La complessità come estetica

La complessità come estetica

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di Ximena Dávila

Traduzione di Elena Karliampa

Riportiamo qui la trasposizione scritta di un intervento video di Ximena Davila, Maggio 2021 nell’ambito del convegno Frontiere del Milan Approach, dedicato a Humberto Maturana.
Il video appare nella sua versione integrale in Metalogos. La rivista greca dedica in buona parte il numero 40 a Maturana, con interventi tratti da sue conferenze e commenti al suo lavoro. Tra essi ricordiamo interventi di Paradisis, Katakis, Tsarbopoulou, Karanikolaou, Pakman, Mouzas, Barbetta e Triantafillou e Fritjof Capra.
Ximena Dávila Yáñez ha studiato relazioni umane e familiari, specializzandosi in relazioni di aiuto e psicoterapia presso l’Instituto Profesional Carlos Casanueva (IPCC) in Cile.
La sua preoccupazione nell’ambito delle relazioni umane è stata quella di cercare di capire come sorgano dolore e sofferenza nelle relazioni e come una persona possa uscirne. È la creatrice di Conversación Liberadora, perché in tali relazioni si dia la piena accettazione dell’altro. Un approccio alle conversazioni molto influenzato dal lavoro in collaborazione con Maturana, durato ventidue anni. Rapporto che l’ha portata a divenire co-fondatrice, con l’epistemologo e ricercatore cileno, di Escuela Matríztica, dove tuttora lavora come ricercatrice e docente.
“Non faccio terapia, facilito conversazioni liberatorie che hanno conseguenze terapeutiche”, afferma tra le molte altre cose interessanti, la dott.ssa Dávila.

Per collocare il mio lavoro con Maturana a Matríztica, lo lego alle stesse parole usate dal biologo come “una nuova alba nel mio lavoro e nel mio pensare”, questa affermazione è l’asse centrale della nostra scoperta congiunta e collaborativa, idea che farà parte anche del prologo del nostro libro che verrà pubblicato nei prossimi mesi. Nel testo Maturana afferma: “Alla fine degli anni ‘90, ero coinvolto dalla terapia familiare, dove parlavo della centralità dell’amore. E dicevo che l’amore è la prima e l’ultima medicina. Fu allora che incontrai Ximena Davila. Abbiamo parlato molto e, nel frattempo, ho capito che non potevo continuare a parlare dell’amore come prima e ultima medicina, perché nessuno capiva cosa intendessi. Terapeuti e insegnanti mi chiedevano come si fa? e quando rispondevo amando, si allontanavano delusi. Ad esempio gli insegnanti mi dicevano: amo i bambini ma non funziona.

Volevano un metodo e l’amore non comporta una pratica terapeutica, quando se ne parla, l’amore diventa un luogo comune privo di significato. Ho capito che per me era giunto il momento di rimanere in silenzio. In queste circostanze ho incontrato Ximena. Quell’incontro ci ha portato a una rinascita trasformativa, mi ha mostrato qualcosa che io, come biologo, non avevo visto. Cioè noi, come esseri umani, non siamo solo esseri biologici, ma siamo esseri riflessivi nella nostra vita individuale. Quindi possiamo dire che siamo responsabili di ciò che diciamo e facciamo. Il che mi ha portato a vedere le dimensioni del mio vivere individuale, il cui elemento fondamentale sta nel fatto che l’umano si realizza vivendo e convivendo come persona.

Ho anche potuto vedere che, se non comprendiamo questo, non possiamo capire l’amore e non possiamo renderci conto che amare è un atto a senso unico e implica la posizione di guardare l’altro senza pretese e senza aspettative”.

Perché cito queste parole del Dr. Maturana? Proprio per posizionarmi come terapeuta a partire da una visione emersa in modo collaborativo dal fatto stesso di dialogare, conversare, scambiare con un altro. A ciò aggiungo: io non faccio terapia. Partecipo a discussioni liberatorie con conseguenze terapeutiche. Ora, da dove viene questo? perché è qualcosa che è venuto fuori con il mio lavoro con le persone. Quando conversavo con loro, commentavano: mi sento liberato. Mi sento più leggero. Questo certamente non ha la forma di un metodo, pertanto ho pensato di chiamarlo conversazioni liberatorie. Amo ciò che abbiamo fatto di indisciplinato perché quello che abbiamo creato in questi ventidue anni è ciò che chiamiamo biologia culturale. Siamo inevitabilmente esseri biologici e culturali. Perché biologia culturale? Perché siamo esseri culturali. Esseri viventi. Porterò un concetto che forse già conoscete. Per un lato, richiamando il concetto di sistemi autopoietici molecolari che si autoproducono durante la vita, che esita con la morte e, dall’altro culturale, perché siamo nel linguaggio, nella conversazione, nella riflessione.

È pertanto impossibile separare l’essere biologico, che si estingue con la morte, dalla cultura espressa nel linguaggio e nella capacità di riflettere e di vivere con gli altri, come si è detto sopra.

Cito qui Gregory Bateson, che ha sostenuto che la tragedia umana è epistemologica. “Ci interroghiamo sui fondamenti dei nostri pensieri. Siamo immersi in un linguaggio bipolare, dualista, come mezzo per gestire la differenziazione dal pensiero della causalità lineare. E limitiamo la nostra stessa osservazione rispetto al nostro modo di rapportarci al mondo”.

