Recensione: “Deleuze e la psicologia”

Recensione: “Deleuze e la psicologia”

Libro di Maria Nichterlein e John R. Morss
tradotto da Enrico Valtelina e curato da Pietro Barbetta

Letto da Ada Piselli

Il testo si propone di esplorare i complessi rapporti tra Gilles Deleuze e la psicologia clinica, non soltanto nelle celebri opere con Félix Guattari, ma analizzando l’intera sua opera e andando a ricercare in particolare le risonanze col pensiero di Gregory Bateson.
In realtà tra le pagine si trova molto di più.
Il filo rosso che si rintraccia nel testo è una critica dura e appassionata, come può esserlo quella di un innamorato deluso e arrabbiato, nei confronti di una psicologia che promette una complessità che non mantiene. Gli autori (entrambi hanno una formazione in psicologia, ma solo una la pratica) definiscono la psicologia timida, stupida, morbosa, insipida e florida. La timidezza viene definita “un’autolimitazione deliberata, una specie di falsa modestia o falsa deferenza, specialmente nei rapporti con le altre professioni” (p. 191). Anche la stupidità è vista come una scelta, “un restringimento intenzionale della prospettiva, una collaborazione con le basse aspettative di altre discipline e altre professioni” (ibid.). La morbosità è riscontrata nella centratura sulla patologia in se stessa. Nell’accontentarsi del semplice, del “blando” (o peggio ancora dell’inefficace), gli autori riscontrano l’insipidezza. Infine, Nichterlein e Morss criticano la psicologia in quanto florida nel suo farsi bella e grande davanti alla collettività nonostante la timidezza, la subordinazione perseguita rispetto ad altre discipline, in primisla medicina. Uno degli esempi proposti dagli autori per illustrare le loro critiche suona familiare a chiunque abbia consultato un testo di psicologia generale: spesso i capitoli (così come molte lezioni) sulla memoria si aprono con il famosissimo passaggio da “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust sulle madeleine. La complessa descrizione della memoria così come la racconta Proust tuttavia non viene mantenuta nelle pagine successive dei testi: “è tipico dell’insegnamento della psicologia, e altrettanto tipico della ricerca che viene pubblicata, fare un gesto preliminare verso la complessità […] e perseguire invece una metodologia familiare. La psicologia non ignora tanto la complessità e l’indeterminatezza della vita umana, quanto piuttosto rinuncia a indagarle” (p. 41).
E invece gli autori richiamano la psicologia, in modo particolare quella clinica, ad assolvere e a mantenere un ruolo importante, sia all’interno della comunità scientifica sia di fronte alla comunità in senso esteso e sociale, riconoscendone appieno la portata positiva e produttiva: “il lavoro clinico è un’applicazione diretta e nobile delle intuizioni della psicologia al fine di migliorare il benessere degli uomini” (p. 163). E ancora: “La clinica è fondamentalmente lo spazio in cui si chiede il cambiamento, in cui lo stato delle cose esperito dalla persona che cerca un aiuto è diventato intollerabile e qualcosa deve essere fatto. Le domande che sottostanno ai meccanismi della clinica sono in un rapporto diretto con ciò che i terapeuti pensano possa facilitare questo cambiamento” (p.171). Il richiamo è ancora alle complessità ed alle difficoltà che spesso rimangono invisibili rispetto al lavoro clinico, che non è solo il luogo in cui viene fornito un trattamento, ma anche quello dove sono facilmente osservabili le tensioni tra due possibili approcci alla psicologia, quello che appoggia, nella terminologia di Deleuze, sulla scienza regale (quella delle università, delle ricerche con variabili operazionalizzate, e dunque necessariamente circoscritte, dei risultati ripetibili e misurabili) e quello che appoggia sulla scienza minore o nomade (quella contingente, rizomatica, che considera le singolarità).
Nichterlein e Morss propongono dunque una psicologia clinica come disciplina di cura, ma in cui le dimensioni culturali e sociali non possono mai venire meno. Una psicologia che si deve necessariamente interrogare e confrontare con le proprie indispensabili ed ineludibili matrici filosofiche (spesso, va detto, neglette nelle nostre università) ed epistemologiche. Deleuze dunque, di cui gli autori compongono un ritratto quasi affettuoso, e il suo pensiero complesso e spigoloso, con e senza Guattari, dai mille piani non tutti ugualmente accessibili e familiari. Bateson, che probabilmente ai lettori di Connessioni risulterà più familiare, ma non meno complesso, con la sua ecologia della mente. Ma anche Spinoza, Nietzsche, Bergson e un discorso sul metodo scientifico e sull’empirismo che, a partire da Cartesio e Hume, riporterà i lettori indietro – a proposito di madeleine! – probabilmente fino ai banchi del liceo.
Un clinico dunque non può non interrogarsi sulle matrici filosofiche del proprio pensiero, in modo particolare rispetto alle questioni metodologiche e relative al soggetto. Né può dimenticare le ricadute sociali e politiche del proprio operare o ignorare le premesse di tipo socio-culturale nell’incontro con l’altro.
Ed infine, ultima ma non ultima, la necessità di un dialogo con l’arte e la letteratura, interlocutori privilegiati e portatori di un sapere altro, indispensabile non solo per la psicologia clinica. Nelle parole dello stesso Deleuze: “la filosofia, l’arte e la scienza entrano in rapporti di reciproca risonanza e scambio” (Deleuze, Dulaure, Parnet, 1985, p. 125). E risuonando ci fanno precipitare nel caos, ci permettono di confrontarci con la tragicità della vita, facendo così emergere il reale attraverso un nuovo sistema di credenze, una nuova cornice di senso, che afferma la vita stessa. E sono proprio la vita e la vitalità nella propria vita, la salute dunque, ad essere centrali per la psicologia clinica.
“Un approccio letterario alla clinica entra in un gioco di differenza creando linee di fuga dall’attuale sistema di (ri)presentazione, articolando un promemoria inattuale del fatto che la clinica è in primo luogo una forma d’arte più che un esercizio tecnico” (Nichterlein, Morss, p. 188, corsivo mio).
Ed è proprio in questo atteggiamento fondamentale e fondativo nei confronti della clinica che i lettori che hanno frequentato il Centro Milanese e la clinica praticata ed insegnata da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin forse si riconosceranno di più e troveranno una via di accesso privilegiata al pensiero di Gilles Deleuze.