a cura di Ada Piselli e Barbara Trotta
Gli incontri che fanno la differenza: Il mio incontro con Gianfranco Cecchin avvenuto tramite Gregory Bateson
Marta Marzà, allieva III anno, CSTF sede di Palermo
Il mio incontro con l’epistemologia di Gianfranco Cecchin, Luigi Boscolo e in generale con il Milan Approach è avvenuto tramite l’incontro di un altro grande autore, Gregory Bateson.
Bateson ha rappresentato per me l’anello di congiunzione fra una terapia sistemica afferente alla cibernetica di primo ordine, basata sull’assunto che fosse possibile scindere ciò che si osserva da chi lo osserva, accostato a una logica di retroazione negativa, utile a mantenere l’omeostasi del sistema e la sua rigidità, ad una di secondo ordine, in cui veniva introdotto il concetto di retroazione positiva, grazie al quale i sistemi viventi, in particolare quelli umani, siano in grado di evolvere grazie a comportamenti nuovi, dinamici, che aiutino il sistema a superare l’omeostasi.
L’incontro con Bateson mi ha permesso di riflettere su un concetto ampio di sapere, “che è la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoie e le commissioni ed i consigli umani”, di interrogarmi circa i problemi riguardanti la bellezza e quelli riguardanti la differenza. Di analizzare il concetto di “struttura che connette”, che caratterizza tutte le tipologie di incontri che facciamo lungo il nostro percorso di vita e professionale. Sono incontri che quotidianamente facciamo con altri esseri viventi, con idee, sentimenti e pregiudizi, propri ed altrui, che ci invitano giornalmente ad interrogarci circa le differenze legate alle informazioni o all’interpretazione più generale del mondo. Bateson ci dice che “il contesto è la matrice dei significati, e che i contesti non siano altro che categorie della mente”, ossia che nessun fatto possa essere spiegato prescindendo dall’intreccio delle circostanze entro il quale tale effetto emerge e si verifica. Grazie a questo autore ho riflettuto a fondo sul termine circolarità, che in una logica sistemica rappresenta la regola e non l’eccezione. Risulta necessario, pertanto, distinguere un processo causale circolare, da una logica lineale. E soffermarci anche sulla differenza che Bateson evidenzia tra logica lineare, appartenente al linguaggio matematico che qualifica quelle relazioni che sono rappresentate da una retta, l’una in funzione dell’altra in coordinate cartesiane ortogonali e lineale, che invece, descrive una serie di cause o azioni. Si dice che abbiano una relazione lineale, se la successione, non torna mai al punto di partenza.
L’autore sostiene che si possa parlare di logica lineale, nell’uso del linguaggio comune, quando si parla di sequenze logiche e di sequenze causali, caratterizzate dalla relazione “se…. allora”. In un processo causale circolare, invece, un dato elemento è causa di una modificazione su un altro elemento, il quale a sua volta, diviene causa dell’effetto sull’elemento che lo segue e così via, in una sequenza circolare senza soluzione di continuità. Questo comporta il fatto che in un determinato momento, l’effetto che si è generato dall’interazione del sistema, si andrà a ripercuotere sull’elemento iniziale che aveva dato originariamente l’avvio ad una serie di modificazioni successive. È questo il caso in cui ogni elemento del sistema rappresenta al tempo stesso sia la causa che l’effetto in una circolarità in cui diviene impossibile delineare il punto di partenza, una volta avviato il circuito.
Non è stato semplice e forse non lo è tuttora, nella mia esperienza personale, essere passata da una logica di cibernetica di primo ordine, seguendo il Centro Studi Cancrini di Roma, a una logica di cibernetica di secondo ordine ideata dal Milan Approach. Assemblare e aprire lo sguardo alla costruzione di un processo ipotetico, all’entrare in stanza di terapia avendo “più ipotesi e storie possibili”, a co-costruire insieme alla famiglia i processi e le ipotesi possibili, financo allo svelamento delle ipotesi del terapeuta ai clienti. Tutto ciò ha rappresentato per me una chiave di volta sostanziale dell’entrare in stanza di terapia, di costruire insieme alla famiglia le ipotesi maggiormente plausibili ed accreditate dal sistema stesso. Prima di incontrare Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo, avevo in mente l’idea di un terapeuta quasi sempre in posizione “bottom up” rispetto alla famiglia, avvertivo l’idea che il terapeuta dovesse mantenere un segreto, svelarsi ma non troppo circa la direzione che si volesse intraprendere in stanza di terapia. Prendere in considerazione l’idea di lavorare e rendere consapevoli i propri pregiudizi circa i sistemi, mi è servito anche a lavorare su me stessa, sul cercare di pormi le giuste domande, ragionare circa i miei pregiudizi, perché questi permettano di ottenere informazioni circa noi stessi e producano differenze.
