di Wanda Assis, Cláudia Costa Magalhaes e Valeria Henriksson
Traduzione di Gianluca Ganda, Daniela Lagos, Enrico Valtellina
Introduzione
Questa intervista è stata realizzata al termine del Corso “La svolta corporale in psicoterapia”, tenutosi a Castione della Presolana dal primo al 5 aprile 2018. Il corso, organizzato dal Centro di Terapia della Famiglia di Milano, ha visto la partecipazione come insegnanti di Pietro Barbetta, Silvia Briozzo, Marcelo Pakman, Piergiorgio Semboloni, Umberta Telfener, María Jesús Arrojo e Liz Arévalo. L’intervista, condotta dai coordinatori del gruppo, è stata propiziata dall’Associazione Brasiliana di Terapia Familiare come parte di una serie di interviste con professionisti che hanno influenzato lo sviluppo del campo della terapia familiare in Brasile.
Wanda Assis, Cláudia Magalhaes e Valeria Henriksson: Come vedresti il tuo lavoro nel campo della terapia familiare e sistemica in modo retrospettivo?
Marcelo Pakman: Il mio lavoro ha attraversato diversi periodi, ma penso che un principio conduttore sia stata l’articolazione tra la pratica clinica sistemica e la critica sociale e politica, l’epistemologia e la filosofia – per lo più contemporanea – e le arti, nonché con le questioni legate ai diritti umani, alla testimonianza e alla memoria. La mia pratica clinica è stata legata per anni alla salute mentale territoriale e al lavoro in contesti di povertà, violenza e dissonanza etnica, ma presto mi dedicai agli sviluppi nel campo della cibernetica di secondo ordine. Più tardi ho integrato il mio interesse per altri autori, ho sviluppato approfondimenti sulla terapia come pratica sociale critica e sull’importanza della conoscenza in azione nella pratica clinica, partendo dalla lettura dell’importante opera di Donald Schön.
Muovendo da qui ho coltivato l’interesse per la definizione delle micropolitiche che divengono dominanti nelle società e nei gruppi sociali, così come nelle nostre pratiche professionali, e a sviluppare una prospettiva critica sociale della terapia, una critica sociale di fatto, non solo dichiarativa, o di principio. Per fare ciò ho inteso la micropolitica a partire da concetti foucaultiani e negli ultimi quindici anni ho articolato la pratica critica con un’elaborazione più completa del cambiamento discontinuo, ispirandomi alla lettura di autori che non erano stati presi in considerazione nel mondo della terapia sistemica e familiare, come, tra altri, Jean Luc Nancy e Alain Badiou. Con l’aiuto di queste letture ho sviluppato il concetto di eventi di cambiamento poetico in psicoterapia. Si veniva così configurando una posizione critico-poetica, che nel nostro campo professionale credo legittimi, da un lato, una critica delle posizioni micropolitiche che nelle nostre pratiche sosteniamo inconsapevolmente, e dall’altro l’attenzione ai processi di cambiamento poetico.
Al fine di concettualizzare quest’ultimo aspetto mi è stato necessario distinguere i fenomeni di senso da quelli di significato, e mettere in primo piano i concetti di verità e presenza, di immagine e immaginazione, mettendo in questione, nel processo del cambiamento, la sopravvalutazione di quei processi linguistici di significato all’interno e all’esterno della terapia, che divennero rilevanti in concomitanza con la svolta linguistica in filosofia e nelle scienze sociali della seconda metà del ventesimo secolo.
WA, CM e VH: Il tuo lavoro, riflesso nelle opere Palabras que permanecen, palabras por venir (2011) e Texturas de la Imaginación (2014), pubblicato di recente in versione italiana col titolo Immagine e immaginazione in psicoterapia (2018) – tradotto e curato da Gabriella Erba – e la sua continuazione, già disponibile in spagnolo, El sentido de lo justo (2018), portano a riflettere sui nuovi concetti che hai citato, come la micropolitica e l’evento poetico, per introdurli nella pratica clinica. Che contributo danno questi concetti alla psicoterapia?
