Quello che ci interessa riferire qui è che cosa – una volta dato per assunto che sia possibile un lavoro terapeutico a distanza, e una volta che i nostri pazienti ce ne hanno confermato la fondatezza – abbiamo appreso di utile nel portare avanti questa esperienza.
Innanzitutto i più comuni strumenti di videochiamata forniscono (anche nella versione gratuita, per quanto riguarda Skype) la possibilità di chiamate multiple. Questo rende possibili anche il lavoro in équipe nei diversi formati:
- Terapia co-condotta con i terapeuti nella stessa postazione e la famiglia riunita in una postazione
- Terapia co-condotta con i terapeuti in postazioni differenti e la famiglia riunita in una postazione
- Terapia co-condotta con i terapeuti in postazioni differenti e i membri della famiglia in postazioni differenti
- Terapia co-condotta con i terapeuti in postazioni differenti e con una équipe non visibile, ma ovviamente palese, come accade nella terapia con l’équipe dietro lo specchio.
- Terapia con uno o più terapeuti e gruppo di supervisione in differita che lavora sulla registrazione della seduta.
In questi mesi in cui abbiamo proseguito le prese in carico congiunte, pur nell’impossibilità di ricostituire l’équipe in studio, abbiamo sperimentato con una certa frequenza la seconda modalità.
Esistono limiti invalicabili?
In generale, sempre più possiamo dire che non c’è ragione per ritenere che i limiti dello strumento non siano quelli che noi decidiamo di dargli.
Per esempio: pensiamo ad aspetti che di primo acchito sembrerebbero limitare la possibilità di svolgimento della terapia a distanza. Prendiamo le famiglie con elevata conflittualità agita con violenza fisica: in quel caso il setting dello studio può funzionare da contenitore di impulsi. È diverso rompere un mio vaso o il vaso del terapeuta. Sappiamo che durante una terapia non funziona solo quello che si dice, ma anche quello che si sperimenta: cosa apprendo quando mi viene l’istinto di picchiare un membro della mia famiglia in seduta, ma non lo faccio? Deutero-apprendo la possibilità di non farlo. Eppure, anche in questo caso dobbiamo dire però che non è affatto escluso che questo deutero-apprendimento possa avvenire anche nel contesto online, proprio per la presenza del doppio osservatore: il terapeuta e la telecamera (triplo, nel caso della terapia co-condotta). Certe implicazioni del rapporto con l’osservatore-telecamera nella terapia sono tutte da studiare.
Questo processo potrebbe anche essere favorito da un altro elemento: durante la terapia online si vede sé stessi nel monitor. Questo ci porta inevitabilmente ad essere attori e spettatori di noi stessi. L’esperienza del poter vedere la mia azione mentre la svolgo non può far altro che potenziare la funzione riflessiva, ma prima ancora che in una modalità metacognitiva cosciente, pensiamo lo possa fare ad un livello ancora più profondo e pre-cosciente.
“È faticoso perché manca il non verbale”
Gran parte dei terapeuti a cui è capitato di sperimentare questa modalità sembra condividere la considerazione che una seduta condotta sul monitor del computer è assai più faticosa di una tradizionale (v. Albertini, Manfrida, Eisenberg, 2020). Considerazioni generali sulla cosiddetta “Zoom fatigue” si trovano per esempio in Jiang (2020). Dal nostro punto di vista, a dispetto dell’idea diffusa che in una conversazione online “manchi il non verbale”, l’esperienza prima ancora della teoria ci convince che si tratta di un altro nonsense. La componente non verbale di una comunicazione non è un flusso separabile e misurabile in quantità discrete, tanto da poter decidere che lì ce n’è di più e qui di meno. Vale la pena tornare a Heinz von Foerster per affermare che “verbale” e “non verbale” non stanno lì nell’ambiente, e che quest’ultimo, di suo, non contiene informazioni: “l’ambiente è quello che è”, ammonisce l’epistemologo, e quello che vediamo come osservatori lo ricaviamo e organizziamo noi (von Foerster 1987, 158). Come direbbe Laing, più che di “dati” dovremmo parlare di “capti”.
Allora non è tanto una questione di quantità (troppo poco “non verbale”, e nemmeno troppo) a richiedere uno sforzo significativo, quanto il fatto che quel modo specifico di manifestarsi del non verbale ci costringe ad ammettere che non possediamo una grammatica e una sintassi utili allo scopo. Sempre consapevoli che se una grammatica e una sintassi esistono, esse sono processuali più che strutturali. Ossia, non tanto un corpus di informazioni utili a “tradurre” in modo univoco il portato non verbale di una comunicazione, quanto una attitudine a coglierne costantemente aspetti e metterli a confronto con quello che viene detto.
