A cura di Gianluca Ganda e Walter Troielli
Due parti di un unicum
di Enrico Cazzaniga
Dal punto di vista dell’apprendimento e della relazione che ho avuto non c’è, per me, nella memoria Gianfranco Cecchin, ma Boscolo-Cecchin, due nomi strettamente embricati da suonare come se fosse un unicum formato da due parti. Non riesco a separare l’uno dall’altro, posso tentare qualche distinzione dedicando, in questa particolare occasione, lo spazio a Gianfranco.
Uno dei tanti insegnamenti che ho fatto mio è l’idea che le idee possono cambiare e che la terapia sia una sorta di delirio che fa pensare ai terapeuti di poter essere di aiuto anche quando certe idee sono dure a morire. La terapia quindi possiamo intenderla come un dispositivo relazionale dove si sperimentano nuovi accoppiamenti idee-emozioni stando a vedere l’effetto che fa.
Quando osservavo Gianfranco, comprese le volte che sono stato al suo fianco in terapia, ho intuito come l’irriverenza avesse tra i suoi migliori effetti l’ironia che accompagnata alla curiosità genuina e onesta che sosteneva le sue domande, faceva percepire il rispetto che ogni terapeuta deve avere verso le molteplici forme di vita altrui.
Un medico dal cuore grande
di Fabio Sbattella
Molti ricordano Gianfranco per la sua voce speciale. Una parlata veloce e modulata, in cui si mescolavano accento veneto e inflessioni di un inglese statunitense. Anche io lo ricordo con questa voce speciale, nelle lunghe conversazioni al Centro, dopo le terapie, o seduti all’aperto, presso uno dei bar all’italiana che circondano via Leopardi.
Anche il suo sguardo era memorabile. Uno sguardo pungente, rapido, per lo più sorridente. Chi legge solo i suoi scritti forse perde qualcosa di cruciale per comprendere ed imparare l’arte della psicoterapia.
Una relazione che cura e si prende cura non può prescindere dall’impatto emotivo che il corpo del terapeuta ha nell’impostare e sviluppare la relazione stessa.
Così, può essere utile ricordare che Gianfranco non aveva una presenza imponente. Non alto, spesso vestito in modo dimesso e non appariscente, difficilmente avrebbe potuto sembrare minaccioso, nonostante la barba nera e la fama internazionale. Appariva più vicino ai protagonisti del libro segreto di Wil Huygen Rien Poortvliet piuttosto che al “gigante buono” della Ferrero. Le domande impertinenti e spiazzanti, formulate con il suo sorriso ammiccante risultavano sorprendenti e disarmanti nello stesso tempo. Le mani poi, nella conversazione, si muovevano con l’eleganza del pianista (e lui lo era), mosse da una musica e da un ritmo interiore.
C’era però un particolare, del suo essere terapeuta “incorpato”, che pochi conoscono.
Mi sono chiesto a lungo se condividere questa informazione, non evidente né sbandierata. Dopo un confronto con i colleghi, ho pensato, tuttavia che farlo sia importante, per trasmettere una valida biografia.
Un giorno Gianfranco mi rivelò raggiante: “Sai, da molti anni vivevo con una spada di Damocle dentro al petto. Una rara problematica cardiaca mi accompagnava, con una prognosi infausta (che, come medico, avevo capito molto bene). Da un momento all’altro il mio cuore avrebbe potuto fermarsi del tutto, improvvisamente, senza segnali. Questa consapevolezza mi ha dato sempre uno speciale rapporto con il tempo e con le persone.” Continuò: “Però la settimana scorsa tutto questo è finito. Negli Stati Uniti hanno messo a punto una nuova terapia chirurgica speciale e “zac”, in pochi minuti hanno risolto il mio problema”.
Io era sgomento, lui entusiasta: “Una tecnologia innovativa, geniale”, disse. “Ho persino seguito l’intervento in diretta, perché non è stata necessaria neppure l’anestesia locale. E pensare che in Italia mi avrebbero aperto il torace, con scarse garanzie di un risultato positivo”.
Gianfranco era veramente felice.
Brindammo insieme alla vita.