Dalla tragedia greca alla terapia familiare

Dalla tragedia greca alla terapia familiare

di Violeta G. Kaftantzi-Hasta
Psichiatra, Psicoterapeuta, PhD AUTH, ex direttore del Centro di Salute Mentale di Thessaloniki Ovest.
Traduzione di Ada Piselli

Ri-edizione dell’articolo di Kaftantzi-Chasta, V. (2002): “Dalla tragedia antica alla terapia familiare” pubblicato su Metalogos, marzo 2002, numero1, pp. 56-78, e sul numero 33 della versione digitale di Metalogos. Ringrazio Eleni Samara, psicologa, per la traduzione in inglese del testo. L’autrice ringrazia Lynn Hoffman per l’inspirazione e l’incoraggiamento per questo articolo, e per avermi fatto l’onore di commentarlo. Ringrazio anche il direttore scientifico del CMHC della clinica psichiatrica della Prima Università, il professor Asterios Pitsavas, per l’incoraggiante cornice che ha messo intorno al mio lavoro, e la mia equipe di psichiatri internisti, Themis Avgoustakis, Kostas Vevas, Ioanna Manou, Mary Mantsi, Magda Mihou, e Dimitris Tychalas, per le esperienze arricchenti che abbiamo condiviso e per la vivacità, l’entusiasmo, l’immaginazione, la creatività e la gioia che hanno portato nella nostra relazione.

Nata dunque la tragedia all’inizio dall’improvvisazione… [essa] origina dal ditirambo… Crebbe un poco per volta… promosse il discorso parlato al ruolo di protagonista… poiché aveva conseguito la natura sua propria.
Aristotele, Poetica

La tragedia nasce, come genere poetico, quando nel ditirambo l’esarca o il capo del coro, improvvisando, prende l’iniziativa e inizia a parlare individualmente, avviando un dialogo con il coro. “E la tragedia nasce esattamente come genere psicologico, quando l’uomo diventa separato dalla natura, l’individuo diventa separato dal gruppo, Prometeo diventa separato dal sistema e inizia a parlare come una personalità distinta, aprendo a un dialogo con l’universo”, Nikoloudis (1995).

Secondo Nikoloudis (1995), il conflitto tragico è stato avvertito prevalentemente come il conflitto dell’uomo contro il Fato. La battaglia è tra “dikaion [il giusto]” e “philion [l’amato]”, e la soluzione sta nello scegliere il primo anziché il secondo, una scelta da cui origina la maestosa supremazia del “philtaton [giustizia]”.

Prometeo, il primo vendicatore, preferisce la salvezza dell’umanità alla propria; Antigone sacrifica l’amore e la vita per vendicare il fratello morto.

La tragedia è collegata al culto del dio Dioniso. Figlio di Zeus e della mortale Semele, del dialogo erotico tra il mondo e il regno degli inferi, i termini originari dell’unità dialettica, simbolizza la separazione dell’uomo dalla natura e l’evoluzione in un essere superiore poiché, secondo la leggenda, venne separato dal ventre della madre morta, vittima della gelosia di Era, e impiantato nel corpo di suo padre, Zeus.

Questa nascita tragica è il soggetto dell’origine della tragedia.

La tragedia nasce dallo spirito dialettico greco, durante il picco più alto della civiltà greca, insieme alla polis [la città], la storia, la democrazia, quando appaiono per la prima volta nel mondo i concetti di amicizia, filantropia e giustizia sociali.

Secondo Walter Nestle, la tragedia nasce quando si cominciano a vedere i miti attraverso gli occhi di un cittadino. Da una parte c’è il coro, collettivo e anonimo, la rappresentazione dei cittadini, e dall’altra c’è l’individuo, le cui azioni sono il fulcro del dramma.

Secondo Vernant (1988), il significato tragico della responsabilità delle proprie azioni emerge sul confine dove le azioni umane incrociano i poteri divini e dove gli uomini deinos [gli uomini straordinari], queste creature misteriose, che sono allo stesso tempo colpevoli ed innocenti, con una mente lucida ma anche cieca, accettano la responsabilità per le loro azioni, mentre il loro vero significato resta al di sopra di loro e sfugge.

Lo spazio tragico sta tra l’eroico passato cristallizzato nei miti e il nuovo ordine della città, i nuovi modi di pensare che segnano l’emergere della giustizia, e la risoluzione del dramma esprime sempre il trionfo dei valori democratici imposti dalla nuova città democratica.

Contemporaneamente questi valori sono interrogati e indagati attraverso la conversazione, e la città stessa diventa un teatro e il soggetto dello spettacolo viene recitato di fonte ad un pubblico. E così la vittoria non ha le caratteristiche di una placida certezza, quanto piuttosto di una speranza e una preghiera, da cui l’angoscia non è mai completamente assente.

Così la tragedia è un parto, un tentativo di “costruire” un’identità, una nuova coscienza per il cittadino.

*

I concetti presi dalla tragedia antica hanno costituito una parte integrante dell’esperienza di training che racconterò. All’interno della cornice di formazione e terapia, sono emerse delle connessioni tra la terapia sistemica e la tragedia antica, che sono state particolarmente utili per comprendere i concetti sistemici di base, i ruoli connessi ai modelli familiari nella cultura greca e la “reciproca” definizione delle cose. Quello che ho condiviso con i miei allievi è stata un’apertura all’“improvvisazione” nella formazione che è diventata fonte di conoscenza e gioia per tutti noi.

