di Gabriela Gaspari
(da Connessioni n. 8, marzo 2001)
Max incontrò lo sguardo pieno di ammirazione di una ragazza e si innamorò.
La nuova esperienza gli fece riscoprire sensazioni che aveva dimenticato e rapporti sessuali pienamente soddisfacenti, in cui la nuova compagna lo faceva sentire “veramente uomo”.
Ne parlò con Betty per chiedere la separazione.
Almeno per noi occidentali è cambiato il millennio e, come l’altra volta di cui si conserva memoria, il domani ci sembra carico di incognite e di minacce. È diffusa la sensazione che, al di là della metafora del numero, davvero un’epoca stia finendo e, in modo ancora confuso e difficile da decodificare, si stia facendo strada il “nuovo”. Nessuno sa se sarà in grado di riconoscerlo mentre sta prendendo forma e se si sta preparando adeguatamente a superare la selezione per la sopravvivenza che avverrà con nuovi, sconosciuti criteri, o se è uno dei dinosauri destinati all’estinzione. Stiamo vivendo in un clima di epifania, come se fossimo presi in un vortice incontrollabile di cambiamenti che ineluttabilmente ci porta con sé. Sta succedendo tutto così in fretta che non sappiamo neanche se avere speranza o paura e, non potendo fare previsioni sul futuro, neanche su come sarà il mondo tra dieci anni, siamo costretti a vivere nel presente.
Uno dei punti di riferimento più importanti che sembra travolto dal cambiamento è la famiglia, tradizionale “mattone” della struttura sociale, contenitore delle nostre relazioni più significative, delle nostre emozioni, dell’identità che ci siamo costruiti e del presente, passato e futuro della nostra storia.
Gli articoli scientifici che trattano della famiglia studiandola come fenomeno ci dicono che è sempre cambiata nel corso del tempo e nelle diverse culture, che non ne è mai esistito un solo modello e che quando parliamo di famiglia tradizionale usiamo una generalizzazione che nasconde la notevole varietà di situazioni esistite in passato. Le famiglie dei ricchi sono sempre state organizzate in maniera diversa da quelle dei poveri, e tra i ricchi, le famiglie aristocratiche hanno sempre avuto sia regole che interessi diversi da quelle borghesi. Vivere in città comporta abitudini e modi di pensare che in campagna sono considerati inappropriati, e i cittadini si burlano da sempre di quelli di campagna considerandoli rozzi e arretrati.
Anche le dimensioni delle famiglie sono sempre state variabili nonostante che in passato quelle più complesse costituite da varie combinazioni di coppie tenute insieme da legami di parentela o di affiliazione costituissero un modello di organizzazione più funzionale alla sopravvivenza che la famiglia nucleare.
Inoltre, sempre a proposito di cambiamento, la famiglia è il contesto in cui maggiormente lo si vive e si celebra in modo rituale: le feste, i compleanni, i cambiamenti di status vengono da sempre celebrati in famiglia o in relazione a questa.
La famiglia è inoltre un’organizzazione in cui non si mantiene perennemente lo stesso ruolo e se ne riveste contemporaneamente più d’uno La carriera dei cambiamenti da figlio a genitore, coniuge, zio, nonno, ecc. accompagna e scandisce il ciclo di vita.
Data l’importanza delle funzioni che svolge, (anche in relazione al dar senso ai cambiamenti), non c’è da meravigliarsi che la minaccia di un cambiamento incontrollabile porti turbamento e sconcerto, tanto da aver fatto pensare a molti che questa volta questa istituzione basilare fosse sul punto di scomparire. Sembra però che nonostante grandi sconvolgimenti la famiglia sopravviva, mostrando una volta di più di essere difficilmente sostituibile.
La necessità di trovare nuove forme di organizzazione familiare nell’ultimo secolo è stata incredibilmente forte perché sono stati toccati contemporaneamente dal cambiamento i parametri fondamentali intorno a cui si è pensata e realizzata la famiglia nel nostro passato.
- un’organizzazione sociale e valoriale di tipo gerarchico,
- una netta differenziazione tra ruolo maschile e femminile.
