di Marilena Tettamanzi
“…e naturalmente non sapevo neppure che i sistemi soggetti a fuga, come l’incremento demografico, potessero contenere i germi della propria auto-correzione sotto forma di epidemie, guerre o programmi governativi”
Bateson (Mente e Natura, 1979, p. 144)
Premessa
A partire dal 13 gennaio 2020 la parola “coronavirus” pare aver infettato non solo la popolazione mondiale, con le gravi ripercussioni sanitarie, sociali, economiche e politiche tutt’ora in corso, ma anche i sistemi mentali, comunicativi, i social così come le riviste scientifiche.
Anche noi in qualità di psicoterapeuti e, soprattutto, a partire da un approccio epistemologico complesso non possiamo esimerci dal meta-riflettere sui processi in atto, sulle modalità di regolazione e sull’impatto psicologico e sociale di quanto sta accadendo.
Ci troviamo di fronte ad una emergenza globale, innescata da un “nemico” invisibile e microscopico e solo il recupero di una visione complessa, interconnessa, ecosistemica e mentale, nel senso batesoniano del termine, può aiutarci a non ricadere in errori del passato, a promuovere il raggiungimento di un nuovo equilibrio, preservandoci dal bisogno/desiderio di tornare al precedente equilibrio che conteneva in sé i germi dell’autodistruzione (Cecchin, Apolloni, 2003). Per leggere tale fenomeno disponiamo degli strumenti offertici dalla cibernetica del secondo ordine (Von Foerster, 1982) e, perché no, anche dalla cibernetica di terzo ordine (Tettamanzi, 2019), dall’epistemologia della complessità (Ceruti, 2019), ma anche delle teorie sul caos (Lorenz, 1993, Ekeland, 2010), sui sistemi autopoietici (Maturana e Varela, 1985) e sulle strutture dissipative (Prigogine, 1981): ciò a cui siamo di fronte non è nulla di realmente nuovo e inaspettato; filosofi, scienziati, epistemologi da tempo ci sollecitano e ci forniscono strumenti per approcciare la complessità con rispetto evitando rischiose semplificazioni, ricordandoci che in un mondo fortemente interconnesso, come quello globalizzato, non è possibile avere il controllo unilaterale delle sollecitazioni prodotte, ma che dobbiamo assumerci la responsabilità delle perturbazioni che agiamo, lasciando che il sistema poi le utilizzi secondo le proprie leggi.
A tali strumenti epistemologici siamo chiamati ad aggiungere anche le attrezzature mentali dello psicoterapeuta, che mentre tiene conto del tutto è chiamato a prestare attenzione al benessere/malessere dei micro-sistemi fatti di famiglie, comunità, adulti, bambini, alcuni dei quali avevano una precedente storia di bisogni e richieste di aiuti e altri si trovano invece messi di fronte alle proprie inattese fragilità e necessitano un orientamento o nuove prese in carico. Diventa fondamentale muoversi con attenzione, per non patologizzare un disorientamento momentaneo e offrire strumenti per far fronte alla situazione anomala e promuovere la ripresa della vitalità (Tettamanzi, Sbattella, Molteni, 2013).
Ulteriore cornice concettuale indispensabile per fronteggiare il virus è data dalla letteratura sull’emergenza (Sbattella, Tettamanzi, 2019): conoscere le regole e i vincoli di tali contesti permette di comprenderne i bisogni, per anticiparli e per avviare ipotesi di ripresa coerenti a ciò che accade, agli scenari possibili e alle risorse disponibili.
Ci muoviamo all’interno dell’ecosistema globale che interagisce con macro e micro-sistemi sociali locali fortemente interconnessi. All’interno di questo gigantesco sistema si muove il flusso virale, con le sue regole e i suoi principi, al quale il sistema umano cerca di rispondere attraverso azioni di contenimento e promuovendo un flusso comunicativo che si interfaccia al flusso virale per modularlo e disciplinarlo.
È fondamentale, dunque, evitare ogni semplificazione, sollecitando interventi a partire da una attenta conoscenza delle diverse parti in gioco.
Flusso virale e mondo globalizzato
Siamo parte di un macro-sistema globalizzato, tecnologico e scientificamente avanzato messo in ginocchio da un organismo microscopico, neppure in grado di vivere autonomamente. A differenza dei batteri, infatti, i virus sono micro-organismi estremamente piccoli, costituiti da materiale genetico racchiuso da un involucro proteico; i virus non sono in grado di riprodursi autonomamente e per farlo necessitano di un ospite, quali potremmo essere noi essere umani: il coronavirus Covid-19 (come altri in precedenza) ha effettuato il salto di specie e trova nel sistema umano un veicolo agevole, fortemente interconnesso, diffuso su tutto il pianeta dove dimorare e riprodursi, non certo con l’intenzione di distruggerlo, benché la morte di alcuni ospiti possa essere l’effetto collaterale della sua sopravvivenza (Pievani, 2019).