Le versioni dei concetti sono state scelte tra altre in modo amatoriale, per le nostre connessioni, poiché la tragedia antica non ha mai smesso di essere un campo di ricerca ed indagine con interpretazioni spesso contraddittorie. La formazione ha avuto luogo presso il dipartimento di terapia sistemica, che ho avuto l’onore di avviare e dirigere, al Community Mental Health Center della Prima Clinica Psichiatrica Universitaria dell’Università Aristotelica di Thessaloniki. Il training in terapia sistemica era parte di un più ampio programma di formazione in psicoterapia per gli psichiatri interni alla clinica. La cornice teorica era prevalentemente influenzata dal modello di Milano (Boscolo, Cecchin, Hoffman, Penn, 1987) e dagli sviluppi contemporanei della cibernetica di secondo ordine. Ciò ha condotto allo sforzo verso pratiche “non-interventiste”.

In parallelo ai seminari teorici, ho supervisionato casi con i miei allievi attraverso lo specchio unidirezionale e reso la supervisione parte integrante del lavoro di formazione.

Per gli allievi è stato il primo incontro con il pensiero sistemico in un contesto in cui l’approccio psicoanalitico era il modo familiare di comprendere le cose. La cornice teorica della terapia e l’osservazione di terapie attraverso lo specchio unidirezionale erano altrettanto nuove, poiché fino a quel momento la loro esperienza consisteva in terapie individuali e in una relazione terapeuta-paziente invisibile ad altri. Contemporaneamente, c’era un caso che coinvolgeva tre sorelle che gli allievi avevano connesso con il dramma omonimo di Cechov. Tutto l’insieme ha portato gli allievi verso le idee di “teatro”, “performance”, “spettatori” eccetera. Hanno iniziato ad emergere temi comuni nella famiglia (i pazienti) e nel team dietro lo specchio – temi come “destino”, “devozione”, “separazione” eccetera. Alcune delle prime connessioni fatte riguardavano l’azione teatrale, l’immagine dei membri della famiglia che interpretavano una tragedia antica; il ruolo degli allievi è stato connesso al coro, e il comportamento delle eroine della terapia connesso alle antiche eroine, come Antigone di Sofocle. Queste sono tutte immagini familiari, pezzi della cultura greca, di un mondo antico che giace in rovina, eppure ancora così vivido, intorno a noi.

Analogie tra scene della terapia e scene della tragedia antica, tratte da vasi antichi ed altri oggetti (Kaftantzi, Vevas, Mantsi, Mihou, Tychalas, Avgoustakis, Manou, 1997; Historic Editions Society,1972).
Le scene della terapia sono tratte da una sessione di role-playing basata sulla terapia del caso delle tre sorelle, filmata per il workshop “Tre sorelle: un racconto” Kaftantzi et al., 1997. Le tre sorelle sono interpretate dagli allievi psichiatri M. Mantsi, I. Manou and M. Mihou.

Figura 1. L’anfiteatro di Dioniso, nella parte sud dell’Acropoli, Atene.
Figura 2. “Le tre sorelle”
Figura 3.
Figura 4. Coro tragico in gesto di supplica di fronte all’altare di Dioniso, 500-490 a.C., Basilea, Art Museum
Figura 5. Elettra si tocca il mento con le dita, un gesto di disperazione e di attenzione, appena dopo aver sentito la notizia falsa circa la morte di Oreste. Una scena della tragedia “Elettra”, 4° secolo a.C., Vienna, Art Museum.

 

Figura 6. Un fotogramma della scena dell’incontro tra Elettra e Oreste presso la tomba di Agamennone. Elettra siede sconsolata alla base del monumento, 4°secolo a.C., Parigi, Museuo del Louvre.
Figura 7. Coro tragico nel caratteristico movimento di lamentazione intorno al busto di Dioniso, 500-400 a.C., Monaco, Museo Archeologico.

 

Il “subbuglio” (Maturana, Varela, 1988) ha stimolato una “curiosità” (Cecchin, 1987) creativa per le connessioni tra la tragedia e l’approccio sistemico e il flusso bi-direzionale davanti e dietro lo specchio unidirezionale.

E così è iniziata l’esplorazione congiunta dei concetti fondamentali della tragedia, in parallelo allo studio dei concetti della terapia sistemica. Sono state organizzate presentazioni e discussioni sui concetti di “dramma”, “tragedia”, “coro”, “catarsi”, “maschera” eccetera e anche sulle tragedie Antigone ed Elettra di Sofocle, Ifigenia in Aulide e Le Baccanti di Euripide, eccetera, e su spettacoli moderni come Le tre sorelle di Cechov e Yerma e La casa di Bernarda Alba di Lorca.

Una conferenza sistemica a Thessaloniki è stata l’incentivo a rendere questo lavoro più sistematico. Parallelamente, la partecipazione degli allievi ad un workshop e la loro interazione con un pubblico sarebbe stata una parte “vivente” della formazione, un pezzo di esperienza, in cui si sarebbe dovuto trovare nel gruppo un equilibrio tra responsabilità individuali e collettive, e in cui la loro relazione con il pubblico sarebbe diventato materiale esperienziale su cui riflettere. Con l’adesione entusiasta di tutti, il nostro lavoro si è velocizzato ed ha occupato ore e giorni oltre il nostro orario di lavoro: abbiamo tenuto piccoli “simposi” al lavoro o a casa dell’uno e dell’altro, in piccoli caffè o taverne, che hanno alimentato familiarità e agio nella nostra relazione.