Aver studiato la costruzione di idee, di ipotesi, di storie possibili, aver preso in considerazione l’idea di non affezionarmi ad un’unica ipotesi possibile, mi ha permesso di aprire un grandangolo rispetto alla terapia sistemica e al dialogo, un dialogo continuo che in prima istanza ho riscontrato come allieva all’interno di un gruppo e che necessita di molteplici feedback ed ipotesi possibili, affinché una determinata situazione possa essere analizzata da più punti di vista ed indossando lenti differenti.
La mia conoscenza dell’epistemologia “cecchiniana”, è avvenuta in prima istanza attraverso gli articoli studiati e il libro “Irriverenza”. L’idea di essere irriverenti nei confronti del proprio approccio è una provocazione, aiuta il terapeuta, e in particolare il giovane terapeuta ad allenarsi a discostarsi dai dogmi teorici, a non seguirli pedissequamente, ma ad averli sempre come punto di riferimento, un po’ come un adolescente, che avverte la necessità di discostarsi dalle figure genitoriali, ma ha bisogno di punti di riferimento saldi, affinché possa formarsi e possa costruire la propria identità e le proprie idee.
Il mio incontro con Gianfranco Cecchin, è avvenuto tramite i suoi scritti, che hanno stabilito anche il mio incontro con i pregiudizi, i miei pregiudizi, che da un lato mi aiutano a semplificare la realtà del mondo e a categorizzarla, ma che possono anche trarmi in inganno, laddove mi soffermi ad interpretare il mondo servendomi unicamente delle mie lenti.
I pregiudizi, secondo Cecchin ed i teorici sistemici, rappresentano una serie di idee, fantasie, verità accettate, presentimenti, preconcetti, modelli, teorie, sentimenti nascosti, stati d’animo. Ogni traccia di un pensiero preesistente che, mediante l’incontro con l’altro, ci aiuti a creare il nostro punto di vista, la semplificazione e la categorizzazione che facciamo del mondo. La mia conoscenza del Milan Approach e di Gianfranco Cecchin, è avvenuta come un processo stocastico. Più in generale il mio arrivo al CSTF, lo rappresenta.
L’inizio della scuola di terapia, per un giovane terapeuta può generare infinite traiettorie possibili. Le varie traiettorie generabili dal processo, non avrebbero avuto di certo tutte la medesima probabilità: avrei potuto abbandonare la precedente scuola e lasciar perdere l’idea di conseguire il titolo di terapeuta, avrei potuto rimanere all’interno della scuola precedente e preservare l’omeostasi del sistema, avrei potuto fermarmi un anno, conseguire altri titoli e poi un giorno riprendere gli studi, o altrimenti, delineare una traiettoria nuova, dinamica, più probabile, che grazie all’incontro con Bateson ed il Centro Siciliano di Terapia della Famiglia è stata tracciata.
Tali incontri, mi hanno fatto credere che tante volte sia possibile introdurre dei correttivi che modifichino il contesto, e quindi la matrice dei significati. Tutto ciò comporta un adattamento e quindi apprendimenti di diverse tipologie.
Incontro Cecchin ogni volta, che in clinica o nel quotidiano, io abbia in mente le parole: “riflessività”, “circolarità”, “pregiudizi”, “irriverenza”.
Irriverenza, pregiudizio e curiosità nel pensiero di Gianfranco Cecchin: Conversazione di due terapeuti in formazione
Gianmarco D’Amico, Epifania Saputo, Allievi III anno, CSTF sede Palermo
Il nostro agire professionale è fondato tutto sull’ipotizzazione che si realizza attraverso il seguente ragionamento di Cecchin: “C’è un’idea, poi un’altra ma mai un’idea finale vera e propria. Uno viene fuori con un’idea che è subito modificata da un altro e poi da un altro ancora. Alla fine ci fermiamo e diciamo che questa è la storia. Ma ci fermiamo solo perché siamo stufi di chiacchierare non perché siamo convinti di aver trovato la verità sulla famiglia”.
Per associare insieme qualche idea su come il pensiero di Gianfranco Cecchin ci abbia ispirato nella nostra riflessione e nella nostra pratica clinica, abbiamo cercato un modo di essere fedeli e infedeli a quel pensiero. D’altra parte pensiamo che se i nostri “mentori” ci hanno affidato un mandato, non è quello di celebrarli o di commemorarli, ma di utilizzarli!