Quindi quello che sto spiegando è che la biologia culturale, per comprenderne i suoi assunti, non è un metodo e non è una teoria: è una comprensione, è il substrato epistemologico da cui dico ciò che dico, da cui faccio ciò che faccio, da dove conosco e decido il mondo in cui vivo.

La questione tradizionale della filosofia è stata la questione dell’essere, indubbiamente Humberto Maturana ha realizzato un cambiamento della questione partendo dal campo della biologia, che ha avuto ripercussioni nel campo della terapia così come in molti altri ambiti. Tuttavia non si è mai dichiarato né filosofo né epistemologo. Affermava: “Se dico che sono filosofo mi chiederanno di Kant, e io non so parlare di Kant”. Io invece gli dicevo: “Se non ti dichiari filosofo, ci creerai un problema serio. Perché tutto ciò che ha a che fare con il campo delle relazioni umane, che riguarda la trasformazione culturale, la trasformazione psichica e il modo in cui ci relazioniamo, sta nell’epistemologia, nella filosofia e nella scienza”. Lui era d’accordo con questo e nel nostro lavoro parliamo di un’epistemologia unificata.

Come dicevo a Maturana, per parlare di conversazioni liberatorie si deve ritenere il dolore e la sofferenza come un elemento di origine culturale, intendendo la cultura, come una rete di conversazioni, orientata al controllo, che produce insicurezza, sfiducia, e dove amare, che è permettere di apparire, senza pretese, senza aspettative, senza voler cambiare l’altro, fa che l’incontro con una persona diventi nell’atto terapeutico uno spazio per organizzare la disposizione psichica, sensoriale ed emotiva, dalla comprensione dei fondamenti alla base della classe di esseri che siamo: esseri vivi, esseri umani che facilitano il loro incontro attraverso il lasciare apparire l’altro. In questo senso non esiste un aiuto diretto agli altri, ma solo la possibilità di contribuire a innescare un processo. Da una prospettiva sistemica è uno sguardo da un altro posto. Quindi, quando la persona dice grazie al terapeuta, il terapeuta dovrebbe dire “grazie per aver ascoltato”. Quindi da un punto di vista sistemico, lo vediamo dall’altra parte. Una volta ho detto a Maturana che i sistemici sono diventati lineari nella storia. Quindi, ho iniziato a parlare del pensiero sistemico per considerare il fronte d’onda ricorsivo, che è prodotto dall’incontro. Inoltre nel lavoro con Humberto abbiamo scritto un testo in cui si parla dell’Unità dinamica, ecologica, la nicchia dell’organismo. Quindi, nel momento in cui appare un essere vivente, chiunque esso sia, appare la nicchia che lo rende possibile.

Quando un bambino nasce, esce da un grembo biologico, nel grembo della cultura. E questa matrice di cultura, o lo contiene, lo nutre, lo ama o lo tradisce.

Diciamo quindi che nel discutere liberamente, quello che si produce nell’incontro è la produzione di una co-nicchia, dove faccio parte di una co-nicchia con i miei dolori, con le mie esperienze, con la mia vita. E ciò che si produce – c’è qualcosa di meraviglioso in questo incontro, perché questo incontro è unico – è nel presente. Nel presente in cui siamo, perché l’unica cosa che abbiamo è il presente in cui viviamo, non abbiamo più niente. Ed entriamo in un luogo dove nulla dall’esterno conta. Solo da lì, deve essere completamente lì. E questo, l’“essere lì” finisce in se stesso. Non c’è un “andare avanti”, è un’esperienza unica, è un’esperienza estetica. E la persona se ne va, e quando torna, o vuole tornare o decide di continuare, per qualcosa che ha scoperto e in cui vuole approfondire, è un nuovo momento. Perché io sono stata trasformata, e la persona è stata trasformata, ed è per questo che non c’è un “andare avanti” ma creiamo insieme una storia.

Aggiungo qualcosa sui principi di base della biologia culturale: è un fatto biologico che uno non determina mai ciò che l’altro sente da ciò che si dice. Non ho modo di chiarire cosa sta ascoltando l’altra persona da quello che sto dicendo. Quindi ascoltare in questo spazio insieme a qualcun altro, un altro essere umano, si trasforma in un atto di ascolto per scoprire da dove l’altro sta dicendo quello che sta dicendo. Perché l’altro dice sempre quello che dice in base a un criterio di validità, in base alla propria esperienza. Ecco perché devo scoprire quali sono questi criteri di validità.

Chi lavora con le persone dovrebbe partire dalla riflessione: “Ascolto l’altro o ascolto me stesso?” Più ideologie abbiamo, più teorie abbiamo, più ci affezioniamo a quelle ideologie e teorie e meno è probabile che scopriamo da dove viene ciò che l’altra persona sta dicendo. Pertanto, non si tratta solo di comprendere la biologia culturale, poiché la comprensione fa parte del mio modo di vivere. Quindi non ascolterò solo all’interno dell’arte terapeutica o di un laboratorio, o in un’organizzazione, ma ascolterò nel mio modo di vivere quotidiano perché è già radicato in me. Così da interrogarci sui nostri pensieri, sui nostri sentimenti: dobbiamo far vedere le nostre emozioni. Quindi devo smettere di apparire per far apparire l’altro. In questo “smetto di apparire” cadono le mie certezze.