La preparazione e la presentazione del nostro lavoro alla conferenza, con il titolo “Tre sorelle: racconto di un processo terapeutico” (Kaftantzi, Vevas, Mantsi, Mihou, Tychalas, Avgoustakis, Manou, 1997)), come commentato dagli stessi allievi, era una combinazione di performance teatrali, racconti e scene video-registrate. Avevamo filmato degli spezzoni di role-playing, “scene” dalle nostre sedute di terapia con le tre sorelle. La nostra equipe aveva le sembianze di un coro greco. Ciascun allievo recitava un brano preparato che riguardava i significati della tragedia antica e io facevo il “narratore”, collegando il lavoro con le proiezioni delle scene video-registrate.

Questa conferenza, così come altri congressi scientifici e conferenze successivi in Grecia e all’estero, sono diventati parte dell’intero processo; pietre miliari lungo il sentiero del suo arricchimento e del suo sviluppo, l’organizzatore delle informazioni [1]. Nel giugno 1997 Lynn Hoffman ha condotto un seminario di due giorni a Thessaloniki (Hoffman, 1997). L’ho vista utilizzare magistralmente il reflecting team con i partecipanti, oltre il campo della terapia, e ho osservato il suo particolare interesse per la cultura greca in relazione alla teoria e alla pratica del suo lavoro. Da allora la “storia di un’idea” è diventata uno strumento indispensabile per me, nella ricerca e nell’organizzazione delle informazioni. Un anno dopo, Lynn Hoffman e Harlene Anderson hanno partecipato al congresso scientifico di due giorni dal titolo “La costruzione sociale dell’identità” (Hoffman, Anderson, 1998). Le due terapeute hanno gestito un pubblico grande, connettendo piccoli reflecting team con l’intero sociale unificato, mostrando nella pratica cosa significhi la riflessione sociale sulle azioni del singolo.

La mia presentazione a qual convegno, “Dal coro greco allo specchio unidirezionale”, costituisce la base per questo articolo.

*

La tragedia è una forma di teatro (drama) [2] (Easterling, Knox, 1985; Leech, 1969; Dawson,1970). La parola drama deriva dal verbo dorico dro, simile all’Attico poio, che significa “fare”. Il teatro nacque quando si aggiunse il movimento alla recitazione dei poemi epici – quando la trama non è presentata come una narrazione, ma come una realtà agita. Il poema epico racconta, il teatro mostra. La sua potenza deriva dal fatto che è tangibile e straordinario.

Il dromeno [evento messo in atto] è un’azione, una cerimonia che deve essere ogni volta riprodotta fedelmente, seguendo uno specifico rituale, poiché questo facilita la finalità religiosa. L’immediatezza di qualcosa che sta accadendo qui ed ora è parte integrante del teatro.

Secondo Aristotle, l’azione contribuisce al potere della tragedia di suscitare nel pubblico “compassione e paura” e conseguentemente “ripulire” l’anima che è afflitta dalle passioni. Compassione per il destino avverso dei protagonisti del dramma (sentimenti di altruismo), e paura per la rovina imminente dell’eroe, così come per la propria sorte (sentimenti di auto-conservazione). Gli spettatori comprendono la natura effimera e vulnerabile della felicità umana, e i limiti delle possibilità conoscitive dei mortali.

La catarsi deriva dalla terminologia medica e significa “separazione che libera”. La stimolazione delle passioni causa fondamentalmente una “liberazione” insieme ad un “piacere familiare”, dal momento che nella trama il protagonista viene riscattato, e viene anche sollecitata una passione per la virtù.

Il contatto del pubblico con l’essenza del destino degli uomini e il riconoscimento, attraverso un evento esterno, del dolore e delle avversità come parte integrante della vita, hanno una funzione catartica e producono il familiare piacere della tragedia (Iakov,1998).

“…Una parte essenziale della tragedia è l’effetto spettacolare”. Questo si riferisce al ruolo delle maschere, che contribuiscono alle emozioni tragiche interpretate dagli attori, al successo della finzione, che Aristotele definì, parlando della tragedia, la rappresentazione di un’azione che sia “eroica e completa”.

Figura 8.
Figura 9. Maschera di un giovane eroe, 1°secolo a.C.

 

Figura 10. Lanterne con una maschera comica ed una tragica, 1° secolo a.C., British Museum

 

La tragedia antica connette due elementi che sono contrapposti per natura: il coro ed i personaggi. Veniva rappresentata contemporaneamente su due livelli. L’orchestra era una vasta area circolare bassa, con un altare di Dioniso al centro, ed era il campo di azione del coro. Dietro c’era il palco per gli attori. Il palco era attrezzato con una specie di balconata su cui apparivano gli dei. Si ipotizzava che l’azione avesse luogo all’esterno di un palazzo. Qualora fosse necessario, si usava un’attrezzatura chiamata encliclema per mostrare al pubblico una scena o un episodio che avveniva dentro al palazzo. Gli attori ed il coro non si mescolavano mai.

Dalla sua posizione, il coro restava indipendente dall’azione, in piedi tra gli attori ed il pubblico, seduto su un largo anfiteatro a gradoni.