Dunque dovevamo scegliere delle parole chiave che riguardassero Cecchin e che trovassimo rilevanti nel nostro lavoro: senza pensarci troppo, ci è venuto subito in mente “irriverenza, pregiudizio e curiosità”, collegandoli a una discussione tra due terapeuti che riflettono sull’analisi di un caso.
Dal diario clinico: Lucia, 32 anni, terzo colloquio. L’incontro inizia chiedendo come fosse andata la settimana e si sente subito la sua preoccupazione per il cane perché ha un tumore; inoltre la zia materna Francesca, 78 anni, sta male ed è stata ricoverata all’ospedale, pertanto la festa del nipote di un anno “non aveva senso farla”. Chiedo qual è la sua idea di morte e di dolore, lei descrive ciò come se stesse implodendo qualcosa che viene da dentro, creando una voragine. Nella sua vita ha affrontato tante volte il dolore, dapprima descrivendolo come qualcosa da reprimere e da accettare, successivamente cancellandolo; “questa voragine può essere riempita con amore e nuovi stimoli” riferisce Lucia. Inizio a creare insieme il suo genogramma familiare e lavoro solo sulla sua famiglia nucleare. Con molta difficoltà mi parla del fratello con il quale non ha più nessun rapporto da 4 anni per ciò che ha fatto (frode e ha rubato i gioielli di famiglia). Successivamente mi racconta di ciò che le è successo da piccola, intorno ai 3-4 anni: molestie sessuali durate per 3 anni da parte dello zio materno, ormai deceduto. Aveva cancellato questo ricordo ma le è riaffiorato tramite una connessione affettiva individuata nella narrazione familiare.
Gianmarco: per avere un’idea di irriverenza, occorre percorrere tutti gli esempi e i rimandi continui a casi analizzati in seduta durante la nostra formazione in aula, per tracciare una serie di definizioni su questo termine che assume le connotazioni di un concetto epistemologico. L’irriverenza è un atteggiamento mentale, un modo di guardare sé stessi e agli altri ma anche un atteggiamento etico e più corretto dal punto di vista deontologico. Essa si realizza solo dopo la conoscenza del proprio essere terapeuta, ovvero dopo l’acquisizione della consapevolezza che occorre mettersi in gioco, sabotando i modelli e le storie che vincolano le famiglie entro schemi prefissati e ovviamente anche i propri! L’irriverenza è muoversi con la libertà del gioco, che non significa assenza di regole ma essere coscienti che le regole sono provvisorie e relative, cambiano quando e se cambia il gioco: occorre mettere in crisi quegli aspetti di realtà dei pazienti che impediscono loro di cambiare, rifiutando gli aut aut e le contrapposizioni rigide. (Vedi domanda fatta a Lucia sulla sua idea di morte e di dolore).
Irriverente è un terapeuta che non si lascia confinare in una posizione limitata a un solo livello logico…
Stefania: Quindi quali obiettivi si pone il tuo intervento?
Gianmarco: L’intervento si propone di smantellare le mie “certezze”; è un processo autoriflessivo che a volte mi porta da una posizione di stallo, causata dalle mie convinzioni, a riacquistare elasticità e libertà di movimento.
L’irriverenza è poi non preoccuparsi di sapere che cosa effettivamente produce il cambiamento, ma l’interesse è solo al processo di cambiamento che si produce in concreto.
Ok ci siamo fin qui, e il pregiudizio?
Stefania: Il pregiudizio è un giudizio dato prima di una analisi definitiva ed in questo caso clinico il comprendere è determinato dai pregiudizi. Il conoscere è un riconoscere più che un pensare. Il problema è allora distinguere i pregiudizi e metterli in gioco nella dialettica del processo di co-costruzione dell’ipotesi. I miei pregiudizi sono da intendere, sempre dentro questa interazione sociale, come ciò che si attiva in me rispetto alle manifestazioni di emozioni, pensieri, comportamenti da parte di Lucia. Ti ricordi che per Cecchin, esistono pregiudizi legati all’autonomia, intesa come valore (e dunque dotata di connotazione positiva), altri relativi alla normalità (in cui si sconfina in un modello moralistico), altri legati al cambiamento (anche in questo caso vale la connotazione positiva)?