- l’indissolubilità del vincolo matrimoniale
Non c’è memoria nel tempo e nelle culture di un’organizzazione familiare e sociale che non fosse basata su di una sorta di complementarietà disuguale tra ruoli maschili e femminili, con lei in posizione subordinata. Solo nei miti e nelle leggende si trovano storie in cui le posizioni sono capovolte. Le fantastiche amazzoni sembrano nate dalla fantasia delle femministe più arrabbiate come sogno di rivalsa. Ma ho sentito parlare di un tempo antichissimo in cuii uomini e donne vivevano insieme in una scietà che attribuiva pari valore al maschile e al femminile (Ryane Eisler). L’autrice del testo che riporta questa teoria conia il nome di “gilania” per definire questo tipo di organizzazione sociale. Ovviamente era una femminista.
A cosa serve la famiglia?
Mantenendo saldi nel tempo i principi della “naturale” differenza tra i sessi, la famiglia è sempre apparsa come un’organizzazione elastica, che cambia forma in relazione al contesto culturale e ambientale. Pur essendo soggetta a norme, appare duttile e plastica, si colloca tra l’individuo e il macrosistema sociale e cambia, nel flusso di cambiamento complessivo, il modo di continuare a svolgere le proprie funzioni.
Una famiglia comincia normalmente con la costituzione di una coppia che attraverso un rito la società riconosce come tale. Il matrimonio è uno dei più importanti riti di passaggio il cui primo effetto è il cambiamento di status nel contesto sociale. Con il matrimonio c’è un cambiamento di attribuzioni di ruolo, di aspettative e di riconoscimenti. La coppia così intesa è la proposta sociale per rispondere ai bisogni individuali di relazione intima e di scelta di un partner come interlocutore privilegiato per il riconoscimento reciproco in una relazione di attaccamento. Il partner è la figura di riferimento fondamentale per modellare la propria identità individuale nel lungo arco di tempo che va dall’ingresso nell’età adulta alla vecchiaia: perderlo o separarsene comporta un doloroso processo di riorganizzazione dell’immagine di sé (Cigoli, 1999), vivere con lui in una relazione distorta richiede una sorta di autoinganno che fa soffrire tutti, anche i figli (Andolfi, 1999). La cultura fornisce le norme al contesto sociale di cui la coppia è parte e nel quale provvede alla propria sopravvivenza.
La coppia è anche la prima organizzazione sociale che ha il compito di provvedere in qualità di privato ai bisogni di cure dell’individuo integrando l’organizzazione pubblica (Vincenzi Amato, 1988).
I figli nascono nel progetto della coppia, sono figli del legame. Una funzione fondamentale della famiglia è procreare e allevare figli “adatti” al contesto sociale. È il progetto più importante che i membri di una coppia condividono, quello che maggiormente si proietta avanti nel tempo e salda l’identità personale modellata nell’interazione di coppia, con l’identità costruita sull’asse “verticale” delle relazioni genitore/figlio. Il senso di appartenenza alla famiglia definisce dei confini che identificano un gruppo e una storia.
La nascita di fratelli che convivono nella stessa famiglia e contribuiscono a scriverne la storia costruisce il contesto di relazioni in cui si sperimentano le risposte ai bisogni di prossimità, coooperazione e condivisione tra pari nella partecipazione “sociale” a progetto di coppia dei genitori.
I rapporti che la nuova famiglia intrattiene con le famiglie di origine e quelle costituite dai fratelli esemplificano il modo in cui i legami possono evolvere ed essere mantenuti. II legame tra le generazioni è il tramite per la trasmissione della storia familiare, dell’identità di gruppo, delle tradizioni , dei saperi utili alla sopravvivenza, sia che si tratti di un mestiere che della ricetta per fare il minestrone. È il luogo privilegiato per la costruzione del sé sociale (Edelstein, 1997).
Si può vivere anche senza una famiglia?