Ma quali sono i principi di tale diffusione? Lasciamo ai virologi il compito di fornire gli aspetti specifici e dettagliati. A noi qui basti sapere che Il flusso virale segue regole semplici: va ad occupare tutti gli ospiti liberi e poiché per il genere umano il coronavirus è una novità, esso trova terreno fertile ovunque; solo quando si troverà di fronte ad una popolazione già fortemente “occupata” o quando si scontrerà con un vaccino (o per effetto di altri agenti climatici, inquinanti o altro, ora solo ipotizzabili e non verificabili per questioni legate al processo temporale e ai principi del metodo scientifico) rallenterà la sua corsa e la sua potenza.
Un altro termine si è imposto in questi mesi all’attenzione pubblica: pandemia. Come chiarisce l’etimologia della parola (dal greco pandemos, ossia tutta la popolazione) una pandemia è una infezione a cui è esposta l’intera popolazione mondiale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le condizioni che portano a definire la diffusione di una patologia come “pandemia” sono tre:
- la comparsa di un nuovo agente patogeno;
- la capacità di tale agente di colpire gli esseri umani;
- la capacità dell’infezione di diffondersi rapidamente per contagio.
La gravità non risulta essere un parametro preso in considerazione nel definire una diffusione virale come pandemica: sono piuttosto la rapidità e la pervasività del contagio a far spostare la definizione da epidemia a pandemia. In questo senso ciò che determina la gravità è la velocità con cui un virus si diffonde, andando a saturare i sistemi sanitari locali e nazionali determinando un incremento esponenziale delle domande, che arrivano presto a eccedere le possibilità di risposta del sistema di cura: l’aumento dell’attesa della presa in carico può portare di conseguenza alla degenerazione di casi altrimenti curabili e innalzare il livello di rischio.
La presenza effettiva di una pandemia e la definizione ufficiale della stessa sono due aspetti che non necessariamente coincidono. Il primo, infatti è un processo naturale, il secondo riguarda scelte politiche, economiche e sanitarie, poiché la dichiarazione da parte dell’OMS dello stato di pandemia può avere importanti ripercussioni economiche e sociali. Si può, del resto evidenziare che l’OMS ha dichiarato l’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale il 31 gennaio del 2020, mentre solo un mese e mezzo dopo (11 marzo 2020) dichiara lo stato di pandemia.
Parlare semplicemente di pandemia inoltre è riduttivo. Sempre l’OMS nel 2009 distingue 6 fasi: nelle prime due fasi il virus non circola nell’uomo, nella terza e quarta fase compare nel genere umano e a partire dalla fase 5 (il virus si trasmette da uomo a uomo in almeno due Paesi in una regione dell’OMS) inizia l’allerta, per arrivare alla fase pandemica vera e propria, caratterizzata da focolai in almeno un Paese in diverse regioni dell’OMS.
A questa segue poi una fase post picco (in cui i casi cominciano a scendere al di sotto del picco nella maggior parte dei Paesi, ma è ancora possibile che si verifichino nuove ondate) e una fase di post-pandemia (quando l’influenza torna ai livelli normali).
Come accade con tutte le definizioni, ciò che sanziona il passaggio da una fase all’altra ha confini labili e dipende dai punti di vista: il picco (non quantificabile in termini di numero di casi e neppure in numero di decessi) per l’Italia è sicuramente diverso da quello degli Stati Uniti e del Basile, così come per la Cina: la differenza la fa prendere in considerazione un punto di vista mondiale e non nazionale; a partire da questo possiamo chiederci se siamo o meno di fronte ad un passaggio dalla fase 6 alla fase post-picco e se la sorveglianza variabile nei diversi paesi sia funzionale o meno al mantenimento dell’allerta secondo quanto indicato dai protocolli internazionali.
La riflessione scientifica su questo tema da parte dell’OMS è estremamente recente e non esente da critiche: la definizione attuale di pandemia deriva, infatti, da confronti e dibattiti sviluppatisi tra il 2009 e il 2020. La natura recente della nomenclatura, tuttavia, si scontra con una lunga storia di epidemie e pandemie affrontate dalle civiltà antiche e moderne. Benché, infatti, oggi si sottolinei a più riprese che non ci si è mai trovati di fronte ad un fenomeno come questo, una attenta analisi della storia umana evidenzia il contrario (www.fondazioneveronesi.it): tralasciando le pestilenze del primo millennio dopo Cristo e le pandemie di colera del 1800, anche nel Novecento la popolazione mondiale è stata messa alla prova da diffusioni virali a carattere pandemico. Si ricordino, per esempio, l’influenza spagnola del 1918/1919 che contò 50 milioni di vittime, l’influenza asiatica che tra il 1957 e il 1960 fece in tutto il mondo 2 milioni di morti e l’influenza di Hong Kong comparsa nel 1968 e tutt’ora in circolazione.
La differenza che crea una differenza tra ciò che accadde allora e ciò a cui ci troviamo di fronte oggi non è data dalla natura del virus o dalla sua diffusione ma dalle caratteristiche del sistema esposto. Viviamo in un mondo globalizzato, interconnesso, con spostamenti sempre più rapidi e frequenti che hanno avvicinato in termini temporali e di frequenza i poli opposti del mondo. Abbiamo sviluppato una tecnologia avanzata, disponiamo di laboratori, sistemi di analisi e sistemi di controllo sempre più capillari. Ciò, anziché aumentare la resilienza del sistema, lo espone ad una inaspettata fragilità a fronte di organismi microscopici che possono viaggiare alla velocità di un frecciarossa e di un volo intercontinentale andata e ritorno in poche ore. La differenza è data dal trovarsi di fronte alla consapevolezza che l’illusione di potenza e controllo sono più labili di quanto previsto.