MP: Essendo un terapeuta, muovo dalla pratica psicoterapeutica. Voglio dire, non è che un giorno mi sono inventato un paio di concetti e poi sono andato a vedere se questi concetti tornavano utili alla psicoterapia.
Nel fare psicoterapia notavo che accadevano alcuni fenomeni che non trovavano legittimità nella riflessione teorica. Ovvero, accadevano, ma se si sviluppava una riflessione teorica, era come se non fossero esistiti. Ad esempio, in molti hanno parlato dell’importanza della politica in psicoterapia e occasionalmente è stato usato il termine micropolitica, introdotto inizialmente da Felix Guattari. La dimensione micropolitica non è semplicemente una politica in piccolo, ma è un concetto che ci permette di risalire sino all’oikosdella Grecia classica, che è indipendente dalla dimensione della politica relativa alla polis, la città, che è ciò che è al di fuori della casa come area intima della vita familiare. L’oikosha sempre una peculiare dimensione soggettiva e relazionale. E io ero interessato a questa dimensione micropolitica, che non si articola su un interesse generale che io come altri abbiamo per la politica, piuttosto cerca di vedere gli aspetti politici che agiscono nella pratica terapeutica, semplicemente per il fatto che si può intendere la micropolitica come qualcosa che ha a che fare con le relazioni di potere tra le persone, con le conoscenze che si mettono in gioco e con il modo in cui queste relazioni di potere e queste conoscenze vengono utilizzate dalle persone, siano terapeuti o clienti, come da chiunque nella società. E mi interessava anche vedere come alcune di queste micropolitiche divengano dominanti su altre e abbiano una grande influenza sul nostro modo di pensare, su come ci sentiamo, su come fantastichiamo o fingiamo, percepiamo, o ci emozioniamo, e come tutto questo sia presente negli stessi modelli terapeutici che usiamo.
A partire dall’idea che questi fenomeni micropolitici sono sempre presenti in quello che facciamo, mi interessava capire perché non sempre determinano ciò che facciamo, non siamo schiavi, non siamo totalmente forzati o vincolati, si danno sempre momenti che si possono sviluppare fino a diventare eventi in cui noi, e i nostri pazienti, riusciamo a deviare da quei copioni che ci dicono come pensare, vivere, emozionarsi, ecc. Io li chiamo eventi poetici non perché abbiano a che fare con la poesia, ma perché sono fenomeni che nascono, si manifestano, arrivano alla presenza, che è uno dei significati del termine poiesis. E questi fenomeni ci catturano toccandoci, sempre che non vi si resti ciechi e si abbia una sensibilità a percepirli, possiamo seguirli e rendere possibile la loro integrazione trasformativa in quella vita quotidiana segnata da quelle micropolitiche che gli eventi poetici interrompono.
WA, CM e VH: Perché la dimensione pre-verbale ed extra-linguistica è importante in relazione a questi eventi poetici?
MP: Noi, formati nella seconda metà del XX secolo, respirammo un’atmosfera intellettuale nella quale veniva dato un posto preponderante al linguaggio. Non si tratta di diminuirne l’importanza, ma di capire che il linguaggio è molte cose diverse, e inoltre che possiamo riconoscere uno sviluppo nel linguaggio. Noi, bambini, siamo nati senza parlare, anche se il linguaggio è già in circolazione nel nostro ambiente, e ciò che deve essere sviluppato come una lingua è strettamente legato a fenomeni che sono inizialmente fisici, che accadono mentre siamo cuccioli accuditi dagli adulti. E questa relazione al linguaggio, nella sua radice legata alla corporeità, non cessa mai completamente di esistere, ha a che fare con qualcosa che Gregory Bateson considerava centrale per l’ecologia della mente e che sviluppò più pienamente negli ultimi anni della sua vita: mi riferisco al fatto che non c’è materialità pura, grezza o inerte da una parte, e dall’altra anima e spirito, o i loro eredi, cioè i significati verbali.
