di Loredana Antonina Messina *, Antonio Claudio Cannizzaro **, Maria Rosa D’Anna ***
* Psicoterapeuta sistemico relazionale presso l’Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli, Palermo, Presidente dell’Associazione “Georgia”
** Dirigente Medico ginecologo presso l’Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli, Palermo
*** Direttore Dipartimento Materno Infantile-Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli, Palermo
Introduzione
“Essendo inorridite a suo tempo per i riti macabri del movimento per la vita che celebrava i funerali dei feti, non abbiamo cercato elaborazioni collettive della perdita che molte provano dopo un aborto. Non era possibile fare altro che metterla da parte, nell’ipotesi migliore piangere con le amiche. Il timore di lasciare spazio all’avversario ci paralizzava, e anche quando non era del tutto così, e si esprimevano angosce implacabili e nere depressioni, non se ne faceva un discorso pubblico…” (Di Pietro, Tavella, 2016).
Queste poche righe sono tratte dal libro Madri Selvagge che tratta del femminismo e della possibilità di operare volutamente un’interruzione di gravidanza. Seppur in esso l’aborto non venga trattato in termini di perdita e di lutto, ma in termini di scelte ideologiche, anche in esso è possibile identificare aspetti connessi al bisogno di elaborazione del lutto, pur essendo una scelta consapevole.
L’aborto spontaneo, la morte intrauterina e quella perinatale sono degli argomenti considerati tabù nella società attuale (Cazzaniga, 2017) e, seppur negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’apertura, non si è trovato ancora un accordo o modalità condivise per trattare questa tematica, sia per la delicatezza dell’argomento sia perché è ancora un evento di cui poco si parla. Ogni operatore sanitario lo tratta con soggettività e modalità più o meno sensibili in base alle proprie caratteristiche di personalità e di storia personale, non ponendo attenzione sulla specificità soggettiva del genitore che perde il proprio figlio. Ancora oggi si presta attenzione alla competenza comunicativa dell’operatore sanitario, meno ai vissuti del genitore. Nel lavoro che svolgo quotidianamente come psicologa e psicoterapeuta presso l’Ospedale Buccheri La Ferla Fatebenefratelli, e come presidente dell’Associazione Georgia, molto spesso mi ritrovo a sentire mamme e papà che si scusano per il dolore che provano dopo aver saputo che il battito del loro bambino si è fermato e molto spesso mi ritrovo a dover udire colleghi che, per meccanismo difensivo di distacco per evitare il burnout, sminuiscono quel dolore. Ancora oggi in molti ospedali questo evento luttuoso non viene accolto e supportato come dovrebbe e nella maggior parte dei casi si cerca di dimenticare e far dimenticare, senza considerare che, quel dolore che viene sminuito, è ciò che resta del bambino perduto e proprio per questo ancora più difficile da mettere da parte e da elaborare. Una continua reificazione, da parte degli operatori e del sistema sanitario, di ciò che Enrico Cazzaniga definisce tabù della morte.
I comportamenti di “normalizzazione” attivati dal personale sanitario che gestisce il momento della comunicazione, del parto e del post parto creano dei limiti importanti e invalidanti che, spesso, creano una chiusura non indifferente che porta i genitori e le famiglie all’isolamento. Inoltre, anche quando i genitori richiedono aiuto, spesso si ritrovano ad avere a che fare con professionisti e contesti che creano un circuito bizzarro che non permette un funzionale e “naturale” processo di elaborazione del lutto. Il lutto è una fase naturale del ciclo di vita di un essere umano e per questo non va patologizzato, ma quando trattiamo di aborti o di morti perinatali, la difficoltà primaria è proprio il riconoscimento e l’accettazione di quello che apparentemente lutto non è. I genitori si ritrovano a provare un dolore che sentono, ma che vivono come non riconosciuto dal contesto in cui vivono la loro esperienza e ciò crea una situazione dissociativa perché incomprensibile alla mente umana. Molti infatti pensano che tali perdite non siano “degne” di essere considerate veri e propri lutti e ciò rende ingestibile emozioni e vissuti discordanti. L’effetto è l’impossibilità di andare avanti.