Ulteriore elemento di fragilità del nostro sistema è dato dal profondo cambiamento nel funzionamento dei sistemi locali e familiari: le famiglie moderne sono spesso caratterizzate da grande mobilità degli adulti, che lavorano lontano da casa e con sistemi di supporto informali laschi, compensati dalla strutturazione di sistemi formali di cura sempre più diffusi, perfezionati sui bisogni dei bambini e delle famiglie: l’interruzione della mobilità insieme alla sospensione del sistema scolastico e la chiusura in ambiti locali ha creato oggi una differenza dal normale equilibrio esponenziale rispetto a ciò che sarebbe accaduto solo 30 anni fa.
Il Covid-19 ha evidenziato in modo lampante quanto la vita ogni singolo sia fortemente dipendente dalle attività promosse da altri sistemi.
I flussi virali funzionano in modo apparentemente semplice, seguono le linee di connessione tra esseri viventi e seguono strade latenti ma già tracciate. Essi si originano in coerenza con il sistema ecologico di cui sono parte e funzionano da correttivi.
L’epistemologia da cui partiamo ci porta a considerare il flusso virale come una parte vitale della Biosfera e della Terra, le quali sono sistemi complessi auto-organizzanti che funzionano secondo i principi del processo mentale così come lo ha definito Bateson (1979). Sono cioè aggregati di parti o componenti interagenti: l’interazione è innescata dalla differenza e il processo richiede una energia collaterale e catene di determinazione circolari complesse, gli effetti della differenza sono trasformate della differenza che li ha preceduti e i processi in atto presentano una gerarchia di tipi logici che vanno rispettati.
Nel 1972 James Lovelock formulò l’Ipotesi Gaia (Lovelock, 1979), secondo la quale tutto il sistema terrestre può essere considerato come un unico organismo (Gaia) che funziona come un sistema auto-organizzate. A partire dalla constatazione che la vita può esistere solo nei sistemi in disequilibrio, egli definì la Terra come un sistema non in equilibrio che si auto-regola:
- Gaia è una grande rete autopoietica (ossia di anelli di retroazione);
- è un sistema geo-fisiologico (in cui vi è un accoppiamento strutturale tra vita e ambiente);
- è un sistema contemporaneamente aperto e chiuso
- si auto-regola grazie alla vita batterica
- è un sistema resiliente: maggiore complessità determinerebbe maggiore resistenza alle perturbazioni.
I sistemi che si auto-regolano sono caratterizzati da creatività, instabilità e imprevedibilità. Ogni tentativo di controllo unilaterale, di semplificazione sono rischiosi poiché il sistema risponde con cambiamenti discontinui. Ciò fu chiaramente dimostrato dagli esperimenti condotti tra il 1987 e il 1994 in Arizona, noti come Biosfera 2, il tentativo di riprodurre un ecosistema completo e autosufficienti in vista di una futura colonizzazione spaziale fallì due volte: la prima a causa della emissione di tassi insolitamente alti di anidride carbonica da parte di batteri presenti nell’ecosistema riprodotto e la seconda per l’acuirsi di conflitti tra i gruppi umani isolati che sabotarono il sistema.
Ciò che è accaduto e sta accadendo con il coronavirus è direttamente deducibile da quanto esposto, amplificato dallo sviluppo umano che ha intensificato le connessioni e gli scambi, e da ciò la facilità che un fenomeno locale si trasformi facilmente in fenomeno mondiale.
Il sistema sociale, economico e geo-politico in cui ci trovavamo prima della pandemia aveva le caratteristiche di una schismogenesi, di una società in fuga, in costante accelerata. Ad un certo punto si è verificata una biforcazione (per usare la terminologia delle strutture dissipative di Prigogine) o possiamo definirla una criticità auto-organizzata e una emergenza discontinua propria delle reti interconnesse e si è verificato (attraverso feedback positivi che hanno innescato effetti farfalla) una inversione del processo mentale di crescita.
Si è ad un certo punto insediato il dubbio che quanto accaduto fosse in parte dovuto all’opera dell’uomo per ottenere effetti desiderati, ma in realtà sappiamo che, anche se così fosse, le successioni divergenti sono imprevedibili. In questa sede, inoltre, poco ci importa: in emergenza si distinguono i disastri naturali da quelli antropici ma si tratta di una distinzione fittizia poiché ciò che determina la natura emergenziale di un evento è l’impatto sul sistema umano esposto.
A seconda del punto di vista possiamo leggere i fatti sia in termini di effetti farfalla oppure di feedback negativi o di biforcazioni.
Una cosa pare certa: l’equilibrio precedente ha portato ad una rottura che ha ricordato al sistema umano che gli equilibri e i disequilibri sono mantenuti da particelle microscopiche e che per trovare un nuovo equilibrio è necessario introdurre correttivi.
