Città, campagna e malattie

Città, campagna e malattie

di Michela Barzi
Laureata in Architettura, si è occupata di pianificazione territoriale ed urbanistica per vari enti locali.

Nel suo ultimo libro, Dark Age Ahead (Jacobs, 2004, pp.81-84), Jane Jacobs ricordava l’importanza di usare l’approccio epidemiologico corretto quando si tratta di capire le ragioni della diffusione di un determinato agente patogeno. Nell’estate del 1995 Chicago fu colpita da una tremenda ondata di caldo a cui si associarono alti livelli di umidità e di ozono troposferico. Nella settimana tra il 14 e il 20 luglio il numero di morti in più rispetto allo stesso lasso di tempo, in analoghe condizioni climatiche, giustificò l’uso di furgoni refrigeranti per lo stoccaggio dei corpi in attesa di autopsia. La maggioranza di coloro che erano deceduti per colpo di calore, disidratazione, insufficienza renale o squilibri elettrolitici erano anziani e poveri. Il grande consumo di energia elettrica e di acqua aveva spesso reso impossibile l’utilizzo dell’aria condizionata e degli altri apparecchi elettrici, così come aveva privato di acqua corrente numerosi edifici. Molti anziani erano stati trovati morti nei loro soffocanti appartamenti. Alla fine dell’epidemia una ricerca svolta da ottanta ricercatori riuniti sotto l’egida del Center for Disease Control and Prevention stabilì che coloro che erano deceduti non erano stati in grado di raggiungere un luogo fresco – un parco, un centro commerciale, le vicinanze di una fontanella – spesso per paura di lasciare le loro abitazioni. Insomma, non avevano ascoltato i consigli dei meteorologi che da giorni cercavano di preparare la popolazione e quindi non erano stati in grado di badare a loro stessi. Tuttavia un’altra ricerca condotta dal giovane sociologo David Klimberg, invece di ricercare la causa dei decessi nei comportamenti dei singoli, si è focalizzata sulle caratteristiche dei quartieri in cui le persone decedute vivevano. Confrontando il numero di morti ogni centomila abitanti in due quartieri confinanti, Klimberg scoprì che il motivo per cui a South Lawndale i decessi furono solo un decimo di quanto registrato a North Lawndale era dovuto al fatto che in quest’ultimo gli anziani non avevano alcun posto fresco da raggiungere a piedi. Inoltre la paura che il loro appartamento potesse essere svaligiato li aveva indotti a restare a casa e a non aprire la porta agli estranei. La mancanza di attività commerciali e la presenza di microcriminalità facevano di North Lawndale una comunità disfunzionale, le cui cause erano radicate nella perdita di popolazione in età lavorativa, qualcosa che può essere definito come un processo di desertificazione sociale.

Nel caso dei morti di caldo di Chicago, l’approccio epidemiologico basato sulla comunità aveva indicato che se si vogliono evitare centinaia di decessi in presenza di altissime temperature bisogna concentrarsi sulle caratteristiche dei quartieri e non sui comportamenti degli individui. Capire dove le persone vivono può essere il primo passo per individuare quale sarà il loro comportamento quando qualche agente patogeno potrebbe colpirli. Jacobs ha evidenziato l’importanza della comunità per proteggere l’individuo anche in caso di epidemie da virus. Mentre scriveva il suo libro anche Toronto, la città nella quale viveva da più di trent’anni, era stata colpita dalla SARS. Se una comunità è carente, se è stata depotenziata da decenni di cattiva pianificazione e di indebolimento socio-economico, se i suoi abitanti sono stati lasciati da soli ad arrangiarsi come possono appena fuori dalle loro abitazioni, anche il singolo individuo si indebolisce.