Nessuna altra forma di teatro ha mai conosciuto qualcosa di simile. Si sviluppano simultaneamente azioni tra i protagonisti e osservazioni dell’opinione pubblica, che non può partecipare all’azione, ma che con i suoi pensieri sottolinea l’azione stessa… il coro esprime quello che, secondo la propria opinione , è il significato profondo degli eventi che sta osservando, il significato universale… Una delle grandi innovazioni della tragedia antica è che seleziona i fatti più incredibili e straordinari offerti dai miti per estrarne conclusioni sulla vita quotidiana delle persone… J. de Romilly (1996).

Il coro [3] (Baldry, 1971) è stato storicamente il primo elemento della tragedia, il punto di partenza per la rappresentazione. Il termine probabilmente deriva da “chortos”, che significa recinto, cornice.

Secondo de Romilly (1976), il coro viene rappresentato come se richiamasse i ricordi delle esperienze del pubblico. È la rappresentazione collettiva del pubblico – i loro ricordi, paure, aspirazioni. Ma è anche penetrante, quando predice avvenimenti sconvolgenti o quando anticipa gli sviluppi futuri degli eventi.

Il coro è interessato allo sviluppo degli eventi, ma, allo stesso momento per sua stessa natura, impossibilitato a parteciparvi, motivo per cui è spesso composto da donne o uomini anziani, che non possono combattere per difendersi (ad esempio gli anziani ne I persiani o Agamennone).

Quando non è sopraffatto da sentimenti di terrore, il coro riflette, cerca le cause, si appella alle divinità, e prova a comprendere. Ecco perché spesso rivanga il passato, nel tentativo di trarne lezioni. Così offre al pubblico nuove prospettive e le sue riflessioni aggiungono una dimensione ulteriore all’azione principale.

Il doppio ruolo del coro era una parte integrante della tragedia: comunicava sia con gli attori che con il pubblico, che vedeva queste persone semplici, uomini anziani o donne schiave, più simili a sé degli eroi e degli attori che davano loro vita.

Il coro reagiva come gruppo ad ogni cosa che veniva detta e fatta e, affinché questa reazione fosse visibile, doveva parzialmente guardare in direzione del pubblico. Nonostante i suoi movimenti, il pubblico avrebbe dovuto percepire ogni aumento o diminuzione del ritmo della rappresentazione.

*

Un coro composto da figlie di Cecrope e dal piccolo Erittonio in cerchio, come delle moderne danze folcloristiche, Atene, Museo dell’Acropoli

Questa immagine, in cui l’antico encliclema ruotava il palco per mostrare l’interno del palazzo, “calza a pennello” con il reflecting team di Tom Andersen (Andersen, 1987). Ruotiamo anche noi per mostrare una discussione del nostro team, che non “rimandava” direttamente alla famiglia, ma indirettamente attraverso i terapeuti [4].

Avgoustakis Th.: …Dunque un coro segue l’altro? E qual è il nostro ruolo in definitiva? Qual è il ruolo del coro qui? È una parte attiva della tragedia? Fa consulenza? Resta a guardare? Cosa è il coro in questa circostanza?

Kaftantzi, V.: Ci siamo definiti così [5], ma attraverso le nostre azioni ci siamo definiti come protagonisti.

(commenti)

Avgoustakis, Th.: Oh! Ci siamo definiti! (Con riserva sull’arbitrarietà)

Vevas, K.: Ma tu non puoi semplicemente decidere e dire “noi siamo il coro”. Spesso il coro si può alternare.

Mantsi, M.: Inoltre ogni seduta di terapia è come uno spettacolo differente, o una differente tragedia.

Vevas, K.: Se guardiamo quello che dice Magda alla fine, sulla casa di Bernarda Alba, anche queste tre sorelle possono essere un coro [6].

Kaftantzi, V.: Dunque c’è un altro livello. Direi che ogni idea che emerge potrebbe essere un’occasione per un circolo di altre idee, di ipotesi… cosa significa “coro” per la famiglia, un “coro” che testimonia il dramma dei genitori…

Avgoustakis, Th.: E loro portano questo argomento da soli, propio come portano la famiglia. Dall’interno, dove sono protagonisti e dicono “quelli che guardano le vetrine lì fuori”, dunque il coro è fuori, non la famiglia.

Vevas, K.: Ancora, un coro rispetto al loro dramma personale. Non necessariamente rispetto al dramma dei genitori, ma proprio il loro personale, proprio come le figlie di Bernarda Alba.

Kaftantzi, V.: E così ci connettiamo ai drammi moderni…

(Il gruppo commenta – risate)

Tychalas, D.: La mia impressione è che, proprio come quando sentiamo rumore di zoccoli pensiamo ai cavalli e non alle zebre, la correlazione immediata è che noi, i terapeuti, siamo il coro. Voglio dire, credo che l’altra versione sia un po’ stiracchiata, e noi abbiamo molti degli elementi che Magda descrive.

Kaftantzi, V.: Sono molto d’accordo.

Vevas, K.: Sì, ma comunque non dobbiamo dimenticarci che la seconda ipotesi ci permette di connetterci con il dramma moderno…

Tychalas, D.: …Perché se guardiamo gli interventi, quando il terapeuta esce fuori e riporta le opinioni del coro…

Avgoustakis, Th.: (interrompe) Ma qual è allora il ruolo di Violeta?

Tychalas, D.: …abbiamo visto che questi interventi si adattano perfettamente alle descrizioni di cosa dice il coro.