Emergenze multiple
La situazione innescata dalla diffusione del Covid-19 ha creato uno stato di allerta internazionale e ha messo a dura prova le capacità dei sistemi sociali di riconoscere i pericoli insiti in un nemico invisibile e di cambiare di conseguenza le proprie abitudini.
Non ci siamo trovati di fronte a distruzioni, a cambiamenti nell’ambiente fisico, ma questo minuscolo micro-organismo pare, comunque, aver soddisfatto tutte le definizioni di emergenza (Sbattella, Tettamanzi, 2013; Sbattella, Tettamanzi, 2019).
Da un punto di vista sanitario, infatti, la diffusione del virus ha avuto una tale rapidità che per un certo lasso di tempo i sistemi di cura si sono trovati ad agire in condizioni di emergenza, con l’impossibilità di mettere in campo le normali procedure di urgenza e con la conseguente drammatica necessità di non poter salvare tutti. Questo è stato, in Italia, così come in altri Paesi, il momento più critico dell’emergenza globale: la diffusione del virus era così rapida e degenerativa che i bisogni crescevano a dismisura rispetto alle risorse disponibili e agli strumenti noti per intercettarlo prima che degenerasse in emergenza sanitaria. La situazione era (e in parte lo è ancora) aggravata dalla mancanza di conoscenze e dati su farmaci efficaci nel bloccare l’infezione e dalla imprevedibilità del suo aggravamento: per molti si tratta di una semplice influenza, ma per altri degenera in una infezione grave, alcuni soggetti sono facilmente riconoscibili a priori come a rischio, ma altri hanno scoperto solo a posteriori la propria vulnerabilità.
Ciò ha portato al proliferare dello stato emergenziale dall’ambito sanitario a quello sociologico: per ridurre i rischi di diffusione è stato necessario agire sui sistemi sociali e rompere le connessioni, chiudere i luoghi di aggregazione, fino a scelte drastiche di chiusura totale.
Per comprendere le azioni intraprese va citato l’indice più noto degli ultimi mesi, l’R0 (www.iss.it). Tale indice è un parametro per valutare l’andamento di una epidemia provocata da una malattia infettiva, nella sua fase iniziale in assenza di interventi. Esso rappresenta il numero di riproduzione di base, cioè il numero medio di infezioni secondarie causate da ciascun individuo infetto in una popolazione che non sia mai venuta a contatto con l’agente patogeno. Il calcolo di R0 si basa su modelli teorici, è frutto di semplificazioni e dipende da moltissimi fattori, alcuni imprevedibili e non noti. In genere il suo calcolo si basa su 3 parametri:
- la durata della contagiosità dopo l’infezione di una persona;
- la probabilità di infezione per contatto tra una persona sensibile e una infetta o un vettore
- il tasso di contatto.
Le stime relative al valore R0 del Covid-19 si aggirano tra 1,3 e 3,8 con un valore medio stimato di 2,5. Tale valore di per sé non cambia, se non in funzione di variabili ambientali a oggi non note. Per ridurre la trasmissibilità e ridurre il grado di contagio, fintanto che non verrà sviluppato un vaccino, l’unica variabile su cui è stato possibile agire riguarda l’ultimo parametro, ossia in tasso di contatti. Riducendo, e inizialmente azzerando, i contatti, la forza del virus è stata ridotta. Gli interventi attuati hanno permesso di dare vita ad un secondo parametro, noto come Rt: quest’ultimo descrive il tasso di contagiosità dopo l’applicazione delle misure atte a contenere il diffondersi di mascherine e guanti, le sanificazioni, la contingentazione delle presenze nei luoghi pubblici sono tutte azioni che agiscono sul sistema sociale cercando di ridurne la vulnerabilità al virus, bloccandogli la strada.
L’isolamento sociale, l’incertezza data dalla invisibilità del pericolo, la sua diffusione a macchia di leopardo e la rottura delle normali routine e demarcazioni spazio-temporali ha poi innescato potenziali situazioni di emergenza psicologica. Come accade nelle grandi catastrofi si sono evidenziate aree rosse con vissuti di stress, potenzialmente traumatici, lutti non elaborati e aggravati dalla distanza e dal mancato supporto e possibilità di congedarsi: sullo stesso piano si sono trovati malati, familiari distanti e personale sanitario che ha lavorato in condizioni di emergenza per un tempo prolungato. A ciò si sono aggiunti i vissuti di persone isolate, di famiglie compresse in spazi e tempi sovrapposti, bambini e adulti con disabilità rimasti senza riferimenti, persone a confronto con fragilità nuove e vecchie, sistemi di cura e relativi pazienti paralizzati, comunità residenziali in allarme. Da un punto di vista psicologico si sono parcellizzati i bisogni, in alcuni casi si sono create aree di confort e in altri si sono esacerbati rischi locali.
Se, infine, utilizziamo la terminologia propria della Protezione Civile, la situazione venutasi a creare rientra a pieno titolo nella definizione di disastro o catastrofe, poiché per far fronte agli eventi è necessario utilizzare risorse straordinarie e interconnesse, comunque non sufficienti a rispondere alla rapida evoluzione dei bisogni emergenti. A tal proposito è utile ricordare che la Protezione Civile Italiana ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020 e che tale stato perdura per 6 mesi, ossia fino al 31 luglio del 2020.