Il risultato del diffondersi del coronavirus a cinquanta giorni dal suo apparire in Lombardia è il decesso dell’uno per mille della popolazione, l’equivalente di in una (o forse due per la probabile sottostima dei dati) piccola città. È come se si fossero dovuti seppellire gli abitanti di Salò e probabilmente anche di Mandello del Lario. Conviene farsi qualche domanda. Ad esempio, le immagini satellitari che mostrano la riduzione degli inquinanti non stanno per caso evidenziando il ruolo che gli stessi hanno avuto prima della pandemia? La differenza nel numero di contagiati nei diversi territori della Lombardia non ha forse anche a che fare con la quantità di superamenti della soglia di quegli inquinanti? La particolare concentrazione di contagiati in un determinato territorio non può essere messa in relazione con il modo in cui esso è organizzato, oltre che con la presenza di un ospedale “infetto”? Inoltre, non è che all’interno di un certo territorio la distribuzione del contagio si differenzi in relazione alle diverse tipologie abitative? E la struttura produttiva quanto è correlata al numero di contagiati di un determinato territorio? Infine c’è la questione di quanto davvero sappiamo di ciò che sta succedendo. Allora la domanda che incombe è: che senso ha farsi queste domande? Eppure ce n’è una che andrebbe girata agli epidemiologi, che hanno tra i loro campi d’indagine il rapporto tra le caratteristiche del luogo in cui vivono le persone e le malattie di cui sono o rischiano di essere colpite: farsi queste e altre domande può servire a contenere questo e altri contagi?

Uno dei padri della epidemiologia, John Show, il medico londinese che per primo ha scoperto la correlazione tra i casi di colera e le fonti di acqua infetta, si era appunto interrogato sulle ragioni della concentrazione del numero di ammalati in un certo ambito della città. Quale elemento rendeva il quartiere di Soho uno dei luoghi di Londra più colpiti dall’epidemia di colera del 1854? Snow fece una mappa della localizzazione dei contagi e scopri che erano particolarmente concentrati lungo Broad Street, dove c’era una pompa dalla quale gli abitanti prelevavano acqua che risultò contaminata dagli scarichi fognari. Nel momento in cui Snow stava identificando la fonte del contagio, la sua causa, il batterio Vibrio cholerae, non era ancora nota (lo sarebbe diventata proprio lo stesso anno per merito di Filippo Pacini) ma questo non gli impedì di cercare l’elemento contaminate a cui erano esposti gli abitanti di quel quartiere. La sua indagine aveva come oggetto una comunità particolarmente colpita dal contagio e non i singoli contagiati.

L’approccio epidemiologico centrato sul singolo è invece quello utilizzato da Edward Jenner per scoprire, nel 1796, come rendere le persone immuni al vaiolo. L’immunizzazione di una mungitrice che aveva contratto una forma più lieve della malattia dalle vacche da latte gli consentì di vaccinare altri soggetti contro la sua letale variante umana.

Il New England Journal of Medicine ha recentemente pubblicato un documento (Nacoti et al, 2020) redatto da alcuni medici che lavorano all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, i cui quarantotto letti di terapia intensiva dovevano far fronte alle necessità degli oltre quattromila contagiati del momento. Il massiccio ingresso di pazienti Covid-19 ha determinato, secondo questi medici, una situazione in cui l’ospedale diventava un’importante fonte di contagio e il personale impiegato un veicolo privilegiato per il virus. L’approccio terapeutico basato sul paziente e centrato sull’ospedale, presidio su cui si regge la sanità lombarda, è quindi inadeguato a fronteggiare una pandemia. È l’intera popolazione infettata che deve essere raggiunta dalle cure, non solo coloro che necessitano un ricovero. La soluzione è quindi un approccio terapeutico basato sulla comunità e che limiti al massimo l’ospedalizzazione dei pazienti: cure domiciliari, telemedicina e un vasto sistema di sorveglianza che consenta un effettivo isolamento. Ciò di cui c’è bisogno, quindi, non è solo un maggior numero di letti di terapia intensiva ma di un piano a lungo termine per la prossima pandemia. Di fronte al disastro umanitario che ha travolto il sistema di salute pubblica regionale, per i medici di Bergamo servono sociologi, epidemiologi, esperti della logistica, psicologi e operatori sociali. A loro parere bisogna prima di tutto abbandonare il modello centralizzato di medicalizzazione della società con il quale stiamo affrontando la diffusione del virus, di fatto agevolandola.

Quando il dottor Snow scoprì cha la causa dei numerosi casi di colera nel quartiere londinese di Soho era la pompa dell’acqua di Broad Street la successiva scoperta fu che quel tratto di acquedotto si riforniva di acqua del Tamigi, a sua volta contaminata dagli scarichi fognari. La soluzione che venne individuata non prevedeva di prescrivere alla popolazione di bollire l’acqua prima di berla ma di realizzare un nuovo sistema fognario. L’opera portata a termine dall’ingegnere capo del Metropolitan Board of Work Joseph Bazalgette fece sì che dopo il 1866 Londra non fosse più colpita dal colera.

