Sistemi familiari e demenze: anomalie, ridondanze impazzite e rappresentazioni di malattia

Sistemi familiari e demenze: anomalie, ridondanze impazzite e rappresentazioni di malattia

di Simona Ruggeri 

Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
Lev Tolstoj, 1873

Potremmo definire le demenze come il rovescio della medaglia dell’allungamento dell’aspettativa di vita avvenuto nell’ultimo decennio e del conseguente aumento della popolazione anziana. A cascata, l’incremento delle patologie neurodegenerative sta causando un forte impatto economico e sociale, non solo legato alla sfera sanitaria. L’istituzione che pare essere maggiormente coinvolta e che occupa un posto in prima linea nella gestione di questa “epidemia” è la famiglia.

Il World Alzheimer Report più recente (2016) evidenzia che circa 47 milioni di persone nel mondo convivono con la demenza e stima la triplicazione di questo numero entro il 2050. In Italia attualmente, secondo l’European Carers’ Report (2018), circa 1.241.000 persone (di cui circa il 74% donne) sono affette da demenza e la maggior parte di esse sono assistite dai figli (64,80%) di sesso femminile (80,30%). Nel nostro Paese la maggior parte delle persone affette da demenze vive a casa con i familiari (46,40%) o con assistenti familiari (28,70%) mentre sono relativamente pochi coloro che alloggiano presso residenze assistenziali (12,10%).

È essenziale conoscere questi numeri per rendersi conto che circa il 75% delle persone con demenza sono assistite al domicilio direttamente dai familiari in esclusiva o con l’aiuto di assistenti familiari e operatori sanitari.

Una persona con demenza, quindi, trascorre la maggior parte del suo tempo di vita, dagli 8 ai 20 anni (secondo dati pubblicati dal Ministero della Salute, 2015), a casa, in famiglia: sarà solo nella fase avanzata della malattia che probabilmente entrerà in una struttura assistenziale.

Lavorando direttamente con le famiglie che assistono quotidianamente una persona con demenza ho visto da vicino come i sistemi familiari possono reagire, adattarsi ed affrontare questo tipo di malattia. In ogni storia che ho ascoltato è emersa sempre la fatica dell’assistenza: non tanto la fatica fisica o economica, ma quella emotiva. È della fatica e delle difficoltà relazionali che cercherò di parlare in questo articolo, perché, se oggi l’obiettivo sanitario e sociale è quello di migliorare la qualità della vita delle persone affette da demenza e delle loro famiglie, non possiamo più sottovalutare il fatto che il benessere e la qualità della vita dipendono non solo dalla quantità di assistenza ricevuta, ma dalla qualità percepita delle relazioni e dal clima emotivo vissuto all’interno del contesto familiare.

La famiglia alle prese con la demenza 

Il primo filone di ricerca che si è occupato della convivenza con le persone con demenza ha analizzato l’esperienza dei familiari che si prendono cura e sostengono in casa la persona malata, mettendo in luce le varie difficoltà psicologiche, pratiche ed economiche conseguenti alla cura (Cuijpers, 2005; Ferri et al., 2005). Tali ricerche hanno messo in evidenza la variabilità dell’impatto emotivo della malattia sui familiari (Morris, Morris, Britton, 1988a) e come i fattori di malattia, quali il livello di compromissione cognitiva e funzionale, i disturbi comportamentali, gli stili di coping e il livello di supporto ricevuto da altri familiari, condizionino i vissuti emotivi dei caregiver (Donaldson, Tarrier, Burns, 1997; Dunkin, Anderson-Hanley, 1998; Kneebone, Martin, 2003; Sorensen, Duberstein, Gill, Pinquart, 2006).

Negli anni ‘90 è emerso un secondo filone di ricerca centrato sulle esperienze della persona con demenza: Tom Kitwood (1997) ha svolto un ruolo centrale nello stimolare i ricercatori e i professionisti di tutte le discipline a mettere al centro la persona demente (Harris, 2002; Woods, 2001). Ciò ha portato la ricerca ad esplorare le esperienze e le prospettive del malato (de Boer et al., 2007) e lo sviluppo di approcci clinici che ne riconoscano la storia individuale e il contesto sociale. Ancora pochi studi, però, hanno considerato come focus di ricerca le relazioni tra i familiari, la persona fragile e la demenza.