Gianmarco: Penso che bisogna assumersi la responsabilità dei propri pregiudizi: si pensa sempre a come gli altri dovrebbero comportarsi senza concentrarsi sui possibili sviluppi relativamente a ciò che sembra funzionare nel presente. Prima di agire bisognerebbe essere responsabili e consapevoli dei propri pregiudizi e capire come essi influenzino la relazione con il nostro paziente.
Stefania: Nel caso di Lucia hai sentito curiosità per qualche aspetto specifico?
Gianmarco: Nel momento in cui sento parlare di “implosione che viene da dentro e di voragine”, diventare curioso mi offre un’altra lente attraverso la quale guardare la sua storia, senza essere troppo invadente per il suo dolore. La curiosità mi porta a sperimentare e inventare punti di vista e mosse alternative che generano in me, a loro volta, altra curiosità.
I concetti di pregiudizio, curiosità e irriverenza hanno lo stesso significato nella vita e in terapia: è importante essere rispettosi degli altri, delle loro idee, essere disposti a cambiare il proprio punto di vista, a modificare i propri atteggiamenti, essere irriverenti quando necessario e mettersi in gioco.
Questo è ciò che ci ha lasciato Gianfranco Cecchin e cerchiamo di rendere vive queste idee ogni giorno nella nostra pratica clnica
Luca Azzolin, Martina D’Ambrosio, Alessandra Dussin, Sonia Montemurro, Davide Pedrotta, allievi II anno, Cptf sede di Padova
Non è semplice descrivere in poche righe il pensiero di Gianfranco Cecchin, soprattutto per gli allievi che non hanno avuto la fortuna di conoscerlo in prima persona. Si è, quindi, provato a pensare a Cecchin partendo dai racconti di chi l’ha conosciuto come didatta e terapeuta, oltre che dai suoi scritti e dalle interviste, costruendo un’idea di come viene “visto” e degli insegnamenti che ha lasciato in differenti ambiti: come essere umano, l’idea di Sé come terapeuti, come terapeuta in relazione con i clienti, come terapeuta nelle istituzioni, e come terapeuta nel lavoro d’équipe.
La prima sensazione è che dietro il terapeuta Gianfranco Cecchin ci fosse un uomo che attraverso uno sguardo essenziale e concreto riuscisse a vedere il mondo e l’essere umano da un punto vista mai scontato, tenendo sempre in considerazione la complessità del sistema e di tutti i suoi elementi. Cecchin sosteneva “la lettura che fai del mondo dipende dalla tua storia”, allora viene naturale chiedersi che storia abbia avuto per sviluppare quel suo modo di vedere il mondo e quella capacità di essere sempre in ascolto attento? Amici, colleghi e familiari testimoniano, infatti, la sua capacità di ascoltare attentamente gli altri e di apparire sempre curioso nei confronti dell’altro. “Io ti vedo” sembra esemplificare la natura di Cecchin, il suo modo di stare in relazione con tutti, non solo con i pazienti. Se è vero che l’essere umano esiste in relazione a qualcun altro e che il bisogno fondamentale sia quello di essere riconosciuti, possiamo dire che Cecchin adempiva a questo compito sul piano umano e personale prima che sul piano clinico. Per lo stesso motivo, crediamo che Cecchin non amasse le relazioni esclusive o privilegiate, cosa che lo rendeva da un certo punto di vista irraggiungibile, quasi mitologico, come se fosse l’uomo/terapeuta di tutti e di nessuno. Oggi ci direbbe: “voi avete tutti una testa diversa, uno rispetto all’altro e se vi mettiamo insieme non è perché cominciate a leggere il mondo tutti in modo uguale: essere in gruppo serve per diventare coscienti che ciascuno ha un modo originale di vedere la realtà, e non lo sai neanche”.
Alcuni suoi allievi ricordano quando, dopo una seduta, lasciava la famiglia per confrontarsi con loro e ascoltava tutti, nessuno escluso, e quando rientrava alla famiglia cuciva un intervento che ri-comprendeva davvero tutti, ma proprio tutti, i punti di vista che aveva ascoltato. E aveva questo talento nel trasformare in oro tutti gli spunti che raccoglieva, era realmente interessato anche a quello che diceva l’allievo più disorientato.
Veniva naturale a Cecchin credere nelle potenzialità del sistema per cui era più rilevante l’aspetto positivo associato alle risorse di quel sistema, che i mille aspetti connotati negativamente e dolorosi.