Mantsi, M.: È vero! (Rivolto a Violeta) Quello che fai, quando entri dentro e dici “l’equipe terapeutica dietro lo specchio dice che…” [7] ricorda moltissimo il coro[8].

Vevas, K.: Sì, ma siamo più attivi.

Kaftantzi, V.: La nostra parte invisibile è più attiva…

Tychalas, D.: Da qualche parte è scritto che spesso il coro ritorna su dati storici, sui ricordi, proprio come noi facciamo riferimento alla tragedia, all’intera storia della tragedia, per preparare i nostri interventi, le nostre connessioni… Il coro non determina e noi non determiniamo. Per esempio, se il coro sa che Edipo è il figlio del re, non dirà: “Edipo, questo è tuo padre”. Lascerà che Edipo lo uccida, pur sapendo che è il figlio del re. In questo senso, anche noi non compiamo quel tipo di azione. Compiamo azioni differenti, come il coro, commentiamo in seguito e lasciamo l’azione ad altri…

Avgoustakis, Th.: Ho appena avuto un pensiero: se presentiamo [9] un estratto del video delle “tre sorelle” (il caso), automaticamente gli spettatori diventano il coro, e così abbiamo un ulteriore sviluppo… (risate)

Tychalas, D.: Un’altra cosa che c’entra è il ruolo che avremo presentando questo paper. Assumiamo il ruolo del coro nel dramma, in cui diventiamo commentatori verso il pubblico e facciamo loro sperimentare il dramma attraverso i nostri commenti…

Considero questa discussione un dono. Perché riassume tutto quello che l’approccio costruttivista professa rispetto alla formazione, per come l’ho capito. Ad esempio, ci sono livelli multipli di “riflessioni”, livelli multipli di persone “agenti” e di “pubblico” che osserva l’azione, e le loro alternanze, che emergono. Questa è la realtà multidimensionale e le riflessioni reciproche che la definiscono.

Le domande degli allievi sono prevalentemente collegate alle questioni principali della teoria e della pratica sistemica, così come influenzate dall’atteggiamento fondamentale di Bateson sul “rispetto” (Bateson, 1972) per il sistema e per la saggezza sistemica del mondo.

La discussione comprende un tentativo di definire e connettere idee, a partire dal “coro”, attraverso cui cercano di comprendere il proprio ruolo, definire la loro identità, basata sulla nuova cornice percettiva offerta dalla prospettiva sistemica.

Gradualmente il gruppo di allievi scopre il doppio ruolo del terapeuta e del coro, in relazione alla terapia:

Il ruolo dell’allievo-osservatore-spettatore, laddove l’allievo viene chiamato a guardare, osservare l’azione. E allo stesso tempo il ruolo del terapeuta-coro, cioè un personaggio attivo con una coordinazione di gruppo, all’interno dei limiti previsti dal contesto della terapia. Infatti il gruppo è chiamato contemporaneamente a partecipare, a interrogarsi, a esprimere le proprie idee, partecipando attivamente all’azione della terapia.

Quello a cui ci stiamo riferendo è la reciprocità dell’azione e dell’osservare come spettatori, a vari livelli, che avvolge l’agire terapeutico e lo connette all’universo.

I “temi comuni” con la famiglia che hanno iniziato ad emergere nelle vite personali dei membri dell’equipe hanno tirato fuori il concetto di “catarsi”.

Quando si è deciso di includere delle “scene” della terapia nella nostra presentazione alla conferenza, l’idea che queste scene fossero interpretate dagli allievi è sembrata molto vantaggiosa, piuttosto che chiedere il consenso alla famiglia per mostrare le sedute reali. Scegliere dei frammenti delle sedute, fare le prove, filmare: l’intero processo ci ha introdotti nell’affascinante atmosfera di stare preparando una rappresentazione per il pubblico della conferenza.

E così, come storicamente siamo passati dalla narrazione dei poemi epici al teatro e alla tragedia, il gruppo è passato dalla teoria alla pratica, “interpretando” le tre sorelle preparandosi per la presentazione, impersonando le tre sorelle davanti a un pubblico diverso.

“L’imitazione di un atto produce conoscenza su di sé” (Aristotele)

Aristotele attribuisce il piacere derivato dalla tragedia non tanto alla natura dello spettacolo, quanto al processo di apprendimento che viene attivato grazie all’arte. Il teatro approfondisce l’esperienza dello spettatore, poiché riflette sulle motivazioni, scelte e conseguenze delle azioni degli uomini e quindi la sua conoscenza dell’umanità aumenta. Questa conoscenza antropologica produce piacere e conduce a più profonde comprensione, comunicazione e solidarietà tra le persone.

Gli allievi sembrano cercare “catarsi” per la famiglia e al tempo stesso “catarsi degli spettatori”, cioè loro stessi, dalle “passioni” che sono state sollecitate dal processo terapeutico con la famiglia – la “tragedia”.

La famiglia e l’equipe sono diventati lo specchio reciproco delle loro passioni.

La terapeuta, di fronte e dietro lo specchio, nel doppio ruolo di terapeuta e didatta, mantiene il distacco del moderatore (“autore”) del processo, anche attraverso la sua simbolica assenza dalle immagini.

Un parallelo tra la tragedia antica e le connessioni sistemiche: la mediazione come una relazione che connette.

La tragedia antica connette il tempo storico, lineare, con il tempo mitologico, ciclico, che ruota eternamente.