Le organizzazioni familiari possono sopravvivere anche a modificazioni rilevanti rispetto alla struttura classica, pur continuando a svolgere le funzioni fondamentali. Ci può essere ad esempio famiglia anche senza coppia genitoriale, come vediamo accadere nelle famiglie monoparentali (vedovi, separati, madri o padri non coniugati) o come nelle famiglie poligamiche in cui il legame di coppia è asimmetrico. Ci può essere famiglia anche senza figli né procreati né adottati. In questo caso la coppia si inventa altri modi per soddisfare i propri bisogni “altruistici” e di proiezione nel futuro. Conosco ad esempio una coppia che si dedica a costruire un ambiente familiare per accogliere adolescenti e giovani adulti disabili non più idonei per età a rimanere negli istituti di riabilitazione in cui le famiglie d’origine e i servizi territoriali li avevano collocati da piccoli. Sono però entrati in crisi nel momento in cui, imprevisto, è nato loro un bambino sano e intelligente.
I figli unici, sempre più numerosi, mostrano come si possa risolvere i! problema di non avere fratelli. Si può sopravvivere anche senza parenti: i consanguinei possono essere inventati e sostituiti con amici che vengono “parentizzati”, come fanno spesso gli immigrati per avere la sensazione di un legame di appartenenza a una comunità.
Ho conosciuto persino una famiglia senza coppia e senza figli, era costituita da tre sorelle che si erano spartite tra loro i compiti e i ruoli tradizionali: la maggiore provvedeva col suo lavoro ai bisogni economici, la minore contribuiva con un guagno più modesto ed un lavoro part time e si occupava della casa e di accudire la sorella di mezzo, disabile, che fungeva da figlia.
Si può vivere anche del tutto senza una famiglia? Pare di sì, i single sembrano dimostrarlo, esempio estremo di autonomia affettiva e di libertà da vincoli. A un’analisi più attenta si scopre però che la maggior parte, una qualche forma di famiglia se l’è inventata, e quelli che non ci sono riusciti soffrono la solitudine.
La famiglia tradizionale in Italia
Quando pensiamo a quanto è cambiata o può cambiare la famiglia, la confrontiamo con la cosiddetta “famiglia tradizionale”. Questa, nella nostra storia, è la famiglia ideale della propaganda fascista che a sua volta si ispirava alla famiglia borghese così come si era andata strutturando alla fine dell’Ottocento e che si era affermata nel secolo successivo (Scaraffia, 1988). Era ovviamente basata sui principi che ordinavano la società secondo un preciso ordine gerarchico e un criterio importante proveniva dalla netta differenziazione tra ruolo maschile e femminile. Il concetto di ruolo sessuale oggi utilizzato si basa implicitamente sull’idea di un uomo “neutro” che assume uno specifico ruolo sessuale distinto dal sesso biologico. All’inizio del Novecento la cultura dominante sosteneva invece un sistema di norme strutturate per elaborare il genere che si basava su una suddivisione dei ruoli attribuita alla natura, cioè basata sulla differenza fisiologica che rendeva “naturalmente” predisposti i maschi a sviluppare determinate caratteristiche e assumere certi ruoli complementari rispetto alle femmine, progettate dalla natura a ricoprirne altri. La concezione di mascolinità e femminilità definiva non solo le mansioni lavorative diverse, le norme di comportamento e le relazioni tra uomini e donne, ma stabiliva anche un criterio di normalità relativo al modo di sentirsi, di provare emozioni e sentimenti a cui si rifaceva sia il modello educativo che il sistema di norme e di controllo sociale per mantenerle. Era questa un’idea trasversale comune a tutti i tipi di organizzazione familiare sia in campagna che in città, sia ricche che povere e poggiava su una tradizione antica nel tempo. Solo i cambiamenti avvenuti nell’ultimo secolo hanno permesso di mettere in discussione questo dogma. Gradualmente, ma sistematicamente, tutte le rappresentazioni del femminile, i luoghi comuni e i pregiudizi su cui si giustificava la distinzione tra i sessi e il privilegio maschile sono stati smentiti da nuovi modelli di comportamento.