Questo amore per il suo lavoro, il riconoscere l’originalità e l’individualità di ciascuno in quanto tale che posizione lo portava ad assumere verso i suoi clienti? È bene innanzitutto ricordare la sua visione relativa all’uomo post-moderno, un uomo cioè capace di adattarsi a contesti diversi grazie a un suo sé molteplice con un gran numero di risorse per fronteggiare la società “moderna”. Cecchin, si sottrae dall’idea di terapeuta “esperto”. Nel libro intitolato Verità e pregiudizi, scritto con Lane e Ray, sostiene che il primo punto e atteggiamento verso il pregiudizio riguarda il guardare il paziente come una persona che esiste, senza disapprovazione. Quindi il terapeuta si pone con un atteggiamento di curiosità. L’entusiasmo di affrontare le storie del paziente e di riscriverne la trama, mantiene viva la curiosità. Si allontana dall’idea di cercare la migliore spiegazione rispetto al problema. Accanto alla curiosità, si situa il concetto di neutralità. L’essere curiosi permette di agire in maniera non direttiva. Quando siamo curiosi in terapia, riusciamo a perturbare il sistema con cui siamo in interazione.
Affinché il terapeuta riesca ad assumere un atteggiamento di curiosità e neutralità deve effettuare un lavoro sul proprio Sé. Questa idea ci viene fornita ancora dalla trattazione in Verità e pregiudizi, dove Cecchin ci invita ad essere coscienti della nostra narrazione, poiché è da questa che prende forma il nostro modo di essere terapeuti. Le idee, le fantasie, le nozioni, le ipotesi, i sentimenti, gli stati d’animo, le convinzioni e le esperienze vissute ci portano a indossare delle lenti attraverso le quali leggiamo il mondo e ci interfacciamo con esso. In ambito terapeutico, nello specifico, la storia personale del terapeuta veicolerà l’operato con il sistema. Cecchin ci fa comprendere che ci sono molti modi che inducono a scegliere di diventare terapeuti. Due esempi riportati (probabilmente alla maggior parte di noi molto vicini) sono il terapeuta “Ferito” e il terapeuta “Missionario”. Il primo avrebbe vissuto una serie di mancanze e trascuratezze nella propria famiglia di origine che lo porterebbero a voler supplire queste esperienze aiutando gli altri sistemi a non ritrovarsi nella stessa situazione, sarebbe mosso da pregiudizi quali il dover dare calore e comprensione. Il secondo, partirebbe da una visione del proprio sistema d’origine come una famiglia sana con valori e tradizioni saldi e il pregiudizio risiederebbe nel pensare che gli altri sistemi desiderino apprendere ciò che egli ha da offrire perché sarebbe la via migliore. Si può quindi diventare dei santoni pensando di sapere ciò che è meglio per l’altro, oppure dare un’esperienza d’amore correttiva. Modalità differenti che sono accomunate dalla convinzione di sapere già come modellare le conversazioni e l’intera terapia secondo i propri desideri. Secondo Cecchin non riconoscere questa modalità di operare, significa ignorare la propria umanità. Prima di accostarsi alla terapia, pensando di correggere il sintomo, è fondamentale essere consapevoli e responsabili dei propri preconcetti perché questi potrebbero attivare un processo di escalation oppure mantenere imperturbato il sistema.
Un ambito in cui Cecchin invita ad essere tenace come terapeuta sistemico riguarda la possibilità di rimanere flessibili in un’istituzione. Una possibile strada è cercare di mantenere aperto un dialogo tra i membri del sistema lavorativo cercando di capirne i punti di vista. Tuttavia, come Cecchin riporta nei suoi scritti, spesso le istituzioni sono degli ambienti molto complessi e la maggior parte delle istituzioni (es., ospedali, strutture socio-sanitarie, scuole) spesso si fanno promotori del concetto di “stabilità”, appoggiando i valori culturali dominanti. Purtroppo, insieme ai valori culturali dominanti, esistono una varietà di significati e valori che non sempre riescono ad armonizzarsi tra loro. L’irriverenza aiuta a mantenere un certo livello di flessibilità e di libertà, in un contesto che spesso ha come obiettivo il mantenimento del ruolo/status di controllo sociale. Il terapista irriverente non è un terapista “rivoluzionario a tutti i costi”/sempre e solo dalla parte del cliente. Il terapista irriverente, nonostante sia sottoposto a molte richieste in contraddizione tra loro (da parte dei clienti, dell’amministrazione, delle forze politiche, sociali, e giudiziarie) riesce