L’eroe tragico, un simbolo, una forma di mediazione tra l’Olimpo e l’Ade, e i nostri clienti, personaggi tragici che lottano tra obblighi e desideri inconciliabili tra loro.

Il mondo antico, con la sua struttura verticale, con gli dei ed il potere in cima, l’esilio e la punizione al fondo, il disco piatto della terra ed il disco piatto dell’orchestra nel mezzo, dove ha luogo l’azione (Bateson, 1972).

E lo specchio uni-direzionale, che media e connette attraverso l’osservazione del dramma della famiglia con l’equipe terapeutica.

Tutto ciò dimostra attraverso le fonti antiche, i concetti ancestrali universali che sono connessi alle comuni passioni contemporanee, la “confusione” pirandelliana (Pirandello, 1986) tra il “reale” e la messa in scena, tra gli attori, il moderatore, i personaggi “reali”, l’autore, cioè la fluidità della condizione tra quello che pensiamo degli altri e quello che pensiamo di essere.

Poiché gli allievi sembrano diventare più facilmente spettatori partecipanti, essere più vulnerabili alle loro passioni, hanno bisogno di chiarire il loro ruolo, la loro identità, rispetto alla nuova situazione. E così fanno riferimento a modelli familiari che “calzano” anche nel contesto sistemico.

Più avanti il gruppo di allievi ha descritto il contesto sistemico come segue:

Quello che era già familiare è diventato organizzato. La relazione e la connessione con le cose era lì, potevamo sentirla, ma si è resa visibile…

Siamo diventati un “gruppo”…

La parte di lavoro su di sé è stata molto importante, cioè la nostra partecipazione attiva alle manifestazioni della nostra formazione…

La connotazione positiva di situazioni “negative” riguardo la famiglia e il gruppo, il concetto di Bateson di “rispetto” per il sistema, ci hanno fatto sentire sollevati rispetto a nostre situazioni analoghe. La posizione di non giudizio, la “neutralità”, ha favorito la nostra spontaneità e questo è importante.

Abbiamo esplorato la tragedia antica non come avevamo fatto a scuola, quando ci era imposto come un “dovere”, ma attraverso un reale interesse e curiosità, poiché era in relazione a esseri viventi…

L’esperienza della formazione è stata “terapeutica” per noi… Perché alla fine quello di cui stavamo parlando era la nostra “follia”.

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Ho avuto l’onore e il privilegio che Lynn Hoffman commentasse il mio articolo. Con il suo permesso riporto qui i suoi commenti.

Lynn Hoffman, Thessaloniki, 1997

Violeta,

Sono molto colpita. I parallelismi tra i gesti nella tragedia greca e le scene filmate dal role-play del caso delle “tre sorelle” sono davvero ammirevoli, e le spiegazioni storiche danno al testo un contesto accademico molto ricercato.

Ulteriori riflessioni. Mi piace il modo in cui definisci la “tragedia”, il “coro” e la “catarsi”, indicando connessioni con tra i rituali dell’antico teatro greco e i rituali nella terapia sistemica. Ad esempio, la tua descrizione dell’encliclema come un dispositivo del palcoscenico che rivela prospettive nascoste è un grande parallelismo con il dispositivo dello specchio uni-direzionale. La similitudine più importante è l’idea che il teatro greco è un avvenimento comunitario, nel quale il coro diventa la “rappresentazione collettiva del pubblico”. Le riflessioni del gruppo sul lavoro che hanno portato a termine con te e la performance che stanno per portare in scena è un eccezionale, vivido esempio di questo tipo di interazioni riflessive.

Un altro punto importante nella tua descrizione è il coro come un gruppo di persone comuni con nessun potere effettivo. Diversamente dal coro “strategico” loro non cercano di influenzare gli eventi nello spettacolo, anche se li commentano. Sono testimoni, non agenti di cambiamento. Come dici tu, questo è simile alla posizione del reflecting team di Tom Andersen.

Questo mi porta ad un’altra questione rilevante. Non sono sicura se, nel tuo role-play delle “tre sorelle”, il tuo gruppo si è comportato come un reflecting team o come un team nello stile di Milano. So che Cecchin ha fortemente influenzato il tuo lavoro, e questo potrebbe significare che hai sperimentato entrambi i tipi di team. Lo devi chiarire, perché i due modelli sono molto diversi. L’equipe di Milano costruisce un intervento-messaggio, fuori dalla portata di orecchie della famiglia, senza condividere i pensieri che lo hanno prodotto, e la persona che conduce l’intervista riporta il messaggio alla famiglia. L’equipe ed il terapeuta sono a tutti gli effetti agenti di cambiamento. Questo non è vero nel reflecting team. Il gruppo si scambia idee mentre la famiglia osserva con molta attenzione, e successivamente la famiglia commenta mentre il gruppo osserva con molta attenzione. Non c’è nessun intervento propriamente detto. Credo che questo sia vero anche per il coro greco. Potresti parlarne con il tuo gruppo e vedere cosa pensano di questa distinzione…

Con i miei più grandi e affettuosi auguri per te e per il tuo gruppo, Lynn

Vorrei ringraziare Lynn Hoffmann per questi commenti, poiché nel suo modo unico chiarisce le connessioni implicite ed evidenzia le idee centrali dell’articolo, facilitando la sua ultimazione. Allo stesso tempo, con la facilità della sua preziosa esperienza e con la sua raffinata capacità – a cui i terapeuti familiari e sistemici devono la mappa della loro storia – di penetrare l’essenza delle cose dando loro una forma, sottolinea chiaramente e sinteticamente, usando le parole chiave giuste, due schemi fondamentali della funzione terapeutica, tra cui si muovono le idee della seconda cibernetica.