Dall’inizio del Novecento il ruolo della donna è cambiato in maniera impensabile nei secoli precedenti. Grazie ai progressi della medicina che hanno costantemente ridotto la percentuale delle morti per parto, e dei problemi connessi con le gravidanze la speranza di vita delle donne si è allungata fino a superare di parecchi anni quella degli uomini (Lefraucheur, 1996). Il calo della mortalità infantile assieme alla diffusione di contraccettivi efficaci sotto il controllo delle donne ha consentito di ridurre il numero delle gravidanze che in passato si susseguivano quasi ininterrottamente e assieme all’allattamento e all’accudimento dei figli ne occupavano la vita fin oltre i quarant’anni. Il controllo delle nascite e della pianificazione familiare, la conquista dei diritti sessuali da parte delle donne, la possibilità di autonomia economica, hanno modificato l’equilibrio del potere nella famiglia. La tecnologia ha prodotto elettrodomestici, detersivi, pannolini e cibi surgelati che hanno alleggerito di molto il lavoro delle casalinghe. Le donne hanno guadagnato tempo di vita e tempo per vivere.
A partire dalle “maestrine dalla penna rossa” e dalle impiegate alle poste o al ministero dei lavori pubblici, le donne cominciano a comparire nel mondo del lavoro a fianco dei colleghi maschi in ruoli paritari. Da allora hanno invaso letteralmente alcuni settori lavorativi. Anche le scuole superiori e le università hanno registrato una presenza femminile sempre più massiccia. La classica casalinga è sempre più rara (Scaraffia, 1988).
Aumenta il numero e la qualità dei servizi che si occupano di accogliere ed educare i bambini: asili nido, scuole materne, scuole elementari a tempo pieno, organizzazioni per il tempo libero con finalità educative ecc. Le mamme possono essere sostituite (Lagrave, 1996)
Nelle scuole e nelle organizzazioni per l’infanzia maschi e femmine vengono educati insieme con le stesse regole e gli stessi criteri di giudizio. Nascono nuovi rapporti tra i generi.
Il calo delle nascite e i nuovi criteri di pianificazione familiare sono connessi con l’affermarsi di una cultura puerocentrica.
Intorno al ’68 diventa evidente il cambiamento dei valori culturali, quelli nuovi, privilegiano l’autonomia affettiva e l’edonismo. Viene stimolata la separazione dalle famiglie d’origine e tracciati confini più netti alla famiglia. nucleare. Le giovani coppie si trovano da sole a cercare soluzioni ai problemi di una vita sempre più carica di impegni (Scabini, 1995).
La pubblicità propone modelli di felicità a portata di mano, basta possedere questo o quello. La vita sociale diventa sempre più competitiva e la frustrazione è l’emozione con cui più spesso si devono fare i conti. Il referendum sul divorzio cambia radicalmente il diritto di famiglia.
A partire dalla quasi raggiunta parità tra i sessi cambiano i motivi per cui ci si sceglie un partner e ci si sposa, non per necessità o per obbligo, ma per amore e attrazione sessuale. Il nuovo modello per la relazione di coppia è quello paritario e la condizione per rimanere insieme è che entrambi si sia d’accordo che la relazione è soddisfacente. Dalla mia esperienza di terapeuta (e dai dati sulle separazioni e i divorzi) sembra questa una condizione non facile da soddisfare.
Le nuove famiglie
Da circa vent’anni incontro nel mio lavoro individui, famiglie e coppie che mi raccontano le loro storie e i loro problemi. Il mio è un’osservatorio particolare dove incontro solo persone che condividono con me le premesse culturali che giustificano la psicoterapia e ritengono di avere dei problemi che possono essere risolti con questo tipo di aiuto. La mia esperienza non ha quindi la pretesa di essere generalizzata per ricavarne un quadro rappresentativo della società attuale. Queste sono solo alcune considerazioni che ho fatto avendo ascoltato molte storie e avendo partecipato, cercando sinceramente di essere utile alle sofferenze e al tentativo di cambiare di molte persone.
La maggior parte delle persone che ho incontrato in terapia in questi ultimi anni hanno un’età compresa tra i 35 e i 45 anni, hanno figli bambini o adolescenti, stanno affrontando un momento di crisi nella coppia o sono soli, “single” da sempre o separati. Le donne sono più numerose e anche quando vengono motivate dal problema di un figlio, portano quasi sempre problemi connessi al rapporto di coppia (Andolfi, 1999). Sia che vengano in terapia da sole o con i partner con cui hanno un rapporto non soddisfacente, sono sostanzialmente d’accordo nel descrivere il compagno ideale:
- È un maschio disponibile al colloquio e capace di confrontarsi in modo sincero e aperto sul piano verbale.