Ricordiamoci che il lutto è l’insieme delle reazioni provocate dalla morte in coloro che rimangono. Freud già nel 1915 scriveva “Propriamente il lutto è una reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto” (Freud, 1976, pag. 102).Nella morte perinatale il concetto di bambino ideale ha una parte fondamentale. Una mamma diventa tale quando vede il test di gravidanza positivo ed è in quel momento che la mente inizia una serie di pensieri e immaginazioni che porteranno i genitori a vedere il proprio figlio in varie fasi della sua/loro vita. Di fatto una precoce interruzione della gravidanza crea un blocco anche nei pensieri che da vitali si trasformano in mortiferi. Come sottolinea Enrico Cazzaniga “una donna incinta è in attesa di quel figlio. Lo ha già. Lo immagina, lo desidera, lo costruisce prima di tutto nella sua mente, prima ancora che nel corpo. Per questo le perdite prenatali sono lutti, spesso non elaborati, dimenticati, messi da parte, sorpassati sovente con una sostituzione di quel figlio con un altro. Sappiamo però che nessun figlio è sostituibile, come non lo è nessuna persona. Per questo anche per questi figli è necessario fare il lutto, per poi avere lo spazio per desiderarne un altro” (Cazzaniga, 2017).
Naturalmente va sottolineato che nel “gioco” e nella “danza” delle connessioni tra sistemi se la “normalizzazione” non è funzionale per i genitori, che di fatto perdono un figlio, diventa funzionale per i medici, ostetrici, infermieri che quotidianamente si ritrovano a dover affrontare la morte e che imparano in questo modo a proteggersi dal burnout o che semplicemente non sanno gestire quel momento specifico che loro stessi vivono con difficoltà.
Come facciamo a far dialogare questi sistemi con bisogni così diversi?
I significati della perdita
Alcune componenti tra le donne che vivono un aborto, una morte in utero o morte post natale sono simili tra loro e creano delle connessioni importanti. Il senso di colpa e il sentirsi soli nel loro dolore sono degli elementi che si ripresentano e che vengono più o meno narrate in maniera ridondante. Tuttavia ci sono altre componenti, molto diverse tra loro, che sono legate al significato che ogni donna dà alla perdita del proprio bambino. Queste reazioni ci fanno inevitabilmente pensare che esiste una relazione madre/bambino ancor prima che il bambino nasca e già negli anni ottanta Peppers e Knapp (1980) parlano di un legame di attaccamento che inizia con la pianificazione della gravidanza e che va intensificandosi dal momento in cui inizia la percezione dei movimenti fetali. Gli autori citati identificano il momento del parto come momento in cui tale relazione si concretizza e si consolida. La teoria dell’attaccamento, e nello specifico le teorie dell’attaccamento prenatale, ci aiutano a comprendere come la morte in utero sia paragonabile a qualsiasi altro lutto, anche se esistono delle differenze importanti che riguardano non solo le caratteristiche di personalità ma anche il vissuto di quella donna, di quella coppia e la storia da essi vissuta. Tutte le gravidanze, ai giorni nostri, sono considerate “gravidanze preziose”, ossia delle gravidanze ricercate che arrivano dopo mesi e anni di tentativi e di prove e queste inevitabilmente attivano parti della donna che “aspetta”. La condizione di attesa non riguarda solo l’attesa per il nascituro ma anche parti della donna che nella gravidanza si attivano e creano riflessioni ampie sul senso dell’essere: dall’essere figlia, generatrice e poi genitrice e questo inevitabilmente attiva un senso di continuità che successivamente viene contestualizzato all’interno della propria famiglia, sia d’origine che attuale.
La perdita inattesa e repentina della gravidanza e del figlio crea una frattura che di fatto provoca un blocco che ha come effetto una condizione di sospensione del presente. Il vissuto di perdita e di impotenza destabilizza e confonde la connessione tra il passato, quel che era, e il futuro, ciò che sarà. Un lutto vero e proprio che colpisce il senso di appartenenza, di identità e di esistenza.