Così vorrei chiarire che in questo caso stavamo usando il rituale del modello di Milano, che consiste in questo: il terapeuta, dopo aver discusso con l’equipe dietro lo specchio, lontano dalle orecchie della famiglia, rientra nella stanza della terapia e consegna un messaggio alla famiglia. Ma la differenza è che questo messaggio non era semplicemente una composizione intesa come un intervento orientato verso il cambiamento, ma uno stimolo offerto semplicemente, che la famiglia poteva utilizzare come riteneva opportuno. In questa specifica cornice di training, quello che ho cercato spontaneamente di fare è stato di riportare alla famiglia dei messaggi indipendenti da pensieri, idee, commenti, positivamente connotati, specificando che provenivano da persone diverse. Ad esempio: “un membro del gruppo aveva questa idea… un altro ha pensato che..” eccetera. Così era qualcosa come un precursore del reflecting team, che ho poi usato in seguito.

Vorrei anche includere alcuni passaggi della discussione “riflessiva” del gruppo circa i commenti di Lynn Hoffman e anche di un gruppo di osservatori che ha seguito questa discussione attraverso lo specchio uni-direzionale.

Kaftantzi V.: Dunque, quale tipo di team pensate che siamo?

Mihoy M.: Io penso che la nostra sola differenza con il team di Tom Andersen è tecnica. L’essenza è la stessa. Magari le tre sorelle non potevano sentire quello che dicevamo, ma tu potevi, e tu eri con la famiglia. Così io ti vedo come un membro della famiglia che influenza gli altri. Tu vieni e discuti con noi dietro lo specchio, poi vai e riporti i nostri commenti alla famiglia.

Vevas K.: Io non sento il bisogno di definirmi…Perché dobbiamo usare un “o/o” che separa e non una “e” che connette? Possiamo avere elementi di entrambi. Mi fa venire in mente i primi terapeuti sistemici che dovevano assolutamente definirsi in relazione alla psicoanalisi.

Manou I.: Se non ci definiamo ci sentiremo confusi.

Vevas K.: Ci possono essere confini netti in terapia?

Kaftantzi V.: Io credo che sia un’opportunità discutere quello che pensiamo di stare facendo. Vogliamo cambiare gli altri? E come? Quanto siamo interventisti?

Vevas K.: Il dialogo nel reflecting team non è un intervento? Allora cosa significa “intervento”?

Manou I.: Nel nostro caso non ha direzione. Abbiamo dato loro stimoli su cui riflettere. Se li hanno cambiati li hanno cambiati.

Kaftantzi, V.: In quanto terapeuti vorremmo aiutare.

Tychalas D.: Questo è implicito nella definizione di terapeuta, ma è diverso dal voler cambiare l’altra persona. Il tuo impegno a non essere interventista comprende il tuo desiderio di aiutare gli altri nel modo “migliore”, che è non essere interventista. Questo ti rende più di un terapeuta, perché oltre al tuo impegno a non intervenire c’è il tuo desiderio di essere un terapeuta “migliore”. Questo alla fine può essere un fattore di cambiamento più potente perché ha la direzione “migliore”… In fin dei conti “terapeuta” significa qualcuno che interviene, cioè il tuo obiettivo è il cambiamento, non importa se specifico o no, perché c’è sempre il desiderio di aiutare.

Vevas K.: Ciascuno dà il proprio significato alle parole. Adesso io ho bisogno di una definizione di “intervento”, “interventismo”, o almeno un accordo condiviso.

Mihou M.: Questo mi ricorda un articolo che abbiamo discusso tempo fa, “terapia senza paziente” che conclude che l’unico modo per non essere interventisti è dare al cliente una lettera scritta con inchiostro simpatico.

Vevas K.: Un foglio bianco non è un intervento?

Tychalas D.: Immagina se l’inchiostro scompare quando ne hai letto metà! (Risate).

Kaftantzi V.: In conclusione, chi è l’agente del cambiamento? Tom Andersen punta il riflettore verso i terapeuti e la famiglia li osserva. Noi usiamo l’enciclema per puntare il riflettore verso le nostre idee, per monitorarci, al di fuori dalla curiosità sul processo…

Vevas K.: Noi siamo stati gli agenti del nostro cambiamento, ma non di quello della famiglia.

Tychalas D.: Dal punto di vista procedurale il reflecting team è diverso dal modello di Milano. Ma penso che sia solo virtualmente “non interventista”. Credo che le persone che discutono siano formate. Dunque, forse è un intervento multiplo fatto da molti? Quale è più interventista? Quello non interventista? Sembra un gioco di parole.

(Il gruppo precedente scambia posto con il gruppo degli osservatori) [10]

Papadimou Ch.: Abbiamo perso gli ultimi cinque minuti (non hanno sentito per motivi tecnici). Non abbiamo sentito se c’è stata qualche conclusione. Forse non c’è. C’è un ricircolo di idee intorno all’intervento senza alcuno conclusione.