Se il decorso di una demenza come la malattia di Alzheimer è unico per ogni individuo (Morganti, 2018), così anche la ri-equilibrazione del sistema familiare di fronte alla demenza è peculiare ad ogni famiglia. Inoltre, l’esperienza di dare e ricevere cure di solito avviene nel contesto di una relazione di lunga data che precede l’esordio della demenza e continua ad evolversi man mano che la malattia progredisce (Ablitt, Jonesc, Muersc, 2009). Aspetti della relazione precedente hanno un impatto sul modo in cui la relazione di cura funziona e su come vengono vissuti i ruoli del curante e del ricevente. Allo stesso tempo, l’esperienza di vivere con la demenza ha un impatto sulla relazione, che spesso causa cambiamenti o perdite difficili da accettare o da regolare (Blieszner, Shifflett, 1990; Hellstrom, Nolan, Lundh, 2007).

Quindi, pensare alle demenze solo da un punto di vista medico, neurologico ed individuale è riduttivo perché impedisce di cogliere le dinamiche relazionali ed emotive che si ripercuotono massivamente sul benessere della persona con demenza e dei suoi familiari.

Analizzare da un punto di vista relazionale quello che succede all’interno delle famiglie ci permette, come terapeuti, di avere un possibile margine di azione andando oltre al solito cliché che vede gli psicologi impegnati a sostenere la famiglia nel combattere il nemico malattia. In una patologia come la demenza, dove sintomi di malattia e caratteristiche della persona sono mescolate, identificare la patologia come un nemico significa invitare la famiglia a combattere contro la persona stessa. Si è quindi alimentato quel pregiudizio che ancora aleggia tra la gente comune, ma anche in molti addetti ai lavori, di identificare la malattia con la persona, come se una volta demente uno non capisse/sentisse/provasse più nulla.

La sfida sistemica è quella di lavorare con famiglia (compresa la persona fragile) aiutandola ad affrontare la malattia non permettendo che: i disturbi comportamentali vengano alimentata da dinamiche familiari nocive, le incomprensioni aumentino la fatica della cura e la famiglia imploda arrendendosi di fronte alla fatica fisica, economica, ma soprattutto di relazione. L’obiettivo terapeutico sarà quello di aiutare la famiglia e la persona fragile a convivere in modo sufficientemente felice (Vigorelli, 2018) nonostante la malattia.

Per raggiungere tale obiettivo diventa di primaria importanza analizzare le dinamiche relazionali che si innescano tra i membri della famiglia depositari della cura, la persona fragile e la malattia. In particolare è fondamentale mettere a fuoco: quando la famiglia “vede” la malattia, quali storie utilizza e costruisce per definirla, come la famiglia convive con la persona fragile e la demenza e come le dinamiche relazionali pregresse influenzano la relazione con la persona con demenza.

Anomalia?

Nuovo ingresso in RSA: Mario 83 anni, problemi di deambulazione.

Incontro con i familiari: figlia e moglie. Descrivono l’anziano come autoritario, dispotico, che fa disperare, litigioso e molto aggressivo se non viene accontentato. Secondo loro ha questo carattere da sempre, forse anche per il suo lavoro di direttore in una grande industria. Fino all’ingresso in RSA nessuna diagnosi di demenza. Il giorno dell’ingresso MMSE di 11/30. Moglie e figlia devastate dalla fatica della cura. Si sono rivolte alla RSA perché la fatica della relazione di assistenza è troppa e non ce la fanno più. Assistono da circa 5 anni Mario al domicilio. Attribuiscono i suoi comportamenti aggressivi alla sua personalità, al fatto che è invecchiato e che si è lasciato andare non impegnandosi più per riprendere a camminare.

Questa situazione potrebbe sembrare un’anomalia: i sintomi della demenza non sono stati riconosciuti dai familiari, di conseguenza non si è innescato un adattamento familiare alla malattia, i servizi e gli ausili territoriali non sono stati attivati e da un punto di vista relazionale si è arrivati ad uno svilimento delle relazioni. In realtà, per gli operatori che lavorano in RSA, tali situazioni sono all’ordine del giorno. Questo fenomeno viene sottolineato anche dal World Alzheimer Report (2016) dove si afferma che solo circa la metà dei malati di demenza nei Paesi ad alto reddito e uno su dieci nei Paesi a medio e basso reddito ricevono una diagnosi.