Quando un bimbo ideale, o reale per un tempo di vita molto limitato muore, cosa accade nei contesti che lo hanno vissuto? Quando un aborto è selettivo cosa accade? Come si sente il genitore che è costretto a scegliere? Spesso mi viene posta questa domanda dai genitori e dai familiari ma la risposta non può essere unica perché ogni storia è differente e ogni contesto è portatore di un proprio punto di vista.
La ricerca
Milioni di morti in utero avvengono ogni anno senza essere registrate e senza influenzare la politica sanitaria. Nell’era degli sforzi mondiali per la salute materna, le attenzioni politiche e sociali non includono la naturale aspirazione di una donna di mettere al mondo un bambino vivo, tanto che il riconoscimento del lutto pre e perinatale dei genitori è un’acquisizione recente anche nei paesi ad alto sviluppo socio economico, Europa, Australia, USA. I risultati di una indagine condotta tra operatori sanitari e genitori in 135 paesi mostra che gran parte dei bambini morti in utero sono allontanati dai genitori senza riconoscimenti o rituali quali l’imposizione del nome, cerimonie funebri, la possibilità di tenerli in braccio o vestirli (The lancet, 2011). Una credenza diffusa è quella che la morte in utero sia la “selezione naturale” di bambini che non sarebbero vissuti e per circa un terzo delle morti in utero la colpa è della madre stessa o di spiriti maligni (in base alla cultura di appartenenza). È importante superare questo fatalismo e diventa necessario iniziare a pensare ad un vero e proprio “protocollo” o “linee guida” con l’obiettivo di creare un vero e proprio sostegno al lutto perinatale, per rispondere ai bisogni dei genitori e degli operatori sanitari.
Partendo da queste riflessioni, presso l’Ospedale “Buccheri la Ferla Fatebenefratelli” di Palermo, in collaborazione con l’Associazione Georgia, che si occupa di tutela della gravidanza a rischio, sostegno psicologico e formazione ricolta ai professionisti del settore, si è dato origine ad uno studio pilota, attualmente in corso, che ad oggi ha coinvolto 210 mamme e altrettanti papà, del solo distretto siciliano. Obiettivo della ricerca è creare delle “linee guida” per la gestione del lutto perinatale e per la diminuzione dei fattori di rischio ad esso correlato. Sono state create due interviste narrative una per i genitori coinvolti ed una per il personale sanitario che hanno permesso, nei primi sei mesi della ricerca, di complessificare il concetto di perdita prenatale e perinatale correlandola al comfort care ospedaliero e post-ospedaliero. Da Agosto 2017 a Febbraio 2018 sono state effettuati colloqui con mamme, coppie e familiari, per un totale di 210 soggetti coinvolti, e con il personale sanitario: 20 ginecologi, 22 ostetrici, e 15 infermieri, per un totale di 57 operatori.
Il 70% delle coppie intervistate erano sposate, il 30% conviventi, il 47% appartiene ad un contesto socio economico medio basso con un livello di istruzione di scuola secondaria di primo grado, il 32% ad un contesto socio economico medio con livello di istruzione di scuola secondaria di secondo grado e il restante 21% ad un contesto socio economico medio alto e livello di istruzione di ordine superiore. L’età delle mamme variava da 16 a 52 anni, con gravidanze sia singole che gemellari. Non sono state coinvolte nella ricerca le gravidanze definite fisiologiche e le mamme con una precedente esperienza di aborto o morte intrauterina. Quattro sono state le variabili considerate rispetto all’epoca gestazionale: la morte avvenuta per aborto spontaneo entro la 27 settimana, MIF o morte in utero dalla 27 settimana in poi, perdita durante o subito dopo il parto, morte post parto causata da gravi patologie incompatibili alla vita. Tutti i colloqui sono avvenuti nel corso del ricovero ospedaliero e in un successivo follow up avvenuto a distanza di tre mesi presso la sede dell’Associazione Georgia.