Ad oggi le misure messe in campo stanno iniziando a produrre effetti positivi ma i dati ci invitano ancora a guardare con rispetto al virus che circola nel nostro pianeta.
Al 14 febbraio 2020 il Coronavirus (una settimana prima del primo caso registrato in Italia) contava 64.544 casi nel mondo, 1383 morti in Cina, 44 casi in Unione Europea e Regno Unito e 25 in altri Paesi. Al 23 maggio 2020 (ossia 3 mesi dopo, il giorno prima di una ulteriore riapertura) si contano a livello globale 5.061.476 casi, 331.475 morti, di cui 4645 in Cina, 171.378 in Europa, 92.923 negli Stati Uniti, a cui seguono in casi e le morti in costante crescita in Brasile, Messico e in tutti gli altri Paesi anche se non sempre annoverati tra i dati ufficiali. Va ricordato che questi numeri si riferiscono ai casi noti (www.salute.gov.it).
Comprendere il funzionamento del virus, del sistema umano, psico-socio-economico di cui siamo parte e i principi propri dei contesti di emergenza dei criteri di intervento dovrebbero farci da guida per intraprendere azioni e riflessioni mirate in grado di promuovere benessere e protezione.
Secondo le definizioni utilizzate dalla Protezione Civile, il rischio connesso ad un fenomeno è dato dal prodotto tra la magnitudo e la probabilità dell’evento (parametri propri dell’evento e in genere non modificabili) per la vulnerabilità e l’esposizione del sistema su cui agisce l’evento (R=MxPxVxE). Su questi due ultimi parametri ci è data possibilità di azione, sia in termini psicologici che operativi.
Flusso comunicativo
Uno dei principali strumenti di cui disponiamo per far fronte a contesti di emergenza e ampiamente utilizzato in questa specifica situazione è la comunicazione: adeguate strategie di comunicazione permettono di affrontare adeguatamente la situazione, di cooperare efficacemente tra operatori, di entrare in contatto con le persone coinvolte e di evitare reazioni collettive difficilmente gestibili (Zuliani, De Antoni, 2002; Sbattella, Tettamanzi, 2007).
Nello stato di stress i singoli e i gruppi necessitano di informazioni per orientare le scelte e allentare i conflitti. L’essere informati, in emergenza, riduce l’ansia poiché l’informazione consente la razionalizzazione.
Scegliere come, quando, quanto comunicare non è, tuttavia, compito semplice, poiché richiede non solo la conoscenza degli strumenti e delle strategie di comunicazione, ma anche e soprattutto il funzionamento psichico e sociale dei destinatari della comunicazione poiché, come ci ricorda Maturana (1993), il significato lo dà il ricevente.
Bateson ha evidenziato i rischi di un uso manipolatorio della comunicazione: ovviamente chi sceglie cosa e come comunicare influenza i pensieri, le emozioni e i movimenti collettivi; ma tale controllo non può essere unilaterale, poiché i singoli e i gruppi pensano, interpretano e agiscono. In emergenza, in particolare, il gruppo assume un ruolo fondamentale nell’interpretare gli eventi e le comunicazioni, e la comunicazione nel gruppo diventa una strategia di gestione dello stress. Oggi a ciò si aggiunge la possibilità amplificata dei gruppi di comunicare e dire la propria attraverso i social network, complessificando il flusso informativo, con la conseguente necessità per ciascuno di individuare una fonte riconosciuta come autorevole e affidabile.
La psicologia e la sociologia dell’emergenza da tempo indicano alcuni criteri a cui è importante che risponda la comunicazione ufficiale in emergenza, al fine di aiutare le persone ad orientarsi, ad auto-proteggersi qui ed ora e a metter in campo strumenti e strategie adeguate in futuro. È opportuno che la comunicazione in emergenza dia rassicurazioni, fornisca informazioni utili e coerenti e stronchi le false notizie, è importante usare un linguaggio semplice e chiaro, non nascondere i fatti negativi e fornire elementi per aumentare la comprensione. Sarebbe inoltre opportuno che la comunicazione contribuisse a co-costruire una immagine globale, a creare legami interpersonali, coesione e condivisione di obiettivi, infine ha l’importante funzione di promuovere la condivisione di sensazioni ed emozioni, riconoscendo le incertezze presenti nella situazione.
Affinché, tuttavia, sia possibile comunicare adeguatamente i rischi connessi a una situazione emergenziale, è necessario che la popolazione sia disponibile ad ascoltare. La preoccupazione porta alla ricerca di informazioni che orientano, purché tale preoccupazione non sia sotto o sopra soglia: l’assenza di preoccupazione così come l’eccesso della stessa tendono ad evitare la ricerca di informazioni. La preoccupazione ha una componente reale e una legata all’immaginario: in emergenza è opportuno dare spazio al reale, anche se non sempre gradevole, la paura può essere una risorsa, se si permettere alle persone di giungere ad una ragionevole paura.
La comunicazione dei rischi (Beck, 1986) e delle emergenze deve essere sopportabile, accettare, dare una chiave di lettura e soluzione, attraverso un giusto equilibrio tra allerta e allarmismo.