Per queste famiglie la RSA è l’ultimo porto – e magari anche il primo! – in cui approdano. L’ingresso in struttura è solo l’ultimo atto della storia, una storia faticosamente normale per gli attori che la stanno vivendo, un corollario di sintomi per il clinico che la ascolta, un’anomalia per i non addetti ai lavori e un incubo per i personaggi principali.

Come è possibile che una demenza non venga riconosciuta dai familiari?

Per approfondire tale tematica dobbiamo considerare che per ogni persona che riceve una diagnosi di demenza c’è un momento definito pre-diagnostico in cui i sintomi della malattia non vengono riconosciuti. I dati raccolti dal Report 2018 riportano che in Italia il tempo medio che intercorre tra l’esordio della malattia e la diagnosi è pari a circa 2 anni. I familiari sono spesso i primi a riconoscere gli iniziali segni di demenza e a cercare una diagnosi (Eustace et al., 2007; Bunn et al., 2012; WHO, 2012; Chrisp et al., 2013), ma sembra che tali segnali spesso vengano confusi a lungo con azioni più o meno intenzionali che confermano l’idea che la famiglia ha della persona. Infatti, i sintomi si manifestano in modo diverso a seconda della personalità di un individuo e di frequente la separazione tra persona e malattia è indistinta (Burns, Iliffe, 2009). La difficoltà a distinguere tra personalità e sintomi della malattia è forse una conseguenza della sottigliezza dei primi segni e dell’insorgenza lenta e insidiosa di demenza. Quinn et al. (2016) suggeriscono che le famiglie possono ignorare le informazioni non coerenti con la loro esperienza di demenza nei loro familiari.

Allora le famiglie “anomale” come quella di Mario (secondo i dati il 50% dei casi!) sono il risultato di tale processo irrigidito che però, a vari livelli di intensità, si struttura in tutte le famiglie.

Alzheimer della famiglia 

Quando i comportamenti legati alla demenza non sono poi così lontani dal copione familiare la malattia non viene vista e riconosciuta. Ciò accade perché i sintomi e i cambiamenti della persona, anche se notati dai familiari, non vengono attribuiti ad una demenza. In queste situazioni la persona malata viene descritta spesso come perfidamente lucida, pienamente in grado di scegliere ciò che la riguarda, totalmente presente a se stessa, ma con un “caratteraccio”. Si tratta di casi che io chiamo: “Alzheimer della famiglia”. Questa sindrome colpisce tutti membri della famiglia, indipendentemente dall’età, solitamente conviventi o particolarmente dipendenti gli uni dagli altri. Quando uno dei componenti inizia (solitamente in seguito ad un evento significativo: incidente, lutto, cambio di residenza, patologia fisica, etc..) ad irrigidirsi sulle proprie posizioni, diviene aggressivo, un po’ smemorato, paranoico e molto insoddisfatto, gli altri membri cercano di assecondarlo e giustificarlo, si dimenticano della propria vita per rispondere alle sue richieste, inventano storie molto fantasiose per tenerlo buono, si isolano dal mondo esterno, iniziano a ripetere sempre gli stessi comportamenti, a volte sono violenti o hanno esplosioni di rabbia e di disperazione, oppure scappano e non ritrovano più la loro casa dimenticandosi che li c’è qualcuno che non ce la fa da solo. Queste famiglie “dementi” non sono consapevoli della propria condizione, spesso le si ritrova dopo anni di malattia in RSA o in ospedale in uno stato confusionale, non ben orientate nel tempo e nello spazio, con una percezione distorta delle reali capacità cognitive di un loro membro. Durante il decorso di questo stato della famiglia tutti coloro che cercheranno di spiegare o di illustrare un punto di vista differente verranno allontanati, non ascoltati: sia membri della stessa famiglia sia personale sanitario o medico. 

Quando ciò accade si ottiene un effetto amplificante della malattia la quale non solo affligge il singolo, ma, non essendo riconosciuta, pesa come un macigno sulle relazioni sfinendole, logorandole e portandole alla deriva. 