Le fognature, così come gli ospedali, fanno parte dell’ambiente costruito, la struttura della città che Richard Sennett (Sennett, 2018, 38-44) ha definito la ville, cioè l’urbs, la cui funzione è di servire i bisogni della cité, ovvero la civitas. La pianificazione e la progettazione dei suoi elementi strutturali rispecchia un certo modo di pensare la comunità a cui sono destinati. Prima di diventare la celebre autrice di The Death and Life of Great American Cities (Jacobs, 1969), Jane Jacobs era stata redattrice di Architectural Forum. In un articolo del 1952 (Jacobs, 1952), scriveva che l’approccio con cui l’architetto Isadore Rosenfield progettava gli ospedali era simile a quello utilizzato dalla pianificazione urbanistica: i suoi studi preliminari arrivavano ad indagare persino il reddito familiare delle comunità a cui erano destinati e la sua propensione a questo tipo di ricerca gli derivava dalle scienze sociali nelle quali si era formato. Gli ospedali di Rosenfield erano la dimostrazione che per costruire a favore della comunità bisognava per prima cosa conoscerla a fondo.

Epidemie e pandemie rendono la conoscenza dei sistemi con cui si struttura l’urbs un elemento imprescindibile per i piani di contenimento degli agenti patogeni. Disponiamo di strumenti sofisticati di mappatura secondo diversi tematismi. Abbiamo a disposizione una mole di dati sulle persone, i luoghi in cui abitano, i loro spostamenti, i loro consumi, le loro connessioni. Si tratta solo di formulare le domande utili a capire in che modo le differenti comunità vengono colpite dal virus per individuare le risposte da dare.

Il New Policy Institute di Londra si è chiesto, ad esempio, che relazione c’è tra il numero e l’età dei componenti delle famiglie e la diffusione del Covid-19 (Kenway, Olden, 2020). Ne è emerso che i nuclei in cui sono presenti soggetti anziani insieme a quelli giovani hanno il maggior numero di positivi. Le abitazioni occupate da famiglie intergenerazionali tendono ad essere sovraffollate, o quanto meno prive dello spazio che consenta un efficace auto-isolamento Analogamente agli slum dell’Inghilterra vittoriana, i quartieri più poveri e con le peggiori condizioni abitative contano un maggior numero di contagiati. Uno studio dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health (Wu et. al., 2020) sembra aver trovato una risposta riguardo il rischio di morte per coronavirus. Esso aumenta in presenza di una esposizione pluridecennale anche a un moderato aumento delle minuscole particelle sospese nell’aria conosciute come PM2.5. I ricercatori hanno scoperto che l’incremento di un solo microgrammo di PM2.5 per metro cubo di aria è associato ad un aumento del 15 percento del tasso di mortalità da Covid-19. Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (I.S.P.R.A., 2017), nel 2015 circa due terzi delle emissioni di questo inquinante erano attribuibili al settore della combustione non industriale, che include gli impianti di riscaldamento, e circa il 15% è da imputare al settore dei trasporti, soprattutto stradali. In pratica, è il modo in cui funziona l’ambiente urbano che rischia di far ammalare i suoi abitanti. Sul ruolo del particolato atmosferico (PM10, PM2.5) come vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali si sta interrogando la Società Italiana di Medicina Ambientale, a partire dalla “solida letteratura scientifica” che ha già correlato i due fenomeni. Una delle maggiori sorgenti del PM10 sono le emissioni di ammoniaca attribuibili alla zootecnia, cosa che contribuirebbe a spiegare perché i territori ad alta intensità di allevamenti registrino un numero così elevato di superamenti delle soglie di PM10 e una grande diffusione del coronavirus. La provincia di Cremona, dove si produce il 44 percento del latte italiano, ha il più alto numero di contagiati in rapporto alla popolazione di tutte le province lombarde.