Questa concezione è presente nella dimensione del senso: non si identifica né con la sensorialità né col significato, ma è la radice di quest’ultimo, radice intrecciata in quella corporeità che non è mai, per gli esseri umani, una materialità inerte, e che già implica che le nostre ontologie hanno sempre una propensione a includere una valutazione, un’ascrizione di valori, ancor prima dell’acquisizione della parola.
Tuttavia, mentre sviluppiamo la capacità di astrazione, c’è una certa rottura del legame tra i fenomeni proto-linguistici nella loro relazione con il corpo e con le questioni relazionali ad esso collegate.
Questo distacco rispetto alla radice di senso che nasce nella corporeità relazionale fa sì, nel nostro campo psicoterapeutico, che arrivino a contare di più i contenuti tematici rispetto alla sensualità, la sensorialità e la materialità della vita di tutti i giorni, senza dubbio aspetti centrali nel fenomeno degli incontri umani. Questi sono gli eventi che mi interessano, sviluppatisi in tenera età, in ciò che chiamo l’ecologia del grembo. Ho cercato di legittimarli nella riflessione concettuale perché precedono e superano la dimensione del significato socio-linguistico e contano molto nella nostra vita in generale, nella psicoterapia e negli eventi poetici, per come li ho definiti prima.
WA, CM e VH: perché sottolinei anche la differenza tra rappresentazione e presenza in psicoterapia?
MP: Durante la seconda metà del Ventesimo secolo, anche i fenomeni di presenza sono stati sottovalutati, in alcune correnti filosofiche si è pensato che fossero un’illusione perché viviamo in un mondo di rappresentazioni, non di cose, e che quando cerchiamo di trovare il reale questo non sia da nessuna parte, se non in una rappresentazione.
Nell’esperienza vissuta, negata nella sua immediatezza dal primato della rappresentazione e del significato, sono tuttavia presenti fenomeni che appaiono continuamente, così come esistono fenomeni immanenti che accadono e sono efficaci indipendentemente dalla nostra osservazione e dalla nostra coscienza, non dobbiamo fare nulla perché ciò avvenga, abitiamo mondi che appaiono e che hanno la loro propria efficacia.
E l’apparire di questi fenomeni di presenza è fondamentale negli eventi poetici. Il termine poiesisè stato utilizzato in precedenza nella terapia familiare. La scuola cilena di Maturana e Varela ricorse al concetto di autopoiesi in biologia per parlare dell’organizzazione dei viventi. Ma prendo il termine poiesisin uno dei suoi significati, che è quello di giungere alla presenza o alla nascita alla presenza.
WA, CM e VH: come accadono o avvengono i fenomeni di presenza?
MP: accadono perché stiamo esistendo in un mondo, non dobbiamo fare niente di speciale, non dobbiamo sviluppare una tecnologia per farli accadere.
Viviamo una buona parte della nostra vita in questa dimensione di presenza, non in una dimensione rappresentazionale. Proprio in questo momento, mentre stiamo parlando, ci sono cose che ci appaiono come finzioni, come ricordi, come progetti, come percezioni. A volte sono apparizioni non pertinenti rispetto a quello che stiamo discutendo per quanto, in linea di principio, possiamo postulare che abbiano le loro dinamiche politiche, sociali o inconsce. Nel processo del nostro incontro le determinazioni di queste apparizioni non arrivano a sembrare una catena causale completa, ma appaiono come una sincope, per usare un termine di Jean-Luc Nancy, un elemento discontinuo che non può essere sempre ricondotto a elementi strutturali sottostanti. Questo accade continuamente, non abbiamo un accesso totale al nostro mondo, perché non ci appare mai come un’unità, bensì in modo frammentario. Queste apparenze, queste presenze, sono fondamentali per fare psicoterapia perché danno luogo a fenomeni di cambiamento.