Quando parliamo, tuttavia, di mass media, ossia di comunicazione di massa, non va dimenticato che lo stesso messaggio rivolto a gruppi ampi può avere effetti e dare vita a interpretazioni profondamente differenti. Per questo l’informazione andrebbe differenziata, calibrata, specificata, a partire da un unico messaggio, poi approfondito con modalità e su aspetti differenti, in funzione del target a cui mi rivolgo.
Di fronte al Covid-19 la comunicazione ha svolto un ruolo centrale. In primis ha reso reale il virus, presente ovunque ma invisibile e impercettibile per chi si è trovato lontano da ospedali, malati e luoghi di morte. Gli esperti di comunicazione hanno anche contribuito a dare un nome al virus che fosse semplice e immediato: fino al 14 febbraio circa parlavamo di 2019-nCov (abbreviazione del nome scientifico del virus), diventato poi Covid-19, a ricordarci che la sua nascita è precedente al soqquadro creato a livello mondiale nel 2020.
I sistemi di comunicazione si sono trovati in regia di comando, hanno avuto la funzione di creare l’allerta e in alcuni momenti hanno scelto di esasperare le immagini e le informazioni per far passare il messaggio di reale pericolo e di necessità di attenersi all’auto-isolamento: ricordiamo tutti la fase in cui dal dirci che gli ospedali erano al collasso sono passati a mostrarci le bare accalcate nelle chiese. Per convincere una popolazione varia, creativa e a volte indisciplinata servono messaggi forti, che sono stati usati e poi sapientemente ridimensionati.
Ora siamo in una nuova fase: i sistemi di comunicazione mettono in primo piano i bisogni economici e ci sollecitano a tornare alla vita normale. Ciò significa scegliere diversi informatori (sono diminuite le interviste a medici e virologi) e l’aspetto di ripresa viene segnalato come centrale.
Pandemia: una emergenza globale solitaria
Se il virus mette in evidenza la rete relazionale che connette le persone, traccia gli spostamenti, lo strumento principe per fronteggiarlo; come ampiamente sottolineato, è la temporanea e artificiale interruzione dei nodi di interconnessione: si deve “rompere” temporaneamente la rete.
A differenza di ciò che accade normalmente in emergenza ci troviamo di fronte ad una situazione silenziosa e sparpagliata: non esiste un epicentro unico, ma il virus può estendersi ovunque e diverse aree possono trasformarsi di volta in volta in zone rosse con epicentri temporanei costituiti dagli ospedali. Si tratta di un contesto diffuso che si trasforma rapidamente e continuamente, mentre guardando fuori dalla finestra non si vede nessun pericolo percettibile.
Come in tutte le catastrofi tempo e spazio (coordinate dell’equilibrio psichico) collassano (Boscolo, Bertrando, 1993), anche qui però abbiamo delle specificità: non ci sono tendopoli, non c’è la perdita dello spazio e del tempo personale, ma piuttosto una implosione di queste variabili. Ognuno ha la propria tendopoli a casa propria, ciò per alcuni significa trovarsi in un luogo confortevole ma per altri in una prigione senza via di scampo. Tutto si svolge nello stesso spazio, i tempi e i ruoli normalmente diluiti in luoghi diversi si sovrappongono e si scontrano creando a volte corto-circuiti.
Se le emergenze, in genere, portano alla perdita di separazioni e all’incremento della condivisione con persone estranee ma che vivono la stessa angoscia, qui tutti siamo separati ciascuno con la propria realtà, sana o patologica che sia: adolescenti costretti a casa con genitori da cui si stanno separando, bambini felici di avere genitori a casa, genitori esasperati dal non riuscire ad essere né buoni genitori né adeguati lavoratori, persone sole che si trovano di fronte alla pesantezza della propria solitudine, chi si dà occasione di ritrovare tempi e modi nuovi per vivere una vita che si era dispersa nel “dover fare”, chi riscopre risorse che riteneva perdute e chi si scontra con sintomi nuovi e vecchi senza i normali sistemi di supporto e neppure quelli straordinari, in genere promossi nei contesti di crisi.
Quando si verifica una catastrofe, accanto alla perdita delle delimitazioni spaziali, in genere si crea una sensazione di tempo sospeso, durante il quale le normali attività si fermano completamente perché si impongono nuove priorità (Tettamanzi, Sbattella, 2010). Benché il Covid-19 abbia determinato il blocco degli spostamenti e la chiusura fisica di scuole e attività produttive, in molti ambiti (forse per l’invisibilità dell’emergenza) non si è sperimentata realmente la sospensione del quotidiano: quasi immediatamente si è instaurata la pretesa, inizialmente accompagnata da stupore, di poter fare comunque tutto. Lezioni a distanza, smart-working, lavori vecchi e nuovi: se da un lato ci sono persone ferme con un tempo dilatato, dall’altro molti hanno vissuto una invasione di impegni, fatti di vecchie e nuove priorità sovrapposte e disorganizzate e senza le normali demarcazioni che permettono di passare da un ruolo all’altro. In alcuni contesti sembra di vedere criceti in rincorsa nelle proprie ruote, mentre il mondo fuori era fermo.
Ciò ha delle ripercussioni sulle possibilità di ipotizzare interventi di supporto, anche di natura psicologica.