Aborto spontaneo (morte in grembo fino alle 27 w di gestazione) | Mif (morte in utero dalla 27 w alla 40 w) | Perdita perinatale (durante il parto o subito dopo) | Gravidanze con esito incompatibile alla vita | Coppie che hanno continuato percorso presso “Georgia” | |
43 | 10 | 11 | 16 | 52 | Donne |
23 | 10 | 11 | 10 | 11 | Coppie |
42 | 23 | 4 | 7 | 0 | Familiari |
Risultati parziali della ricerca (attualmente in corso)
I dati parziali ottenuti dalla ricerca indicano che il 96% delle coppie seguite dall’inizio del percorso, dove per inizio consideriamo il momento in cui è stata resa nota ai genitori l’infausta notizia, fino al post ricovero, hanno riferito:
- minore senso di colpa rispetto alla causa della morte,
- minore rabbia nei confronti di se stessi e nei confronti dei medici,
- maggiore collaborazione e maggiore fiducia nei confronti del personale sanitario durante il momento del ricovero.
Questi 3 semplici ma importanti elementi sembrano, attualmente, essere dei fattori di rischio che, se non gestiti e contenuti, possono originare una mancata accettazione dell’evento, un blocco del processo di elaborazione del lutto e, quindi, possibili complicazioni per il benessere futuro dei familiari.
La ricerca è ancora in corso e quindi attualmente i dati non possono essere pubblicati totalmente ma possiamo affermare che, nel corso del tempo e nel lavoro svolto sia presso l’Ospedale “Buccheri La Ferla Fatebenefratelli” sia presso Associazione “Georgia” abbiamo compreso che i punti di criticità appena citati possono essere trasformati in risorse se viene attivato un lavoro multidisciplinare che coinvolge ginecologi, neonatologi, psicologi, ostetrici, infermieri, dediti al sostegno e all’attivazione di risorse presenti nella coppia genitoriale, nel momento acuto della frattura psicologica e prevenire effetti legati ad una mancata elaborazione del trauma. Una continua e sistemica attivazione di risorse interne che porta di fatto “un alleggerimento dell’evento” sia da parte della coppia genitoriale, che si sente accolta e compresa nel proprio dolore, sia nei professionisti del settore che sentono di dovere fare meno riferimento a meccanismi di negazione delle proprie risonanze emotive nell’incontro con il dolore dell’altro.
Il lavoro svolto dimostra che un supporto su più livelli e con più sistemi ha permesso a molte coppie di passare attraverso la perdita, superare il blocco temporale nel passato, concedersi il tempo di potere vivere il dolore nel presente e trovare a questo evento un senso personale nuovo all’interno della propria storia, proiettandosi nel futuro. Facciamo riferimento a quello che Cazzaniga definisce “cura del ricordo”, ossia “la possibilità di assicurare la memoria di chi non c’è più, ma che vive e fa parte della storia” (Cazzaniga, 2017).
Ad oggi possiamo affermareche tra le buone prassi riconosciamo: 1) dare informazioni relative alle leggi attuali e spiegando l’iter che verrà seguito nelle 24 ore successive per permettere ai genitori una “scelta consapevole”, 2) offrire il tempo di vivere il bambino morto trascorrendo le prime ore dopo il parto fisicamente insieme, 3) concedere loro il tempo di viversi quel bambino perso troppo presto, 4)permettere agli operatori sanitari una condivisione di quel dolore che, se vissuto individualmente risulta ingestibile, ma condiviso diventa maggiormente vivibile e affrontabile.