Nonostante i membri “sani” della famiglia non accettino aiuti esterni, il clima relazionale all’interno di essa è spesso insopportabile. Il rischio della “famiglia demente” è la strutturazione di una schismogenesi dementigena che, qualora non intervengano cambiamenti sostanziali (inserimento in RSA, assunzione di un’assistente familiare, centro diurno, etc…), porta alla distruzione totale della famiglia e alla perdita di ciò che la rende tale: la cura dei membri più fragili. Si innesca una battaglia contro la persona che si pretende di cambiare, che si tende a punire, arrivando a volte a lasciarla da sola pensando di farle capire quanto sta sbagliando. Se la dinamica non viene interrotta possono verificarsi situazioni di abbandono e incuria, violenza verbale e fisica, fino al pensiero, in alcune tristi situazioni messo in atto, di suicidio-omicidio da parte del caregiver.

 

Rappresentazioni di malattia 

Il marito di una signora con demenza si presenta allo sportello Alzheimer, inviato dall’assistente sociale che l’ha visto particolarmente appesantito dall’assistenza, lamentando la sua difficoltà nel gestire la moglie durante il momento dei pasti, in particolare il pranzo. Riferisce che Adele al domicilio non vuole più mangiare e che quindi la porta quotidianamente al ristorante, scegliendo tra i pochi della zona. Mario però attualmente è molto in difficoltà: la moglie ha iniziato a dare in escandescenza perché ritiene che i ristoranti vicini non cucinino bene. È costretto ogni giorno a portarla in un posto nuovo per tranquillizzarla. Alla luce di questa descrizione da parte del marito, gli chiedo secondo lui come mai si comporta così e la risposta arriva subito: “sa dottoressa, Adele è sempre stata una che non si accontenta, non le va mai bene niente”.

È impossibile determinare il momento preciso in cui la persona e i suoi familiari iniziano a fare i conti con la demenza. C’è una fase della malattia, quella pre-diagnostica, in cui emergono alcuni segni, ma si tende a non vederli come tali. Studi che hanno esplorato la comprensione della demenza da parte dei caregiver hanno concluso che i familiari possono ridurre al minimo la gravità dei sintomi attribuendoli all’invecchiamento, alla persona che non ha mai avuto una buona memoria o ad eventi significativi della vita (Paton, Johnston, Katona, Livingston, 2004). In questa fase, però, i familiari iniziano a costruirsi delle idee intorno a questi comportamenti (che non sanno ancora essere sintomi), creando delle narrazioni legate alle credenze personali, familiari e sociali pregresse: è qui che nascono le idee con le quali la famiglia “vede” i sintomi. Tali spiegazioni condizioneranno notevolmente il rapporto con il malato e la sua presa in carico, anche dopo aver ricevuto una diagnosi di demenza. Infatti, “le storie enucleano gli eventi, li connettono, li ordinano e li compongono all’interno di un quadro unitario. Esse sono cioè un modo individuale e/o collettivo di dare forma e senso all’esperienza dei singoli nella famiglia” (Fruggeri, 1997).

Le credenze dei familiari sulla demenza, che si strutturano sin dalla fase pre-diagnostica della malattia, influenzano la loro comprensione dei comportamenti problematici. Il confine indistinto tra i sintomi della demenza e la personalità premorbosa causa incertezza per le famiglie, anche dopo la diagnosi (Eustace et al., 2007; Bunn et al., 2012; WHO, 2012; Chrisp et al., 2013). Paton et al. (2004) hanno dimostrato che: “i sintomi comuni della demenza vengono spesso interpretati dalle famiglie come un riflesso della personalità pre-morbosa, della depressione, della malattia fisica o dei farmaci. Attribuire i sintomi alla personalità di lunga data influisce sull’atteggiamento della famiglia nei confronti della persona con demenza; in effetti, molti caregiver riferiscono di credere che i comportamenti problematici nella demenza siano sotto il controllo cosciente”. I familiari possono attribuire sintomi come i comportamenti problematici alla persona e non alla demenza (ibidem) e questo determina un drastico crollo della qualità della relazione e del benessere sia della persona fragile sia dei caregiver. Infatti, il risentimento e la depressione dei caregiver sembrano essere strettamente correlate alle attribuzioni negative al comportamento della persona: ad esempio credere che il comportamento sia manipolatorio o sia sotto il controllo volontario (Martin-Cook, Remakel-Davis, Svetlik, Hynan, Weiner, 2003).