In emergenza abbiamo imparato, per esempio, che gli interventi di gruppo, che connettono persone che vivono situazioni simili, vadano privilegiati: i gruppi permettono che si inneschino processi naturali di supporto e consentono di far fronte alla crescita esponenziale delle richieste con un numero limitato di operatori.
In secondo luogo i primi interventi di benessere psicologico dovrebbero passare attraverso l’organizzazione di spazio tempo e il riordino degli stessi.
Altro principio cardine è rendere le persone attive nella ricostruzione.
Ci siamo trovati, invece, di fronte all’impossibilità di fare gruppo, con una richiesta crescente di bisogni specifici (e un moltiplicarsi di centralini di ascolto individualizzati, che solo in rari casi hanno riscosso successo), abbiamo assistito alla destabilizzazione dei tempi e all’invasione degli stessi, senza tenere conto che ciò per alcuni è una salvezza (penso ad una mia paziente che vive in un monolocale da sola, senza balconi e che per due mesi non ha incontrato nessuno: per lei gli impegni lavorativi continui e mai interrotti da remoto sono stati una salvezza) e per altri una fonte di ansia e grave disagio (una signora in terapia da remoto osservava: “Guardo la TV e vedo queste immagini romantiche in cui le famiglie stanno insieme, fanno la pasta e fanno yoga. Io invece mi alzo alle 6 inizio a lavorare, perché grazie al cielo non ho mai smesso. Poi devo interrompermi per lasciare il computer a mio figlio, vado in bagno a telefonare al mio capo per non far sentire mio figlio di 3 anni che piange e che ho messo davanti alla TV da almeno 3 ore e mi sento inadeguata, ma non so come altro fare”).
Il coinvolgimento di tutti, inoltre, è passato attraverso il non-fare, rimanere chiusi e proseguire con le attività possibili da casa.
Non mi soffermo qui sui disagi legati al lavoro di medici ed infermieri e al dolore per i lutti sospesi, poiché meritano trattazione specifica.
Questa condizione ci pone delle sfide nuove, da affrontare con strumenti e riflessioni altrettanto nuove che tengano conto della complessità.
Che fine hanno fatto le famiglie e i bambini?
Nella ripresa di cui tutti oggi parliamo, stiamo realmente tenendo conto della complessità?
Se la tutela della salute è stata la marca di contesto del picco della pandemia (durato, in termini di comunicazione, un mese), nella fase di ripresa (e nella preparazione della stessa) ciò che ha assunto il ruolo centrale, in funzione al quale far ruotare tutti gli altri sistemi, è l’economia. Lo si può notare prendendo le prime tre parole di ogni testata giornalistica o di ogni edizione dei telegiornali.
La salute passa in secondo piano, diventa centrale non perdere ulteriori soldi, tutelare la ripresa del lavoro di tutti e compare la ricerca di un capro espiatorio, un responsabile accusato di scelte sbagliate (fortemente dettate da pressioni macro-sistemiche).
Ma che fine hanno fatto i bambini? Una delle prime lezioni in psicologia dell’emergenza insegna che se si vuole agire con un sistema sociale ampio è importante partire dai bambini. Ciò per molteplici motivi: essi rientrano tra le fasce deboli da tutelare, rappresentano le opportunità future di crescita, hanno in sé potenziali di resilienza in grado di innescare processi evolutivi propri e nei sistemi di adulti con cui sono in relazione, soprattutto, però, essi rappresentano una porta d’accesso al sistema più ampio: lavorando con 20 bambini si intercettano potenzialmente 40 genitori e, se si è fortunati, tra 50 e 80 anziani (Sbattella, Tettamanzi, Iacchetti, 2005; Tettamanzi, Sbattella, 2011).
Famiglie e bambini sono spariti dalla scena, o meglio non sono mai comparsi in quanto protagonisti di una emergenza globale, perché messi subito in panchina e poi lasciati lì. Ciò però porta a dimenticare che almeno la metà dei lavoratori che sono chiamati a riprendere le attività (ma che in realtà non hanno mai smesso di lavorare) sono proprio i genitori di quei bambini messi fuori dalla scena primaria.
Non intende essere una critica, ma una riflessione che ci porti a comprendere che un lavoro di attenta riapertura, per tornare ad una crescita economica non può prescindere dal tenere conto delle interconnessioni dei sistemi, dalle complessità fin qui esposte e, nello specifico, dal fatto che solo quando i bambini hanno contesti di crescita sicuri e strutturati, le famiglie possono dedicarsi al lavoro e contribuire ad una crescita economica e, magari, anche ad una crescita demografica. In questo condizione in cui la generazione dei nonni è stata decimata, i sistemi educativi fortemente in crisi e le famiglie messe in ginocchio, ce la si può cavare meglio se non si hanno figli!