- È presente affettivamente, in grado di sostenere e di dare conferme e, se necessario, di contenere con dolce fermezza le ansie e i timori della compagna, consentendole di esprimersi in un clima di ascolto partecipe.
- È capace di condividere il carico dei doveri familiari in un gioco di squadra efficace, basato sull’empatia e sulla complicità.
- È un compagno sensibile e attento, protettivo ma non invadente. Disponibile a promuovere e sostenere i bisogni di crescita della partner.
- È leale e affidabile, non fugge e non si chiude in se stesso nei momenti di difficoltà.
- È capace di esprimere le proprie emozioni e sa, oltre che dare, anchechiedere e ricevere aiuto.
- È un padre capace di sacrificarsi per i bisogni dei figli e della famiglia e contemporaneamente un marito che ha la fantasia e il desiderio per inventare tempo per la coppia anche quando i bambini piccoli creano vincoli e problemi che non si possono o non si vogliono risolvere.
Dicono di sapere che stanno descivendo il principe azzurro e di non credere più nelle favole, che una simile meraviglia esiste quasi esclusivamente nei sogni delle donne ed è ben diverso dal maschio che si può incontrare nella realtà.
Descrivono i loro compagni come incapaci di una vera reciprocità affettiva, spesso chiusi ed elusivi, che non sanno confidarsi e chiedere aiuto ma solo conferme c attenzione. A volte sono sentiti come infantili, in concorrenza con i loro stessi figli ma si comportano come “duri” che “non devono chiedere mai” perché credono di bastare affettivamente a se stessi. Un’altra lamentela frequente riguarda l’incapacità di una reale empatia: sono molto più attenti a soddisfare i propri bisogni che capaci di cogliere o desiderosi di rispondere a quelli della compagna o dei figli.
I maschi si lamentano invece di avere delle compagne che non mai contente di niente, sempre pronte a lamentarsi e a criticare, a squalificarli anche in pubblico di fronte a parenti e amici, poco affettuose e sempre pronte a fare lo sciopero del sesso. Dicono di sentirsi poco considerati anche come padri: se intervengono a riprendere i figli per il loro comportamento, le mogli li rimproverano per averlo fatto in modo sbagliato, se non intervengono, li rimproverano di essere troppo deleganti o di disinteressarsi dell’educazione dei figli.
Chiedono soprattutto considerazione, conferme e riconoscimenti nella difficile costruzione del proprio ruolo maschile nuovo, non mutuabile dal modello paterno (Seivini, 2001). Chiedono che le loro compagne li facciano sentire unici e speciali e di essere confermati sul piano della sessualità, a fronte di una femmina più attiva e libera, in grado di fare confronti e che, essendo economicamente indipendente, è in grado di abbandonare una relazione non soddisfacente. Hanno bisogno che gli venga riconosciuta la fatica, le scelte difficili tra il bisogno di successo economico e lavorativo in contesti spesso stressanti e competitivi, e il tempo dedicato ai figli, che con tutti i loro impegni e attività ne richiedono moltissimo, mentre loro hanno avuto in genere scarsa attenzione dai genitori. Il tempo dedicato alla coppia è troppo poco per la scarsa disponibilità della compagna e spesso vissuto in antitesi rispetto a quello dedicato a sé.
Vorrebbero il diritto di chiudersi in pace nella loro caverna, quando ne sentono il bisogno lasciando il mondo fuori, o di andarsene in qualche riserva per soli maschi a ritemprarsi lasciando per un po’ che il mondo giri da solo.
È la generazione di quelli che sono nati in pieno boom economico, i loro genitori hanno vissuto da bambini la seconda guerra mondiale, spesso hanno subito traumi e abbandoni e hanno dovuto imparare a cavarsela come potevano. Dopo la guerra sono emigrati a cercar fortuna nelle città industrializzate o comunque si sono lanciati nell’avventura di ricostruire l’economia italiana distrutta dalla guerra: sono i protagonisti principali della costruzione della classe media nel nostro paese.
Hanno creduto di poter esorcizzare la miseria e la paura sperimentate nell’infanzia, di cambiare il mondo, la loro vita e il futuro dei loro figli lavorando e sacrificandosi, accumulando beni e mandando i figli a scuola perché avessero un titolo di studio e una posizione sociale migliore di quella dei genitori.