Per fare un esempio, pur senza arrivare a dire che occupare una sedia o un’altra nella stanza abbia un significato univoco, dove si siederà il paziente è uno di quei dettagli che siamo in qualche modo abituati a guardare. Come occupa lo spazio dello studio, come si muove. Persino come sale le scale, come si presenta alla nostra porta. E così via. Se pure non è possibile “tradurre” certi comportamenti, l’esperienza ci aiuta a produrre significati e informazioni contestuali, mutevoli, provvisori. In qualche misura, un po’ perché il contesto spaziale non è quello a noi noto, un po’ perché la realtà dentro quel rettangolo ci è (ancora) un po’ meno familiare di quella tridimensionale, quel contesto ci parla un po’ meno. Le cose ci vengono incontro un po’ meno.
Detto questo, è stato non senza una certa sorpresa che, confrontandoci, abbiamo scoperto che per uno dei membri della nostra équipe (non per l’altro, invero) se l’affaticamento è innegabile per la terapia individuale e per la terapia familiare condotta da solo, non è così per la seduta co-condotta (che anzi diceva di affrontare in un clima più rilassato che in studio). Sarebbe interessante conoscere altre esperienze in merito: se quella che stiamo descrivendo fosse una impressione condivisa anche da altri, probabilmente questo in parte sarebbe attribuibile alla semplificazione spaziale del setting. Sul monitor la comunicazione – soprattutto non verbale – fra i due terapeuti è persino più fluida che nel lavoro in studio, per via del fatto che, diversamente da quanto accade in presenza, i due colleghi hanno un contatto visivo continuativo, esattamente come per tutti i partecipanti all’interazione.
Quello che possiamo aggiungere, a proposito dei limiti che qualcuno vuole vedere in questa pratica, è che nella terapia l’incontro è in larga parte oggettuale, pre-conscio e pertanto non richiede come condizione necessaria la visione e il contatto dei corpi: esattamente come non ho bisogno di abbracciare un paziente per sentirne la forza psichica, non ho bisogno di tenere sotto controllo tutti i suoi movimenti per svolgere la funzione terapeutica. D’altra parte, forse, stiamo parlano di qualcosa che sanno bene gli psicoanalisti abituati e formati all’utilizzo del lettino: lì lo sguardo reciproco è precluso e l’esperienza terapeutica si amplifica (sia per il paziente che per il terapeuta). Stare fuori dallo sguardo può facilitare l’apertura di contatti interni ed esterni.
Insomma, è probabile che un complesso di domande mal poste e dalle premesse confuse abbia ostacolato lo sviluppo di pratiche che improvvisamente oggi abbiamo scoperto necessarie. Non che oggi sia tutto chiaro: il lavoro va avanti, oltre l’emergenza. Ancora una volta, conoscere di più le dinamiche relazionali a distanza è utile non soltanto in vista di accidenti prossimi venturi, che speriamo più lontani possibile, ma anche per ragionare su come siamo e come funzioniamo in una dimensione che ormai riguarda la vita della maggioranza di noi.
Bibliografia
Albertini, V.; Manfrida, G.; Eisenberg, E. (2020), “In mezzo al guado. Il passaggio al setting online durante l’emergenza Covid-19”, Slideshare (acc. 6-2020).
Giuliani, M. (2019), La terapia online, in Barbetta, P., Telfener, U. (a cura di), Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin, pp. 203-213, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Giuliani M. (2020), La psicoterapia è (sempre) un dispositivo di realtà virtuale, in Manfrida, G.; Albertini, V.; Eisenberg, E. (a cura di), La clinica e il web. Risorse tecnologiche e comunicazione psicoterapeutica online, pp. 161-170, Milano, Franco Angeli.
Jiang M. (2020), “Video chat is helping us stay employed and connected. But what makes it so tiring – and how can we reduce ‘Zoom fatigue’?”. BBC.com (acc. 6-2020).
Manfrida G, Albertini V., Eisenberg E. (2020), La clinica e il web. Risorse tecnologiche e comunicazione psicoterapeutica online, Milano, Franco Angeli.
von Foerster, H. (1987), Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio.