Recensione di “The Milan Approach, History and Evolution” di Pietro Barbetta e Umberta Telfener

Recensione di “The Milan Approach, History and Evolution” di Pietro Barbetta e Umberta Telfener

su Family Process, 60, 1, 2021
Letto da Gianluca Ganda

Con queste righe mi assumo un compito insolito quanto arduo. Desidero parlare ai lettori di un’altra rivista e di un articolo apparso su di essa. La rivista in questione è Family Process, tra le voci più importanti e autorevoli sulla ricerca nella terapia della famiglia. Nel numero di marzo 2021 trova spazio l’articolo in questione: The Milan Approach, History, and Evolution, scritto da Pietro Barbetta e Umberta Telfener. L’articolo, facilmente raggiungibile, è fruibile da chiunque desideri leggerlo.

Quale rappresentante della redazione lo commento con l’orgoglio indiretto che sorge in noi nel trovare la voce del Milan Approach su un palcoscenico così autorevole. I due autori – non mi dilungherò in presentazioni superflue – non si limitano a portare oltreoceano una testimonianza del lavoro della scuola milanese poiché da lì, dalle pagine guardate da ogni dove, raccontano dei cambiamenti del mondo con le nuove domande che arrivano alla terapia. L’impatto delle nuove forme del disagio si assomma alle manifestazioni cliniche già conosciute richiedendo una diversa attenzione e presenza nella terapia.

Noi che viviamo il Milan Approach da dentro ne conosciamo la continuità e l’evoluzione. Nell’ultimo decennio sono arrivate molte testimonianze di questo processo di sviluppo che riesce a conservare i capisaldi del pensiero nato nelle stanze di via Leopardi. (Barbetta, 2017a; Barbetta, 2017b; Barbetta, Telfener, 2019; Campbell, 2003; Giuliani, 2014; Giuliani, 2016; Telfener, 2015; Telfener, 2019) Già i nostri maestri, Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, si erano occupati di esportare le loro riflessioni e tecnologie. Raccontavano quello che facevano, spesso hanno mostrato come si muovevano e come usavano i loro “tools”, in modo che fossero gli altri, gli osservatori, a commentare e narrare il loro modo di muoversi in terapia. Un discorso diretto e uno indiretto. Chi entra in contatto con la scuola di Milano non se ne stupisce, poiché questa è una lunga ma ancora attuale tradizione del Milan Approach: uno stile riflessivo e inclusivo, che si alimenta della partecipazione e dell’ascolto di ognuno, persone in terapia e allievi in formazione.

Viviamo nell’era dell’antropocene (Crutzen, Stoemer, 2000), in un ecosistema fortemente modificato dalle attività dell’uomo. Barbetta e Telfener guardano a un mondo in cui spiccano ontologie sociali, storie reali, vissute da corpi doloranti, da persone che vivono in relazioni fuori uso, inceppate, maltrattate e misconosciute. Il mondo è una noosfera in cui il potere della mente non può essere diretto solo a modellare il futuro ed evidenziare le premesse che conducono l’azione umana. È un mondo osservato come una realtà multiversale, un tessuto di relazioni in cui epistemologia e ontologia si toccano: “epistemology is the time when we deal with many possible points of view and explanations, exploring the premises of all the people implied; there also is the need to deal with the “real” story that comes through in the therapeutic relationship (ontology)”. [l’epistemologia è il momento in cui abbiamo a che fare con i molti punti di vista e spiegazioni possibili ed esploriamo le premesse di tutte le persone coinvolte; ma c’è anche il bisogno di affrontare la storia “reale” che emerge nella relazione terapeutica, l’ontologia. (traduzione personale)] Per cogliere l’ontologia, i vissuti e le emozioni che emergono dai fatti, non c’è niente di meglio che l’intuizione e il corpo: “We need to use our body and our intuition to feel it”.

Le ontologie sociali sono i corpi che soffrono, quelli smunti delle anoressiche e quelli frammentati degli schizofrenici. Il Milan Approach tiene da sempre in una posizione di primo piano il corpo e, con Barbetta e Telfener, discriminazioni, molestie e abusi sono incontrati e conosciuti nel corpo di chi li vive, una ragazzina col sondino nasogastrico, e col corpo di chi li osserva, il terapeuta. La svolta del corpo, come viene chiamata dagli autori, pone in primo piano un nuovo spazio di incontro e conoscenza che riesce ad aggirare i presupposti teorici e distrae quelli ideologici, ancora più potenti. Per questo, nella ricerca umanistica e nella cura, è importante superare il già conosciuto e il già detto, sia metodo o contenuto. Come affermano gli autori, sbarazzarsi di qualsiasi teoria astratta che inquadra la famiglia: teoria sistemica, idee strategiche o qualsiasi altra teoria che generalizza, ma non riporta l’originalità.

Qui gli autori aprono al caso particolare e si discostano dalla generalizzazione propria del metodo scientifico e dei processi ipotetici e deduttivi. Qui, con la tenerezza e benevolenza verso l’altro, come nel rispetto di Boscolo e Cecchin, importante prendere sul serio ogni persona, anche e soprattutto quelle chiuse nelle diagnosi operate dai servizi che curano. Ironia della sorte, diagnosi che si traducono in violenza istituzionale. 

A mio parere, con questo articolo, gli autori pongono il Milan Approach in dialogo con altri filoni teorici che mettono sotto i loro riflettori il corpo, quali le teorie sul trauma, l’EMDR, la Terapia sensomotoria o la Mindfulness, teorie che sono fonti di lettura e tentativo di cura dell’esperienza, senza entrare nell’enfasi che portano al corpo, senza parlare di nuove e taumaturgiche tecniche, né di inutili misticismi. Ritengo importante l’invito a divenire “aware of the categories they adopte”, diventare consapevoli delle categorie che adottiamo. Leggo questa affermazione come un invito a rimanere aperti alla possibilità di produrre sempre nuove ipotesi e permettersi di uscire dalle prassi consolidate. Se il messaggio ai terapeuti di Boscolo e Cecchin è sempre stato quello di non sposare le proprie ipotesi, né comprare quelle facilmente proposte dal cliente, ora siamo chiamati ad aumentare la portata di questo invito. Noi terapeuti siamo chiamati a potenziarlo ulteriormente, in primis per “deactivating the dangers of one’s own presuppositions and prejudices that limit one’s capacity to describe and make hypothesis” [disattivare i pericoli dei propri presupposti e pregiudizi che limitano la capacità di descrivere e formulare ipotesi (traduzione personale)]; un distacco dai presupposti teorici per espandere al contesto sociale il senso del comportamento dei nostri clienti. 

Il “minuto particolare”, di cui si parla nell’articolo, pone in rilievo la dimensione del tempo e all’attenzione da dedicare, momento per momento, all’interazione, ai clienti e al terapeuta, lasciandosi poi agire. Il minuto particolare, mi sembra, richiamarci alla coltivazione della scintilla dell’intuizione, un punctum (Barthes, 1980), ciò che ci punge nel profondo, a partire da spie mutuate dall’esperienza ontologica e, soprattutto, da sensazioni nate nel corpo, nella sensibilità del terapeuta. Corpo e sensibilità sono due dimensioni in stretta connessione perché, come fanno notare gli autori, viviamo la vita dal corpo che abbiamo. 