Anche le donne sono uscite di casa sempre più numerose per lavorare e i figli per cui tutto questo veniva fatto sono stati lasciati ai nonni, nelle scuole materne, nei collegi o nelle scuole a tempo pieno, all’oratorio o a giocare nei cortili.
Tornando a casa questi bambini hanno trovato frequentemente dei genitori stanchi e distratti, dei padri poco capaci di vivere e di mostrare le proprie emozioni, delle madri “vittime” di un marito insensibile e di un sovraccarico di impegni e di doveri. A volte si sono trovate in mezzo a crisi di coppia senza speranze o vie d’uscita. Le aspettative nei loro confronti sono state comunque alte, specialmente da parte delle madri, a ricompensa dei sacrifici fatti.
Sono cresciuti nel clima degli anni settanta e ottanta, tra il modello di vita americano e l’ideologia di sinistra, il femminismo e la coeducazione tra i sessi, gli anni di piombo, la vita di “branco” nelle compagnie e lo spinello da condividere, la siringa a volte. In questo percorso i ruoli legati all’identità sessuale sono stati messi più volte in crisi. I maschi hanno dovuto spesso confrontarsi con una madre “vittima” o molto impegnata, che pur mostrando di desiderare un rapporto più intimo e gratificante con il figlio, non lo aveva di fatto, e con un padre da non imitare, non avendo però un modello migliore in alternativa. Accanto ad un rapporto contemporaneamente coinvolgente e frustrante con la madre, hanno avuto sorelle e compagne femministe e paritarie e compagni confusi alla ricerca della propria identità. Da qui, secondo alcuni autori, (Selvini, 2001) molti maschi hanno sviluppato una sorta di autarchia affettiva e sono diventati quegli adulti incapaci di sostenere una relazione intima veramente reciproca, con un gran bisogno di conferme e di sentirsi speciali che le loro compagne descivono. Oppure sono i “giovani adulti’’, termine inventato per indicare quei figli che, pur avendo superato la trentina ed essendo economicamente indipendenti, continuano a godere i vantaggi della famiglia pur avendo la libertà dei single.
Le femmine hanno subito invece una spinta a||a crescita nel sociale rispetto alla generazione precedente che le ha fatte sentire valorizzate e investite di aspettative dalle madri che si sono realizzate attraverso di loro. Il successo nella lotta per entrare nei territori prima maschili e il riconoscimento ricevuto anche dalla crescila di una coscienza femminile ha protetto maggiormente le femmine dal sentirsi sole e sottilmente poco importanti, come è successo ai maschi, ma è rimasto il bisogno di sostegno e di riconoscimento da parte del partner e di aiuto per realizzare un’immagine “di successo” di sé. Anche le femmine sentono di rifiutare il modello materno ma non sanno con cosa sostituirlo. Se non hanno un partner che dia loro la conferma maschile, sperimentano ansia, depressione e paura della solitudine affettiva, qualche volta mascherata da aggressiva e sprezzante autonomia. L’amore diventa di importanza fondamentale e dev’essere guadagnato, conquistato o catturato a tutti i costi. Il partner, investito di aspettative così elevate, appare facilmente inadeguato e frustrante.
Nel contesto sociale il ruolo maschile è stato sempre più ridimensionato mentre quello femminile ha guadagnato uno spazio sempre maggiore.