Non solo, tali rappresentazioni di malattia, oltre che influenzare la risposta emotiva dei familiari, ne condizionano anche il modo di prendersi cura e di relazionarsi alla persona con demenza (Emerson et al., 1994; Lobban, Barrowclough, Jones, 2003; Searle, Norman, Thompson, Vedhara, 2007; Shiloh, Rashuk-Rosenthal, Benyamini, 2002). Hastings et al. (2003) hanno suggerito che i caregiver sono più propensi ad assistere le persone fragili quando credono che i comportamenti difficili siano fuori dal controllo della persona. Quando i familiari pensano che i sintomi siano sotto il controllo volontario viene offerto un aiuto minore rispetto a quando il caregiver crede che i comportamenti problematici sono dovuti alla malattia; questo potrebbe significare che a molte persone affette da demenza non venga offerto l’aiuto di cui hanno bisogno.

L’incontro con i servizi: un processo interattivo

Quanto è presente nella cultura dei servizi diagnostici e di assistenza alle demenze la consapevolezza che ogni intervento sul singolo (paziente o caregiver) si inserisce nel contesto relazionale? Spesso in questo ambito quello che prevale è ancora un modello bio-medico dove i bisogni di cura vengono trattati indipendentemente da ogni aspetto relazionale, avendo come unico riferimento le conoscenze tecniche fornite dalla scienza medica.

Per educare i familiari alla demenza molto spesso si utilizza quella che Perticari (1992) ha definito metaforicamente la “teoria dell’imbuto” secondo la quale si è orientati a colmare mancanze o a correggere distorsioni attraverso un “riversamento” di informazioni all’utente. In particolare, Petrie, Jago e Devcich (2007) sostengono che solitamente gli operatori sanitari ignorano le rappresentazioni di malattia dei familiari poiché raramente approfondiscono e danno spazio alle loro idee durante le consultazioni mediche. Come illustrato in precedenza, però, al momento dell’incontro con i servizi molti familiari hanno già sviluppato le proprie narrazioni sui comportamenti problematici e se i professionisti iniziassero a considerare le famiglie impegnate in un’attività di attribuzione di senso a quello che sta succedendo potrebbero strutturare degli interventi molto più efficaci. Ad esempio le rappresentazioni di malattia dei familiari spesso condizionano l’efficacia degli interventi psico-educativi sulla demenza, i quali per essere efficaci dovrebbero identificare e affrontare in modo appropriato queste convinzioni. In genere i programmi di intervento focalizzati sull’aumento delle conoscenze non sono stati di aiuto, anzi, Cooke et al. (2001) hanno rilevato che oltre i due terzi degli interventi psicoeducativi non mostravano alcun beneficio.

È fondamentale un cambio di paradigma nella relazione servizi-famiglia: il passaggio da una dimensione lineare (ti insegno come fare seguendo le mie teorie di riferimento) a una dimensione costruttiva intersoggettiva (la costruzione interattiva di nuovi significati). Iniziare a considerare l’incontro tra familiari e operatori (anche nell’ambito delle demenze!) un processo interattivo di coordinamento dei diversi sistemi di significato a cui i soggetti aderiscono, aiuterà i clinici a comprendere che l’esito dell’intervento non sarà tanto funzione dei singoli sistemi di rappresentazione o dei comportamenti dei singoli individui, ma dei modi in cui questi si coordinano nello svolgersi della dinamica interattiva (Fruggeri, 1997).

Ridondanze impazzite 

Giovanni, figlio primogenito che ha sempre assistito la madre Maria:“Ci siamo sempre sostenuti spalla a spalla, quando lei mi chiede il supporto come faccio a non credere che ha bisogno di aiuto? Come faccio a sapere che non è vero ciò che dice? Sono stato con lei 24h su 24h prima del ricovero in RSA, ho perso il lavoro, sacrificando la possibilità di andare in pensione, ma questo non basta… sta meglio quando non ci sono”.