a sopravvivere grazie alla consapevolezza di non poter soddisfare sempre tutti. Il terapista così non chiede al sistema istituzionale di cambiare, ma tenta di adattarsi quanto più possibile all’interno dello stesso, facendo uso della propria flessibilità di pensiero e di azione. Potrebbe verificarsi ad esempio il caso in cui non si potrà aiutare un cliente perché il farlo minaccerebbe la stabilità dell’istituzione. Vi potranno inoltre essere casi di pazienti che hanno abbracciato la carriera del malato mentale per scelta propria, o della famiglia, o della comunità di cui sono parte: questi pazienti professionisti rifiutano di cambiare o non possono farlo e sono incapaci di lasciare l’istituzione. In questi casi, il paziente si vede alleato con l’istituzione e quello che rimane da fare come terapeuti è cercare di sopravvivere in questo contesto (anche al punto di allontanarsi da esso). Un terapeuta deve sopravvivere se vuole avere la possibilità di aiutare qualcuno. Un esempio utile è quello dei figli i cui genitori rivolgono loro richieste contraddittorie: “Papà vuole una cosa e mamma vuole la cosa opposta”; se il figlio riesce a essere irriverente anche di poco verso entrambi i genitori, può mantenere la sua parte di figlio ed essere libero. Quindi, all’interno delle istituzioni, l’irriverenza nel pensiero di Gianfranco Cecchin rappresenta la capacità di saper rispettare le regole, senza però divenire dei burattini al mero servizio della burocrazia, con un pensiero critico, mantenendosi flessibili e possibilmente liberi da doppi legami di natura istituzionale.
Concludiamo il nostro elaborato con importanti spunti a proposito del lavoro di équipe.
Cecchin, attraverso i suoi scritti, ci ha trasmesso idee significative su come un terapeuta sistemico possa interfacciarsi all’interno di un’équipe di lavoro. Un accenno a tali idee può essere rintracciato nell’articolo Il problema della diagnosi da un punto di vista sistemico, scritto insieme a Luigi Boscolo. In tale articolo, gli autori considerano il ruolo degli operatori della salute mentale attraverso il punto di vista sistemico, introducendo la seconda cibernetica.
Cecchin ha sempre valorizzato l’autoriflessione del terapeuta, con i suoi pregiudizi, e le competenze del paziente designato all’interno del suo sistema. Sempre tra le righe dello stesso articolo, si può ricavare qualche pensiero utile per rifiutare l’idea secondo cui i comportamenti di un cliente siano legati alla malattia mentale, mettendosi nella posizione secondo cui i comportamenti dipendono dalle relazioni. Un sistema tenta spesso di mantenere la propria omeostasi, nell’azione su tutti i membri, compresa l’équipe di lavoro che ha in carico il sistema. Questa omeostasi però prevede una sola realtà: quella in cui un individuo è considerato come malato. La soluzione spesso risiede nello sviluppare nuove mappe, alternative. Infine, le ipotesi permettono di catalizzare nuove idee e soluzioni introducendo la temporalità e la reversibilità dei processi. Le ipotesi, inoltre, condivise con il sistema, équipe compresa, dovrebbero prevedere nuovi possibili modi di organizzare la realtà, in modo da vedere il sintomo del paziente designato in relazione alle sue relazioni.
Attribuire un significato al pregiudizio, alla neutralità e alla curiosità, all’importanza del lavoro di gruppo, all’importanza della responsabilità individuale, ci lascia in eredità un bagaglio importante dal pensiero di Gianfranco Cecchin, e del suo sentirsi “artigiano”, come lui spesso raccontava.
Cecchin in azione: L’ascolto, la curiosità, la creatività
Morena Cambri, Giovanna Goi, Elena Karliampa, tirocinanti postlaurea, CMTF sede di Milano; Margherita Luciani, Chiara Negrello, Giada Quaroni, allievi I° anno, CMTF sede di Milano; Gloria Bonacci, Claudia Bonanomi, Alberto Brich, Marta Burelli, Giada Cola, Davide Cornaggia, Carolina Ficai Veltroni, Samantha Imbriano, Elisabetta Maier, Samantha Marchetti, Letizia Medina, Sara Minotti, Marta Papini, Divina Regina, Simona Rendine, Valentina Salvi, allievi II° Anno, CMTF sede di Milano
Queste riflessioni sono nate all’interno dell’esperienza del Laboratorio Clinico del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, spazio in cui abbiamo avuto l’occasione di vedere tre tape di Gianfranco Cecchin. La conversazione è nata da un confronto tra noi allievi, a partire dalla nostra esperienza di formazione.