Sono cambiati i modi e le regole per l’elaborazione dell’identità di genere: un tempo, questo avveniva principalmente vivendo esperienze significative ed elaborando una cultura specifica in gruppi che condividevano l’appartenenza allo stesso sesso: ci si sentiva maschi o femmine quando si veniva riconosciuti come tali dai compagni di genere. Attualmente l’elaborazione del genere avviene in gruppi “misti”, dove il riconoscimento omosessuale si intreccia con quello eterosessuale. Quest’ultimo va acquistando un’importanza sempre maggiore con la costituzione della coppia che deve “inventare” al suo interno giorno per giorno come essere compagni, ed eventualmente genitori, e contemporaneamente essere individui che si realizzano in un proprio progetto di vita e di lavoro. La capacità di darsi conferme e orientarsi reciprocamente diventa fondamentale per il mantenimento del rapporto di coppia (Canevaro, 1999). Max e Betty ad esempio, sono sposati da dieci anni. Si sono conosciuti quando avevano rispettivamente diciotto e diciassette anni, frequentavano la stessa scuola e lui era il leader di un gruppo di studenti che si occupava di volontariato. Per Betty fu un colpo di fulmine, entrò a far parte del gruppo e rapidamente divenne la principale collaboratrice e sostenitrice delle idde di Max. Non si lasciarono più; si sposarono dopo sei anni di fidanzamento appena le condizioni economiche permisero loro una certa autonomia. Né l’uno né l’altra ebbero rimpianti a lasciare la propria famiglia d’origine dove si erano sentiti entrambi incompresi e poco importanti. Il loro rapporto cominciò ad incrinarsi dopo il matrimonio: Max non aveva cambiato abitudini e stile di vita. Betty invece cominciò a non aver più voglia di seguire il marito tutte le sere per condividere con lui l’impegno sociale e cominciò a rimanere a casa e a chiedere a lui di fare altrettanto. Max si sentì tradito, cercò a Betty delle giustificazioni e proseguì nel suo impegno. Betty pensò che il marito non l’amava, che era venuta sempre dopo tutte le altre cose che erano importanti per Max; attraversò un periodo di depressione e poi si riprese, investendo di più nel suo lavoro e nei rapporti di amicizia. In breve, alla sera si trovò ad avere più impegni sociali di Max. Questi era ancora disorientato e ferito dal fatto che la sua Betty che stravedeva per lui, gli aveva rivelato, mentre era ancora depressa, che non provava nulla, solo un leggero fastidio, quando facevano l’amore, e che aveva simulato l’orgasmo solo per fargli piacere. Quando poco dopo seppero che era in arrivo Francesca, la coppia pensò che la bimba avrebbe risolto i problemi. La piccola nacque dopo tre anni dal matrimonio e, passato il primo periodo di entusiasmo e confusione, la vita della famigliola si stabilizzò in una placida routine. Max era spesso assente per lavoro, ma aveva un rapporto molto affettuoso con la bambina e Betty lavorava part-time, si occupava della figlia e aveva ripreso un rapporto stretto con la madre che l’aiutava molto tenendo la nipotina. I rapporti sessuali si erano prima diradati nel tempo e poi scomparsi del tutto e anche la conversazione riguardava solo problemi concreti, ma entrambi dicevano di stare bene e di essere felici così. Durò sei anni, finché un giorno Max incontrò lo sguardo pieno di ammirazione di una ragazza e si innamorò. La nuova esperienza gli fece riscoprire sensazioni che aveva dimenticato e rapporti sessuali pienamente soddisfacenti, in cui la nuova compagna lo faceva sentire “veramente uomo”. Ne parlò con Betty per chiedere la separazione.
Essere figli
Nascere in Italia negli ultimi dieci anni ha voluto dire venire al mondo in una società che dà molta importanza ai bambini, fin dal concepimento. La gravidanza è per i genitori una cosa su cui meditare e da scegliere, o un problema medico da risolvere (molte coppie, anche giovani, hanno problemi di scarsa fertilità o di sterilità). La necessità di pianificare le carriere porta a spostare l’età per avere il primo figlio sempre più avanti nel tempo e quella di poter contare su un doppio stipendio per vivere ad aver bisogno di aiuti per allevare il pupo senza che uno dei due debba lasciare il lavoro. Le nuove madri e i nuovi padri capaci di condividere la genitorialità inventano l’intercambiabilità come risorsa affettiva per il bambino. A volte rientrano in campo i nonni a risolverà e creare problemi, a volte compaiono le baby sitter come membri aggiunti della famiglia. Gli asili nido e poi le scuole sono percorsi importanti per la crescita e gli insegnanti entrano nella vita di genitori e figli come punti di riferimento, valutatori delle capacità del bambino e delle sue speranze di felicità e benessere, nonché delle capacità dei genitori di fargli raggiungere i più ambiti traguardi. Il livello di aspettative nei confronti dei figli è alto e il rischio di delusione altrettanto.