La storia di Maria, una signora di 85 anni ricoverata presso un reparto protetto in RSA a causa di un importante decadimento cognitivo (MMSE 8/30), e di Giovanni, il suo primo figlio e “colonna portante”, può aiutarci a mettere a fuoco come le ridondanze comunicative precedenti la malattia possano “impazzire” e innescare un forte disagio nella relazione. Se prima della malattia il figlio, da alcune piccole richieste della madre, ne intuiva il disagio e riusciva a tranquillizzarla avendo per sé un rimando positivo, ora sembra aver perso il suo “potere terapeutico”. Giovanni, nonostante conosca la diagnosi di demenza della madre, quando Maria chiede, si lamenta o è angosciata cerca di esaudire tutte le sue richieste, ma questo ne fa peggiorare lo stato angoscioso e lo fa sentire malissimo. In realtà, la signora Maria nel reparto protetto della RSA è tendenzialmente tranquilla e mostra questo stato angoscioso quotidianamente alla presenza di Giovanni. Cosa succede quando Maria e Giovanni si incontrano?

Giovanni quando arriva in RSA dalla mamma (ogni giorno sia per il pranzo che per la cena) è molto in ansia e preoccupato di non riuscire a farla mangiare, di non riuscire a farla stare tranquilla, che lei sia arrabbiata con lui perché è in RSA. Lo si vede particolarmente teso e rigido. Maria dopo pochi minuti dal suo arrivo inizia ad agitarsi e gli fa svariate richieste che pur essendo esaudite sembrano agitarla maggiormente, compromettendone spesso anche il pasto. Sembra che la condizione emotiva con la quale Giovanni si avvicina alla mamma la faccia preoccupare, questo la porta a mettere in atto quel comportamento stereotipato del chiedere al figlio aiuto di fronte ad una preoccupazione, ma ciò agita maggiormente Giovanni il quale pur cercando di esaudire le sue richieste teme un suo peggioramento emotivo e quindi, invece di rassicurarla, ottiene un effetto peggiorativo dello stato di Maria che continuerà a fare sempre più richieste fino a quando, colto da una forte disperazione, il figlio sarà costretto a lasciare il reparto e la madre urlante. 

Sembra che fino all’insorgenza della malattia, Maria e Giovanni si fossero costruiti tali modelli interattivi per cui come in un sistema autocorrettivo si erano stabilite delle regole e comportamenti particolari. Secondo questa visione se un membro della famiglia rompe una regola, gli altri sono subito attivati finché costui si conformi di nuovo alla regola, o riesca a stabilirne una nuova (Selvini Palazzoli, 1975). Ciò che avviene, però, con la comparsa della demenza è che l’impalcatura delle regole rimane, ma ne viene perso il significato. È un po’ come se quando arriva, la demenza cambiasse le regole del gioco senza avvertire i giocatori. Essi continueranno a giocare con le regole di prima non riuscendo a capire come mai i loro comportamenti non vadano più bene, ma anzi siano peggiorativi. Si assiste quindi a ridondanze impazzite per le quali un gesto, una parola, una richiesta della persona con demenza vanno a stimolare le regole familiari per cui “io so che se lei fa così vuol dire che… e quindi devo…”.

Secondo Tamanza (2001): “la malattia stessa, soprattutto quando assume come nel caso dell’Alzheimer, i caratteri della cronicità e del decadimento fisico e mentale, deve essere considerata non solo come un evento altamente perturbante e stressante, ma come una vera e propria transizione, cioè come un passaggio gruppale che mette alla prova le relazioni familiari e ne sollecita un adattamento”. Sicuramente questo è ciò che avviene quando la malattia viene vista e riconosciuta come tale, ma quando la malattia si “mimetizza” è molto difficile per il sistema effettuare questa auspicata transizione: si vive, invece, in una dolorosissima fase di stallo. Costruzioni di significato della malattia e pattern della relazione impediscono alle famiglie di differenziare la malattia dalla persona, alimentando questa fase di blocco. Questo è lo spazio in cui si può inserire il lavoro del terapeuta sistemico, il quale, consapevole del fatto che la persona è portatrice dei sintomi e non smetterà di fare ciò che fa anche se il sistema cambia, dovrà lavorare affinché la malattia divenga riconosciuta come tale e quindi favorire la transizione del sistema.