Lo spazio del Laboratorio è in genere dedicato alla clinica. Gli allievi di terzo e quarto anno entrano in seduta mentre gli altri osservano da dietro lo specchio e partecipano alla discussione. Come per ogni terapia vista al Centro Milanese, nasce un’esperienza di confronto e di sorpresa. Le venti persone dietro lo specchio sono impegnate a scambiarsi opinioni e punti di vista, con un dialogo che non assume mai toni di competizione. Quando ci è stata fatto notare questo particolare alcuni di noi sono subito risalite alla “curiosità” e al “rispetto”, due aspetti della epistemologia di Cecchin. Per qualcuno, come per chi si trova a fare i primi passi nel mondo sistemico, sono idee nuove. Per chi è già più avanti nel percorso, sono un atteggiamento concreto da assumere. Lo ritroviamo poi nei didatti, come una tendenza spontanea a vedere il mondo.
Dietro lo specchio ognuno dice cosa gli sembra di aver visto e comunica anche cosa ha vissuto, in risposta agli stimoli provenienti dalla interazione che il terapeuta ha con il sistema. Facciamo l’esperienza di tante descrizioni e della possibilità che convivano insieme. Ne risultiamo stimolati a cercare altri modi di raccontare cosa abbiamo visto. Nello stesso tempo ci rendiamo conto che riusciamo a dire solo ciò che è connesso alle nostre esperienze di vita. Certo, la tecnica dell’ipotizzazione non è una pratica tanto facile e immediata da assimilare, ci vuole tempo per unire un insieme di dati che sembra infinito, allo stesso modo in cui è vasta la storia di una famiglia. Ci vuole delicatezza per non dire subito che quel padre o quella madre sono sbagliati, perché è più utile ed efficace arrivare ad altre descrizioni: chi ha più esperienza di noi ci ha fatto notare che questa attenzione è una caratteristica identitaria del Milan Approach, una parte del modo di fare terapia di via Leopardi.
Quando abbiamo visto i tape dei maestri ci ha colpito sapere che sia Boscolo sia Cecchin, sarebbero venuti dietro lo specchio e avrebbero ascoltato con attenzione le nostre considerazioni, con una disponibilità e umiltà che ci hanno colpito.
Ci hanno raccontato che Cecchin era molto abile nel creare conversazioni interessanti e vivaci attorno a quanto succedeva in seduta. Discussioni piene di ironia e divertimento. Le nostre non sono sempre così. Ci hanno chiesto se il clima emotivo che Cecchin faceva nascere era dovuto solo al suo stile o ci fosse un motivo. Ci è stata data un’ipotesi: l’ironia fa uscire dalla tragedia e mostra che quello che sembra statico, immodificabile e drammatico può risultare pieno di possibilità.
Moltiplicazione delle descrizioni, curiosità e legittimità dei punti di vista, umiltà, possibilità di trovare un punto di vista nuovo che permette di immaginare una nuova evoluzione delle dinamiche di una famiglia. Abbiamo ritrovato tutti questi elementi nelle sedute che abbiamo visto.
Una seduta era dedicata a una famiglia con tre figlie e una “era” anoressica. Poche parole dette da tutti e Cecchin chiede alla ragazza con chi fosse più arrabbiata. Ci è stato fatto notare che poche volte Cecchin parlava di emozioni ma chiedeva alle persone chi si sentisse in un certo modo. Lui invece, durante l’incontro, sembra imperturbabile. Rimane il dubbio che anche lui provasse le emozioni che cercava di cogliere nei familiari. Negli incontri che abbiamo visto non tutte le persone si riconoscono tra di loro: una figlia si rivolge con freddezza alla madre mentre le sorelle le danno contro. Invece Cecchin sembra voler riconoscere tutti. Non si limita a essere neutrale o equidistante.