In Armi, acciaio e malattie Jared Diamond (Diamond, 1998, 157-61) attribuisce al bestiame il dono letale di virus e batteri, che hanno trovato nella vicinanza degli esseri umani agli animali il terreno fertile per fare il salto di specie e propagarsi dentro nuovi ospiti. Se è quindi vero che, a causa della più elevata densità demografica, le epidemie hanno trovato nelle città un ambito di maggiore propagazione rispetto alla campagna, non bisogna dimenticare che è stato nel mondo rurale che esse hanno storicamente trovato il modo di contagiarci. Furono per primi i villaggi di contadini e allevatori a fornire agli agenti patogeni una densità di popolazione dalle dieci alle cento volte superiore rispetto agli accampamenti dei cacciatori-raccoglitori. Tuttavia le malattie che si diffondono su vaste aree urbanizzate, come lo è la Lombardia e l’ambito macro-regionale del nord Italia nel quale il Covid=19 è inizialmente apparso, sono da sempre lo sfondo di scenari inquietanti. La consapevolezza del rischio sanitario è stata introiettata nella condizione urbana da quando la città aveva confini precisi. Ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni la paura del lazzaretto e del confinamento fuori dalle mura di Milano viene descritta come più grande di quella della peste che si diffondeva in città.

Oggi la popolazione mondiale, ormai in maggioranza insediata in qualche forma di ambiente urbano, deve soprattutto temere le cattive condizioni ambientali. Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal nel 2013, l’inquinamento dell’aria, causato dal traffico e dagli scarichi industriali, è responsabile di una riduzione di circa quindici anni delle aspettative di vita degli abitanti di Pechino (Guo et al., 2013). Eppure il rischio del contagio è tutt’altro che sparito. Il diffondersi della SARS tra il 2002 e il 2003 nella Pearl River Delta Metropolitan Region – una megalopoli da quasi sessanta milioni di abitanti dove si trovano Guangzhou e Hong Kong – ha fatto riemergere la condizione di pericolo rappresentata dalle grandi concentrazioni di esseri umani. Il diffondersi dell’epidemia è stato per il fotografo tedesco Michael Wolf l’occasione per portare a compimento il progetto Architecture of Density. Nelle sue immagini le facciate degli enormi edifici residenziali di Hong Kong sembrano motivi grafici astratti. Non c’è nessuna presenza umana; se non fosse per un po’ di panni stesi si direbbe che nessuno abitasse lì. La densità edilizia potrebbe essere l’unica cosa lasciata intatta dalla pandemia.

Concentrazione e dispersione sono facce della stessa medaglia del superamento dei concetti di città e campagna. L’urban sprawl ha cancellato i confini di questi due concetti e impedisce di riconoscerli come paradigma spaziale. Su gran parte del territorio europeo città compatta e città diffusa si alternano e si compenetrano dando luogo a megacity o megalopoli. Dalle nostre parti l’ambiente urbano a bassa intensità, che tra le maglie della rete di città grandi, medie e piccole ha disseminato insediamenti residenziali e produttivi, centri commerciali e altre attività terziarie, se osservato attraverso le mappe della diffusione dei casi di positività al coronavirus, può facilmente essere identificato con il territorio che il geografo Eugenio Turri ha definito Megalopoli Padana. Al suo centro c’è Milano, con tutto ciò che potrebbe conseguire visto l’altissimo livello di connessione che ha fin qui caratterizzato la metropoli lombarda con gli ambiti più periferici di questo territorio. Tuttavia è la campagna urbanizzata della megalopoli il centro del contagio e dobbiamo ancora capire perché.

Ciò che è chiaro, tuttavia, è che questo ambiente, sottratto alle categorie di città e campagna, come ogni ambiente “designa quella zona di interferenza tra gli eventi prodotti da individui, popolazioni e gruppi e gli eventi quasi naturali che accadono attorno a essi”. Si tratta di capire, secondo un’ipotesi di ricerca mutuata da Michel Foucault (Foucault, 2005, 30) se per il “fenomeno di circolazione delle cause e degli effetti” che riguarda le popolazioni e i territori in cui sono insediate ci sia una strategia di governo. Sembra difficile rintracciarne una, a giudicare dal modo in cui la pandemia è stata affrontata, avendo come osservatorio i territori e le popolazioni della Lombardia. Quali sono, ad esempio, le cause di una così grande differenza nella diffusione del coronavirus tra le province di Varese e di Cremona, dato che la seconda ha un numero di contagiati più di sei volte maggiore della prima? Come può il governo del territorio mettere in sicurezza la popolazione se manca una conoscenza condivisa degli elementi che strutturano le politiche di contenimento del contagio? Molte sono le domande che i cittadini hanno il diritto di farsi quando in gioco vengono messi i loro individuali diritti e la loro sopravvivenza in quanto individui della specie umana.

Bibliografia

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