Riteniamo inoltre che, altrettanto importante è la collaborazione tra strutture pubbliche ospedaliere e associazioni territoriali per favorire l’attivazione di un sostegno completo sia all’interno del contesto ospedaliero in fase acuta, sia nel più ampio e prolungato tempo fuori dal reparto e dal tempo del ricovero, rispettando i bisogni della coppia e della famiglia. All’interno dell’Associazione “Georgia” vengono attivati “gruppi di parola” in cui si ha la possibilità di condividere la propria esperienza con altri genitori che hanno vissuto la stessa esperienza di lutto. Ciò permette ai genitori, in fase acuta, di vedere che si può sopravvivere e gestire il dolore intenso della morte del proprio bambino, in un secondo momento dell’elaborazione del lutto, di favorire la narrazione di nuove storie con l’attribuzione di nuovi significati evolutivi per la propria storia.
Enrico Cazzaniga nella sua ultima pubblicazione scrive:
“il lutto è un nuovo spazio-tempo della vita: il tempo necessario per ricucire lo strappo, integrare il passato con il presente, per trovarsi di fronte ad un futuro inconosciuto e ricordare con nostalgia chi non c’è più. Allora i morti sono vivi in noi, nella memoria e tra noi, nelle narrazioni delle nostre relazioni”
e continua dicendo
“quando il lutto è risolto, significa che abbiamo collocato nel passato la persona che non è più nel presente. Essa è viva nel presente attraverso la memoria. Si tratta della cura del ricordo” (Cazzaniga, 2017).
Ritengo che, nel lutto perinatale, per rendere possibile la cura del ricordodobbiamo prima attivare delle buone prassi per rendere legittimo il dolore che quella perdita impone.
Riflessioni finali
Il reparto di ostetricia dell’ospedale “Buccheri La Ferla- Fatebenefratelli” è un reparto che negli ultimi anni ha concentrato le sue forze per migliorare la comunicazione e la collaborazione tra i vari sistemi coinvolti attraverso un’esaltazione dell’importanza della multidisciplinarietà come risorsa all’interno di un contesto così complesso come quello ospedaliero. Questo ha avuto come effetto una maggiore integrazione delle varie professionalità e dei vari linguaggi scientifici attraverso un’attenzione sulla gestione delle dinamiche relazionali. In questo contesto lo psicologo si pone come “mediatore” della comunicazione tra direzione sanitaria, personale medico e infermieristico, genitori, rendendola più funzionale alle esigenze di “contenimento” emotivo dei genitori che hanno vissuto il trauma di una precoce e spesso brusca, interruzione della gestazione e che devono adattarsi ad una nuova idea di genitorialità che si discosta da quella che si erano immaginata. Ciò si ottiene attraverso una “risignificazione” dell’accaduto che dia un nuovo “senso” all’idea stessa di genitorialità. Attraverso la presenza costante dello psicologo in reparto si dà anche uno spazio di “ascolto” all’emotività degli operatori, che spesso vengono travolti da sentimenti contrastanti che, se non correttamente gestiti, possono portare ad un aumento di rischio di burnoute stress da lavoro-correlato. Altrettanto importante, come fattore protettivo, è il miglioramento della comunicazione rispetto all’informativa legale che fornisce lo spazio normativo entro cui muoversi e orientare le decisioni consapevoli dei genitori e che favorisce una maggiore collaborazione da parte dei genitori, sia in fase acuta che post. Inoltre la possibilità di donare il latte ha permesso alle mamme, in casi di morte perinatale, di attribuire alla loro perdita un significato diverso, non più legato esclusivamente alla mancata o interrotta generatività, ma alla possibilità di offrire un nutrimento funzionale e idoneo alla crescita e allo sviluppo di altri neonati. Il passaggio dalla morte alla vita.
La gestione e la possibilità di offrire un reparto collaborante e collaborativo, ha dimostrato una diminuzione dei fattori di rischio utili non solo per la coppia genitoriale, ma anche per l’intero sistema familiare e i professionisti che attorno ad esso ruotano. Gli effetti di un sostegno così configurato, inoltre, risultano funzionali per un recupero positivo della maternità e paternità, con un contrasto importante alla depressione favorendo la ricostruzione di un equilibrio familiare che inevitabilmente viene messo alla prova con la perdita di un bambino, a qualsiasi età gestazionale.
Bibliografia
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