Abbiamo visto due incontri con una famiglia. Nel primo c’era una ragazza che non parlava. Poi abbiamo scoperto che era Sonya, la ragazza descritta in Irriverenza. Anche qui Cecchin sembra imperturbabile, sembra cercare dei temi di discussione per staccarsi da quello che portano i genitori. Il padre si accusa, la madre dice che non si spiega perché la “ragazza” si comporti così”. Lui è molto abile a tenere aperta la conversazione, dice “siamo qui per farci un’idea di come funziona la comunicazione nella famiglia, per conoscervi meglio”. È molto abile nell’includere la ragazza nel processo, seppure lei non parli. Il nostro gruppo di osservazione è stato molto colpito dall’incontro. Ci siamo stupiti che non sia mai emersa alcuna possibile interpretazione del motivo per cui la ragazza non parla. Cecchin invece preferisce fare domande e affermazioni su altri temi: il rapporto tra i fratelli, con chi andava più d’accordo, come ha vissuto le sue prime esperienze di autonomia e come sono state vissute dai genitori. Sembrano elementi scollegati ma acquisiscono senso nel discorso e tornano nella restituzione. Questo ci sembra un buon esempio di quello scopo della terapia che si chiama “costruzione di senso”. Cecchin riesce a cogliere piccoli segnali e metterli in connessione come quando il padre si accusa e la ragazza piange, o come quando entrambi piangono. Il terapeuta, con grande sensibilità e di creatività, collega questi comportamenti per farli diventare qualcosa di più grande: abbiamo visto collegare i due pianti diventano un legame di affetto e un modo per comunicare. Così facendo Cecchin dà corpo all’affermazione di Watzlawick che “è impossibile non comunicare”. Abbiamo ipotizzato che questo messaggio, implicitamente, potesse voler segnalare alla ragazza che “ha la bocca chiusa, gli occhi chiusi” ma comunica comunque. La madre chiama la figlia “la ragazza”: sembra molto fredda con la figlia ma Cecchin non dice alla madre come dovrebbe fare, se si deve comportare in un modo o in un altro. Sembra accettare la madre per come si comporta; anche in questo caso Cecchin sembra voler includere tutti nel dialogo, anche chi non parla. Cecchin fa ripetutamente leva sulla testa pensante delle ragazze in terapia: una che non mangiava, pesava 35 chili, l’altra non parlava.
Sonya ha colpito tutti: ferma, bloccata sulla sedia a rotelle, si lasciava andare solo a qualche pianto, e Cecchin continuava a cercare di coinvolgerla. Ci siamo chiesti perché; nella discussione è emersa l’ipotesi che lui fosse convinto che questa ragazza sentisse e capisse tutto. Forse lo sguardo del clinico esperto, forse una sua fantasia, forse un suo pregiudizio. Lui stesso negli incontri faceva intendere questo: “si tappa la bocca ma non può tapparsi le orecchie”, “non può impedire agli occhi di piangere”. Cecchin tenta con molte idee di dare senso a quello che sta accadendo nella famiglia, senza offrirle come descrizioni definitive. Sembra che si preoccupi di non ingabbiare con interpretazioni limitanti. Anche le restituzioni sono qualcosa di simile: “verrà a casa quando si sentirà pronta, dobbiamo vedere cosa deciderà, sarà lei a decidere, dobbiamo aspettare”. Dà una restituzione che spiazza tutti, la madre si lamenta e lui dice che “è la ragazza che decide quando riprendere a parlare”.
Tra le ipotesi più spiazzanti la trasformazione della catatonia in una scelta: lei vuole proteggersi e, per non tornare a casa, si blocca. Non ci è sembrato che si limitasse a fare una connotazione del suo sintomo ma che volesse dare un senso a tutto. Ci ha colpito che Cecchin non verbalizzasse commenti su nessuno, soprattutto non dava commenti di tipo giudicante o che togliessero valore. Ci ha colpito uno stile che si è mostrato molto rispettoso verso ogni persona, al punto da cercare di mettersi al loro livello.
In queste terapie, ci è sembrato che Cecchin cercasse di incontrare tutte le persone e lasciare loro uno spazio: tutti hanno una esigenza personale. Una ragazza non mangia, all’inizio sembra tutto lì. Poi Cecchin inizia a fare domande e si aprono altri mondi, scenari nuovi. se una ragazza sceglie di non mangiare ci sono altre persone che hanno dei malesseri, dei conflitti o delle esigenze che non riescono a esprimere. E viene fuori che tra la mamma e la zia non corre buon sangue, la ragazza anoressica, prima tanto arrabbiata con la madre, ora sembra essere solo una delle persone arrabbiate della famiglia. La difficoltà non è solo di una persona, se qualcuno sta male la difficoltà è di tutti. Cecchin ha un modo asciutto, non mette molto pathos nei discorsi e nelle domande. Trasforma le emozioni in azioni, con le persone che comunicano agendo. Ma sembra invogliarle a cambiare il loro modo di agire perché le fa parlare tra di loro.
L’incontro in cui Sonya riprende a parlare è spiazzante: semplicemente perché sembra che questa sia un’altra ragazza. Abbiamo fatto l’ipotesi che la restituzione in cui dice che lascia a lei la decisione di parlare e di scegliere il momento in cui andare a casa sia stata molto efficace. Forse però c’è di più, forse è stato l’intero clima della seduta a creare il cambiamento.