Non importa quanto sia stato posto l’accento sul fatto che il nostro accesso al mondo sia sempre mediato dalla dimensione culturale, sociale e politica, cosa in sé indiscutibile, ciò non significa che tutto ciò che accade si esaurisca in questa dimensione di mediazione, perché siamo già sempre nel mondo, anche se i fenomeni di mediazione sono molto importanti da tenere in considerazione.
Lo sono però anche gli altri momenti in cui le cose del mondo vengono a noi e noi ci confrontiamo con esse perché questa dimensione singolare è fondamentale per la terapia. Questo è ciò di cui parla Susan Sontag quando affermava che abbiamo bisogno di una erotica dei fenomeni di superficie e non solo di un’ermeneutica interpretativa.
WA, CM e VH: qual è il rapporto tra immagine, immaginazione e processi terapeutici?
MP: C’è una lunga riflessione, sia filosofica sia nel campo della psicoterapia, in cui il concetto di immagine è inteso come sinonimo di finzione. In quella prospettiva c’è il mondo e poi le altre cose, che sembrano essere un’imitazione del mondo o nascere dal mondo. Ma si dà un altro punto di vista sulle immagini che ci è stato fornito da Kant, per cui le immagini sono indistinguibili da ciò che è l’essenza o la realtà del mondo, sono l’apparenza stessa del mondo o dei mondi, che possono adottare modalità differenti, quella della percezione delle cose, quella della fantasia o quella del sogno, così come allo stesso tempo possiamo emozionarci, cosa che accade sempre agli esseri umani.
Ciò che non sempre succede è che si presti attenzione a questa apparizione di immagini: ci sono state molte teorie e riflessioni che riducono l’importanza di questi atti di apparizione, fondamentali invece per ciò di cui amano parlare i terapeuti, cioè la dimensione e la possibilità del cambiamento. L’immaginazione, del resto, è solitamente intesa come una funzione della psiche individuale: così come il pancreas produce insulina, abbiamo un cervello, o una mente, che produce immagini. Ma un’altra visione possibile ci fa intendere l’immaginazione come un lavoro che compiamo intorno alle immagini (che appaiono, ad esempio, in una mini-comunità dell’atto terapeutico), lavoro che emerge quando appare un aspetto singolare, che non rientra nel patterno nel modello di ciò che è già conosciuto. Questa concezione ha conseguenze in particolare in relazione a ciò che chiamo eventi poetici, quei momenti di cambiamento discontinuo e singolare nella psicoterapia e nella vita in generale.
WA, CM e VH: Quale riflessione vorresti fare in relazione alla terapia familiare riguardo a questi concetti e pratiche?
MP: La terapia familiare è un campo molto ricco nato come società eterodossa perché le radici del pensiero sistemico erano molteplici, a differenza della psicoanalisi nata da Freud, una persona sola. Il pensiero sistemico nacque dal lavoro con adolescenti difficili, psicosi, disordini alimentari, e inizialmente furono esperimenti con pratiche alle quali non si sapeva neppure quale nome dare. Solo più recentemente infatti, negli anni Settanta, prese piede l’uso di una definizione ombrello nel nome di terapia sistemica. Fino a quel punto c’erano già stati trent’anni di pratiche proto-sistemiche. Quello che mi piacerebbe vedere come il futuro è approfondire queste radici multiple senza ridursi a un mero eclettismo. Si dà ad esempio una separazione prematura nella terapia familiare tra psicoanalisi e pratiche sistemiche che ha più a che fare con il fatto che i primi praticanti proto-sistemici erano stati psicoanalisti scontenti e in cerca di qualcosa di nuovo. Ma già in quelle prime radici della sistemica, troviamo uno spirito eterodosso nella ricerca di cose nuove, non per vivere ripetendo, ma piuttosto educando fin dall’inizio la sensibilità del praticante sistemico con una esposizione alle arti, alle scienze, alla letteratura, ai processi politici e delle filosofie che hanno esplorato le tante domande che possiamo porre in relazione alla vita familiare e ai suoi processi di cambiamento.