Provo a mettere in evidenza i passaggi:
- per far fronte all’emergenza chiudono tutte le scuole e parte la formazione a distanza;
- i bambini vanno dai nonni, per chi li ha; per gli altri viene data una risposta economica: il bonus baby sitter (non viene affrontato, però, il problema di come trovare una baby sitter a tempo pieno in epoca di pandemia e che garantisca la sicurezza di tutti);
- parte il lockdown e tutti rimangono a casa; ciò non significa non lavorare, ma per molti, fortunatamente, il lavoro è continuato e aumentato, con le fatiche del far coincidere lavoro, famiglia e scuola. Da qui iniziano le giornate infinite dei genitori lavoratori a casa, con i conseguenti crolli registrati in psicoterapia di genitori esasperati, perché incapaci di lavorare bene e impossibilitati a seguire i bambini sempre presenti, pur nella gioia di condividere il tempo con loro;
- gli anziani vengono messi a casa e viene data la comunicazione che tutti coloro che hanno più di 60/65 anni devono rimanere isolati per un tempo prolungato, perché soggetti a rischio;
- in tempo breve si avvia la riapertura per ridurre i danni economici (ricordiamo che molti non si sono mai fermati, lavorando da casa): il lavoro riparte in modo generalizzato anche per chi non poteva lavorare da casa;
- riaprono bar, piscine, palestre, ristoranti, parrucchiere, estetiste; etc.
- per gli anziani, non viene detto, ma dovrebbe rimanere valida l’indicazione dell’isolamento;
- le scuole rimangono chiuse e si potenzia la formazione a distanza;
- ma se i genitori sono al lavoro, le scuole chiuse, i nonni a casa, dove sono rimasti i bambini? Non ci occupiamo qui di tutto il problema dei disabili e del disagio psico-sociale;
- ancora viene data una risposta economica, ma non progettuale: si incrementa il bonus baby sitter;
- in realtà la maggior parte dei bambini è collocato dai nonni (dove diventano potenziali vettori) o chi può si organizza stando a casa ma co-creando una situazione di micro-cosmo entro il quale il crollo psichico di uno o più componenti è sempre dietro l’angolo;
- in procinto dell’estate viene, infine, comunicato che i bambini potranno andare al centro estivo, mentre è ancora incerta la riapertura a tempo pieno delle scuole a settembre. Anche in questo caso si propone alle famiglie un bonus economico (mentre mancano i finanziamenti per far partire attività a favore di minori e nell’area del disagio che abbiano oltre alla funzione di “collocamento” la possibilità di fare la differenza che crea una differenza).
L’analisi svolta evidenzia come e dove il sistema si incastra e fatica a trovare soluzioni creative. La dimensione economica è centrale e per tutti il lavoro è una condizione essenziale; ma anche l’economia può fare la differenza se usata in modo creativo, evitando i paradossi ed evidenziando che mentre molti settori sono effettivamente in crisi, per altri si sta registrando una crescita esponenziale: i negozi di quartiere hanno avuto una nuova rinascita purtroppo solo temporanea, il trasporto di merci e i negozi di cicli e motocicli hanno registrato un record di vendite, i servizi di telecomunicazione hanno avuto bisogno di nuovo personale, le aziende (e possiamo considerare come tali anche le famiglie) hanno scoperto che con lo smat working si risparmia una grande quantità di denaro.
Creatività e visione sistemica per co-evolvere verso un nuovo equilibrio
Le emergenze mettono in crisi un sistema evidenziandone le criticità, rompendo l’equilibrio esistente e aprono a delle opportunità che spesso non siamo pronti a cogliere.
Tutti i sistemi in emergenza tendono a tornare all’equilibrio precedente, pur avendo colto che aveva delle anomalie, che in un certo senso ha portato alla rottura.
La seconda cibernetica ci insegna che i sistemi possono evolvere e non tornare indietro. Il Covid-19 ha mostrato i limiti ma anche le possibilità a cui prima non riuscivamo a pensare. Eravamo in un sistema in fuga, fatto di paradossi: la ripartenza deve realmente tornare a rimettere in piedi quel sistema?
Kauffman (1993; 1995) diceva che la creatività sta ai margini del caos. Ma è importante lasciare che il caos produca i suoi effetti per poi giungere ad un nuovo ordine, parlando con le persone si coglie chiaramente la consapevolezza che il funzionamento precedente non era soddisfacente. Si guadagnava tanto ma con una continua dispersione di risorse. Eppure poi ci si sente pressati a tornare come eravamo prima e molti sperano che ciò non accada. Come resistere a tale pressione e come promuovere la preservazione della ricerca di un nuovo equilibrio?
Per far emergere il nuovo è indispensabile prendere dei rischi. Non possiamo creare un nuovo equilibrio in modo deterministico, ma neppure attendere di capire come sarà la situazione per attrezzarci alla ripresa.
Ci sono delle azioni e delle scelte che, tuttavia, possiamo operare:
- prepararci allo scenario peggiore, come insegnano gli esperti in emergenza;
- individuare 5 vincoli posti dalla situazione;
- scegliere 5 parametri di continuità con il passato;
- promuovere 5 strumenti di azione in differenti ambiti;
- tenere conto delle interconnessioni e fare scelte complesse (mai a partire da un solo parametro)
- lasciare che il sistema trovi un nuovo adattamento al contesto senza forzarlo.
Quali vantaggi e quali opportunità contiene in sé la crisi? Quali occasioni rischiamo di non cogliere se scappiamo nel passato (Ceruti, 1986)?
Solo la focalizzazione su queste opportunità e la fiducia nei processi evolutivi può promuovere l’attivazione di processi auto-poetici verso una nuova organizzazione vitale.
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