Conclusioni

Le rappresentazioni di malattia e le dinamiche relazionali, quindi, hanno un impatto sul modo in cui si instaura la relazione di cura e su come vengono vissuti i ruoli del “curante” e del “ricevente”. Allo stesso tempo, l’esperienza di vivere con la demenza ha un impatto sulla relazione, che spesso causa cambiamenti o perdite difficili da accettare o regolare (Blieszner, Shifflett, 1990; Hellstrom, Nolan, Lundh, 2007). Tutti questi elementi influenzano la relazione attuale la quale a sua volta si ripercuote su tutti gli attori della cura. Varie ricerche hanno dimostrato che una minore qualità nella relazione attuale è associata a più alti livelli di depressione nel caregiver (Knop et al., 1998; Morris et al., 1988b; Rankin, Haut, Keefover, 2001; Townsend, Franks, 1995) e che la bassa qualità della relazione è anche correlata a maggiori livelli di sforzo di cura (Morris et al., 1988b) e ad una minore percezione di efficacia da parte del familiare (Townsend, Franks, 1997). Burgener e Twigg (2002) si sono concentrati sull’esperienza della persona con demenza e hanno esaminato l’impatto dei fattori di cura e dei fattori di relazione. Hanno riscontrato che la qualità dell’attuale relazione predice il benessere psicologico nella persona con demenza e la sua capacità di risolvere i problemi. Le informazioni che sono state acquisite indicano che la qualità dell’attuale relazione di cura influenza il livello di depressione e stress sperimentato dalle persone con demenza e può anche influire sulle loro capacità funzionali. Quindi la qualità dell’attuale rapporto tra la persona affetta da demenza e i familiari influisce sul benessere psicologico di entrambe le parti.

Inoltre, altri recenti studi (Stites et al. 2018; Edwards et al. 2016; Edwards et al. 2018) hanno iniziato ad indagare, quanto la qualità delle relazioni tra i familiari e la persona fragile influenzi esiti avversi gravi per le persone con demenza come l’istituzionalizzazione, l’ospedalizzazione, la morte, oltre che lo sviluppo di sintomi comportamentali e psichiatrici e una ridotta qualità della vita.

Alla luce delle innumerevoli ricerche che evidenziano le varie implicazioni della qualità delle relazioni familiari con la persona con demenza credo sia arrivato il momento in cui i terapeuti sistemici inizino ad occuparsi di questo ambito: sia da un punto di vista operativo, sia come interessante campo di ricerca.

Quale può essere il territorio dove il terapeuta può danzare insieme a queste famiglie? Innanzitutto, il lavoro con questo tipo di famiglie non sarà finalizzato alla scomparsa dei sintomi o alla “cura” della malattia, ma al miglioramento del benessere della persona affetta da demenza e di chi se ne prende cura, del clima emotivo all’interno della famiglia, e in particolare della relazione. Il lavoro del terapeuta sistemico si potrà articolare su molteplici livelli: raccogliere la storia relazionale della famiglia e le rappresentazioni di malattia; portare i familiari a differenziarsi dalle dinamiche relazionali precedenti la malattia, co-costruendo, a partire dalla storia della famiglia, nuove prospettive che spieghino i comportamenti della persona con demenza; lavorare sulle storie e le premesse che hanno portato a leggere i comportamenti come ridondanze di relazione e non sintomi di malattia; assicurarsi che durante il percorso della malattia i familiari si prendano cura della persona con demenza 

Il terapeuta che si avvicina alle famiglie che stanno affrontando la malattia ogni volta dovrebbe chiedersi: 

Come si sono strutturate le dinamiche familiari durante il periodo di assistenza, dopo che la demenza ha colpito un membro della famiglia?

Quanto le dinamiche familiari pre-diagnostiche hanno influenzano le modalità della famiglia di assistere una persona con demenza?

Come la famiglia si è struttura per far fronte ad una malattia così invalidante e così lunga?

Quali spiegazioni attribuiscono i familiari ai comportamenti della persona con demenza?

Quali dinamiche possono influenzare negativamente la salute del sistema familiare e portare maggior sofferenza?

Quali dinamiche di relazione appesantiscono maggiormente la cura e l’assistenza?

Qual è il ruolo del terapeuta sistemico in relazione a questa famiglia?

Come si può promuovere la salute della famiglia quando si ha a che fare con una malattia degenerativa?

Questo intervento globale permetterà: di togliere alla malattia quel sacro potere che trasforma tutti in vittime o tutti in carnefici, di rendere i familiari dei curanti esperti e di tutelare i legami familiari. Arginare la malattia in uno spazio ben preciso della relazione faciliterà i familiari nel riuscire a posizionarsi in modo diverso con la persona fragile e a prendersene cura. Allora probabilmente il sistema non sarà demente, ma la persona verrà considerata nonostante la malattia.

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