Dimitriadou S.: Mentre vi guardavo parlare mi è venuta in mente la pubblicità di una vodka con uno slogan che diceva “rende viva l’immaginazione”. Una bottiglia passa davanti ad un dipinto e ciascuno vede qualcosa di diverso attraverso la bottiglia. Sembra che lo specchio funzioni come la bottiglia. Altri pensieri: non puoi fare una “connotazione positiva” senza intervenire. Aggiungi o sottrai, quindi intervieni. Alla fin fine non puoi non intervenire… Non ho capito la correlazione tra il team ed il coro.

Katsohi E.: C’è una correlazione tra il protagonista ed il coro. Ma nella tragedia antica il coro sa cosa sta per accadere, mentre noi no, noi abbiamo delle aspettative.

Pagouni A.: Il sapere del terapeuta può essere pericoloso per i clienti, vincolante. Il terapeuta, con il suo sapere, limita il cliente, come se avesse potere su di lui. Naturalmente non possiamo cancellare tutto; non possiamo essere senza sapere e senza teorie. Non possiamo essere così “neutrali”. Ma forse il terapeuta può tentare di “dimenticare” quello che sa, se possibile, per portare oltre se stesso e i suoi clienti.

Papadimou Ch.: La neutralità è garantita dalla presenza dell’equipe dietro lo specchio. L’equipe interviene prevalentemente con il terapeuta, e indirettamente con la famiglia.

Dimitriadou A.: Quindi il terapeuta è preso in un braccio di ferro?

Pagouni A.: Vorremmo aver letto l’articolo… non possiamo seguire la discussione… Possiamo solo parlare del gruppo… Siete stati molto aperti. Ciascuno ha portato la propria esperienza, i propri pensieri, la propria parte, per come li vedeva dalla propria prospettiva e posizione. Mi è davvero piaciuta la pubblicità… Capisco che Kostas non voglia che il gruppo venga limitato… Ogni gruppo è qualcosa di diverso, distinto ed originale. La diversità degli individui rende la relazione terapeutica un incontro ogni volta differente… Se l’agente del cambiamento è il terapeuta, allora l’obiettivo del terapeuta non è tanto il cambiamento in quanto tale, quanto piuttosto che il desiderio di cambiamento diventi una scelta consapevole del cliente. Non so se il terapeuta introduce il cambiamento attraverso l’intervenire. Interviene anche solo con la sua presenza.

Dimitriadou S.: Mi è davvero piaciuto che non ci fosse una gerarchia. C’era libertà nel modo in cui parlavate.

Daniilidou B.: La relazione con il coro è stata molto funzionale… Alla fine è giusto o sbagliato intervenire? Quando dovremmo sentirci in colpa? Dovremmo imparare ad essere meno interventisti?

Katsohi E.: Anche io sono stata colpita dall’analogia del coro antico con l’equipe. Non so se il gruppo come “coro” interviene o no.

Pagouni A.: Quindi rimane un argomento aperto, una sfida a cui rispondere?

(Il gruppo precedente)

Mihou M.: L’idea di quanto siamo interventisti è cambiata con il training e con il nostro coinvolgimento. All’inizio sentivo che eravamo molto interventisti. Adesso siamo cambiati; sento che interveniamo molto meno. In ultima analisi siamo stati il reflecting team di noi stessi.

Vevas K.: Mi è piaciuta la similitudine con la bottiglia di vodka, che rivela un principio fondamentale: “la mappa non è il territorio”…

Bibliografia – citazioni

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[1] Nell’ottobre 1997 la conferenza dell’EFTA a Barcellona è stata l’occasione per presentare “Dalla tragedia antica a Cechov” (10) e “Un sistema formativo-terapeutico” (11); nel novembre dello stesso anno, alla conferenza che celebrava i 25 anni della scuola di Milano, ho presentato “Dal coro greco al reflecting team” (Kaftantzi, 1997)
[2] Le altre due forme di teatro sono la commedia e le rappresentazioni satiriche. Mentre il teatro si è sviluppato in varie zone del mondo, la tragedia è rimasta esclusivamente greca.
[3] L’idea del coro greco è stata usata fai terapeuti familiari come una tecnica strategica, ad esempio da Peggy Papp (Papp, 1980).
[4] Estratto da una discussione videoregistrata che ha avuto luogo nel novembre 1996, nella stanza per le terapie sistemiche del CMHC della Prima Università di Psichiatria. I partecipanti: M. Mihou, K. Vevas, Th. Avgoustakis, M. Mantsi, D. Tychalas (inquadrati) e V. Kaftantzi.
[5] Fa riferimento all’enfasi nelle discussioni e nelle attività del gruppo.
[6] Lo spettacolo di Lorca era stato discusso in un incontro precedente e le figlie di Bernarda Alba erano state considerate come un coro rispetto al loro dramma familiare.
[7] Si sta riferendo alla trasmissione di idee dall’equipe dietro lo specchio alla famiglia nella stanza di terapia.
[8] In un’altra discussione il ruolo dei terapeuta era stato connesso con quello del corifeo, il capo del coro.
[9] Sta facendo riferimento al Secondo Meeting Panellenico “Terapia familiare – Terapia sistemica in Grecia oggi”, marzo 1997 (Kaftantzi, Vevas, Mantsi, Mihou, Tychalas, Avgoustakis, Manou, 1997).
[10] Gli osservatori sono psicologi all’inizio del training sistemico: non hanno letto l’articolo, ma hanno ascoltato I commenti di Lynn Hoffman. Sono: Vicky Daniilidou, Sophia Dimitriadou, Efi Katsohi, Anna Pagouni, Christina Papadimou.