La maggior parte dei bambini cresce in famiglie in cui la presenza affettiva dei genitori è discontinua (perché separati, o impegnati in altro) e molto tempo viene passato davanti alla tv o in contesti “ricreativi” costantemente sorvegliati dagli adulti che intervengono direttamente dando le regole dell’interazione, punendo o premiando, trovando soluzioni a problemi e provvedendo a che nessuno si annoi. Oltre che fortemente normati, sono contesti copertamente competitivi, in cui la socializzazione, la capacità di essere “popolari” come dicono m America, è un criterio di selezione importante. Non esistono forse più spazi simili al cortile o alle strade del piccolo paese dove i bambini intrecciavano relazioni in modo libero con una sorveglianza degli adulti “da lontano”. Ora anche per loro il tempo che scorre è diventato importantissimo e sono stressati dagli impegni quanto gli adulti.
Se questo è il contesto sociale a cui i bambini devono imparate ad adattarsi i valori e le competenze che devono possedere sono diversi da quelli che i genitori hanno appreso. Diventa importante sapersi adattare ai cambiamenti, saper essere al centro dell’attenzione degli adulti e perderla senza disorientarsi, saper essere vincenti e tollerare bene la frustrazione di perdere, avere buone strategie per sopportare lo stress, stare bene nei gruppi, ma anche da soli, essere precocemente autonomi e maturi e, se capita, in grado di sostenere e consigliare mamma e papà, come Mario che a dieci anni ha inviato in terapia di coppia i suoi genitori pagando loro la prima seduta come regalo di Natale.
E quelli che non ce la fanno? Mai come oggi ci sono stati attenzione e servizi apposta per loro.
Gli adolescenti e il futuro
Gli adolescenti che ho conosciuto sono venuti da me in seguito ad una delusione. In genere a portarli è la delusione che hanno subito i genitori da parte del figlio su cui hanno investito tanto. Può trattarsi di un figlio come Andrea, ex bambino brillante, sempre contento, bravo a scuola, amato dai compagni e stimato dagli adulti, che crescendo si ritira e si chiude sempre di più in se stesso fino a ridursi, a sedici anni, a una specie di zombie che non ha più voglia di studiare, colleziona pessimi voti e in casa resta ore barricato nella sua stanza, forse a sentir musica. Papà e mamma non sanno spiegarsi cosa gli stia succedendo e non sanno come prenderlo.
Può essere anche un figlio come Lorenzo, che un po’deludente lo è stato sempre. A scuola ha fatto fatica, ma ha avuto delle cattive insegnanti che non hanno saputo prenderlo per il verso giusto. Probabilmente è anche dislessico. La mamma però lo ha sempre seguito attentamente ed entrambi i genitori hanno sempre creduto in lui. La delusione è arrivata con il passaggio alle superiori (scelte da Lorenzo). Qui si è trasformato da ragazzino perbene in una specie di yeti puzzolente e maleducato. Racconta frottole a tutti, sogna di fare da adulto grandi cose, ma intanto non fa niente, probabilmente si fa le canne.
Ci sono anche i tipi come Elena, diciott’anni appena compiuti, che ha finito faticosamente la scuola dell’obbligo, poi ha trovato e perso molti lavori, molti “fidanzati” e molte compagnie di amici. Attualmente è a casa e non ha più voglia di fare niente. I genitori litigano perché il padre, arrabbiato, vorrebbe seguire la linea dura, mentre la madre è più comprensiva e crede nel dialogo. Litigavano anche prima, per ogni motivo possibile.
C’è Valeria, anni sedici, sempre stata la prima della classe fino a tre mesi fa, quando ha cominciato a soffrire di crisi di panico.
Ce ne sono molti altri, ragazzi tristi, annoiati, spaventati o confusi, alla ricerca di una possibilità per crescere (Pietropolli Charmet, 1995).
Hanno di solito genitori che li amano, ma sono anche loro disorientati e confusi, con un’età in cui si tirano somme difficili, gli errori commessi bruciano e gli “anni migliori” sono ormai alle spalle.
Che adulti diventeranno? Spero migliori di noi. Neanche la nostra adolescenza è stata facile, probabilmente nessuna lo è e va bene così.
Bibliografia
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