Nel minuto particolare mi pare ci sia una dichiarazione di attenzione all’Altro attraverso di sé, nella profondità di se stessi. L’invito e la proposta degli autori che colgo mi porta ad andare al di là del già detto, dentro e fuori la stanza di terapia: per parafrasare Artaud, la conoscenza fondata sulle sensazioni ci porta a spezzare il linguaggio per raggiungere la vita. A me pare che i nostri autori vogliano proporre una prassi e una diversa sensibilità della cura, e per renderla concreta ci invitano a un confronto con la dimensione del corpo e del linguaggio. Un percorso che vuole superare un “corpo senza organi” e proporre invece un corpo intero e più vivo; contro quel linguaggio fatto solo di parole (qui il richiamo è a Maturana e Varela) che, decontestualizzato e condiviso, annulla la possibilità di nuove visioni del mondo. Le svolte di cui ci parlano Telfener e Barbetta sono immaginative, etiche, nel senso dato da von Foerster, sono azione e azione improvvisa – di certo non improvvisata – in un campo di interazione relazionale. “We don’t deal with body parts but with the whole body’s sequence of interactions where any position is just a shot of photography followed by another shot, in an ongoing progression of interchanges. Out of the corner of their eyes, observers, when acting, can see something different that emerges from their actions (enaction)”. [Non ci occupiamo di parti del corpo ma della sequenza di interazioni dell’intero corpo dove una qualsiasi posizione è solo una fotografia seguita da un altro scatto, in una progressione di scambi in divenire. Con la coda dell’occhio, gli osservatori, quando agiscono, possono vedere qualcosa di diverso che emerge dalle loro azioni (enazione)].

Un’ultima considerazione: questo articolo mi pare un ponte che congiunge la tradizione e il nuovo. Gli elementi che contiene partono da lontano. Si ritrovano in una pratica che ha vissuto prima nelle azioni terapeutiche di Boscolo e Cecchin, poi nelle formazioni e terapie di Telfener e Barbetta, condotte nelle sedi dei Centri di Terapia della Famiglia collegati al Milan Approach. Nell’articolo che appare su Family Process gli autori affermano la necessità di adeguare la qualità della presenza del terapeuta nelle varie sedi in cui si svolge la clinica. Portano l’esigenza – e la loro risposta, in linea con il Milan Approach – di trovare nuovi modi di dialogare con le persone in un mondo che presenta complessità e gradi di violenza diversi dal passato. Caratteristiche queste di un campo morfogenetico che richiama alla necessità di declinare la connessione tra corpo e ontogenesi, nostra e dei clienti. Sarà questa una bella sfida, di quelle in grado di accendere la curiosità e la ricerca. 

Bibliografia

Barbetta, P., (2017) Connessioni, 2017, 2 http://connessioni.cmtf.it/per-riscrivere-la-storia-della-clinica-sistemica/; Giuliani, 2014

Barbetta, P., (2017), voce “Milan Systemic Family Therapy”, in Encyclopedia of Couple and Family Therapy (pp.1-8, University of Bergamo).

Barbetta, P., Il virus come evidenza di Antropocene, Connessioni, 7, 2020, http://connessioni.cmtf.it/il-virus-come-evidenza-di-antropocene/

Barbetta, P., Telfener, U. (2019), Introduzione, in Barbetta, Telfener (a cura di), Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Barthes, R., (1980), La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi.

Campbell, D., (2003) “Fundamentals of Theory and Practice Revisited; The Mutiny and the Bounty: The Place of Milan Ideas Today”, Australian and New Zealand Journal of Family Therapy,  24.

Crutzen, P. J.; Stoemer, E. F. (2000), “The Antropocene”, in IGBP Newsletter, 41, may, 2000.

Giuliani, M. (2016), https://www.massimogiuliani.it/blog/2016/05/09/deletteralizzare-paradosso-e-controparadosso-il-terapeuta-allincrocio/

Giuliani, M. (2014), “Il bambino sistemico e l’acqua sporca”, Riflessioni Sistemiche, 11, dicembre 2014, p. 163-175, http://www.aiems.eu/files/rs_11_-_giuliani.pdf

Telfener, U., (2015), Riflessioni sulla terapia individuale sistemica, http://www.systemics.eu/riflessioni-sulla-terapia-individuale-sistemica/

Telfener, U., La sistemica, una storia personale, Riflessioni Sistemiche, 21 dicembre 2019, p. 149-161, http://www.aiems.eu/files/rs21_-_saggio_telfener_definitivo_on_line.pdf