Terapia della famiglia: frammenti di storia, tra psicoanalisi e sistemica

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di Massimo Martucci

Genealogia

Per chi voglia indagare nessi, confini, margini, tra psicoanalisi e sistemica, mi pare ci sia innanzitutto un piano storico-fattuale, dove la guida sicura ci è offerta da una lunga tradizione di pensiero – il concetto stesso di contingenza – che in sostanza ci dice: se qualcosa accade, ciò significa che è anche possibile. La prima evidenza di chi inizia a ricostruire un po’ la storia della sistemica, ad esempio riavvolgendo il nastro della storia di incontri, intuizioni, imprese che hanno portato al Milan Approach, è che questo movimento è nato da psicoanalisti, i quali talvolta hanno gettato semi importanti, rompendo indugi e veti della tradizione, come nel caso di Nathan Ackerman; altre volte hanno lasciato coesistere nella propria pratica clinica, almeno per un certo periodo, la psicoanalisi con un nuovo approccio, legato alla terapia della famiglia: qui si cerca di ripercorrere la storia del primo periodo del Centro Milanese di Terapia della Famiglia – quello di Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata – e, in parte, del secondo periodo, con gli sviluppi portati da Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin, con una particolare attenzione al lavoro del primo.

Rassicurati, così, sul fronte storico-genealogico, sul fatto che non indagheremo un dialogo – o forse di più, un’integrazione – impossibile tra psicoanalisi e sistemica, possiamo rilanciare la domanda sul senso di questo dialogo, le implicazioni cliniche, formative, terapeutiche.

Ci porremo poi il problema, naturalmente – e sono gli stessi protagonisti di questa storia ad esserselo posto – di cosa succeda quando si accosta la teoria psicoanalitica con la teoria che nei decenni si è sviluppata attorno all’approccio sistemico: giustapposizione, integrazione, meticciato? Questo è il piano più “teoretico”; ma si potrà percorrere questa riflessione e produzione teorica, ancora una volta guidati dalla saggezza di chi ha realmente inteso il valore della scienza moderna: come ci insegna Galilei, – e ci hanno confermano Lakatos e molta epistemologia del Novecento – teoria ed esperienza si rincorrono, e l’esperienza è sempre “innervata” di teoria. In questo modo l’attività clinica di un terapeuta sistemico non credo possa “sospendere” tutto ciò che la sua storia, la sua formazione e la sua esperienza pregressa gli hanno lasciato nello sguardo; naturalmente ciò non vuol dire che non ci sia tensione e conflitto, come un po’ traspare dalle parole di Boscolo quando ricostruisce quel periodo in cui per metà del suo tempo faceva terapia analitica tradizionale nel suo studio, e per l’altra metà, insieme all’équipe di Selvini Palazzoli, vedeva famiglie. Lo racconta con semplicità: “Dopo mesi di lavoro nei due diversi contesti, operando con due teorie così dissimili e per alcuni versi antitetiche, sia per quanto riguarda la concezione della persona umana e della natura dei problemi presentati, sia per quanto riguarda gli obiettivi del cambiamento e i modi per ottenerlo, era diventato molto difficile lavorare mantenendosi fedele alle premesse teoriche e ai conseguenti dettami tattici di ciascuna delle due teorie” (Boscolo, Bertrando, 1996, p. 4). Qui prevale la consapevolezza di una tensione dialettica, che non va nascosta sotto il tappeto: ma come lo stesso Boscolo discute nella Postfazione a Clinica sistemica (Boscolo, Cecchin, Hoffman, Penn, 2004), il riferimento diventa anzi esplicito, quando egli affronta il tema del purismo teorico: non si possono lasciare risolutamente da parte le influenze che entrano nella storia, nella formazione e nella cultura di un terapeuta.

Il “non detto” del proprio passato

Ho trovato affascinante proprio questo aspetto nel tentativo di ricostruire le fila – o la trama, meglio – della storia del Milan Approach: ho potuto incontrare, purtroppo solo attraverso i loro testi, persone che hanno incarnato nella pratica clinica concreta e – possiamo facilmente immaginare – anche nella loro vita personale, tentativi, dubbi, momenti di intuizione, ipotesi per rilanciare il lavoro, momenti di chiarezza. 

Naturalmente emerge però una questione: se storicamente il nesso tra passato psicoanalitico e scelta sistemica è stato “agito”, prima che teorizzato, nelle figure dei terapeuti che per ragioni di formazione e di storia personale lo hanno incarnato, come si può riproporre oggi la medesima questione nella formazione dei terapeuti, laddove la psicoanalisi compare in modo del tutto saltuario e spesso svalutato nei percorsi di formazione universitaria? Naturalmente la domanda è rilanciata a chi si occupa di formazione dei terapeuti, ma, sempre attraverso una lettura appassionata dei testi, ho trovato questa preoccupazione di nuovo nelle parole di Boscolo che, differentemente da Selvini Palazzoli, ha fatto della formazione dei terapeuti una scelta forte, nonché una delle ragioni della separazione dall’équipe originaria di Selvini.

Il ragionamento è più o meno questo (Boscolo et al., 2004): nei primi anni della scuola di formazione, gli allievi erano psicoanalisti interessati all’approccio sistemico, venivano quindi da una formazione e un’esperienza che offriva loro competenze sul fronte della relazione terapeutica, del mondo emotivo; più recentemente, invece, il passaggio diretto dalla formazione universitaria all’approccio sistemico richiede di “recuperare” uno spessore clinico che prima era il portato della formazione analitica. Seguendo questa logica – che poi è la semplice constatazione di un formatore, che non ha nessuna connotazione valoriale – la psicoanalisi è tratteggiata un po’ come il tronco su cui si innesta – o almeno si è storicamente innestato – l’approccio sistemico. Barbetta (2012) riassume il concetto ricordando che i quattro fondatori della scuola sistemica di Milano erano psicoanalisti, e che “almeno sotto questo profilo, la terapia familiare sistemica è una derivazione psicoanalitica tanto quanto la psicologia analitica junghiana, o altre forme più o meno eretiche come il kleinismo, lo psicodramma o il lacanismo” (p. 69-70).

Dai pionieri al Milan Approach

Come si arriva però, anche sotto il profilo puramente storico, a questa confluenza di una derivazione psicoanalitica da un lato, e interesse per la terapia della famiglia sistemica dall’altro? Un punto di partenza indiscutibile è certamente Nathan Ackerman.

Ackerman era nato nel 1908, nel sud della Russia, da una famiglia ebrea costretta a emigrare negli Stati Uniti nel 1912. Come bene ricostruisce Loriedo (2002), l’infanzia e la giovinezza non trascorsero senza grandi difficoltà: la madre aveva perso tre figli e si occupava dei restanti cinque, tra cui Nathan, il padre, quando lui aveva 13 anni, avviò una farmacia, che poi dovette chiudere per alcuni problemi di salute con conseguenti difficoltà economiche. Anche Nathan non godeva di buona salute, e in più il fratello Harry, dopo il fallimento dell’impresa paterna, manifestò un importante esaurimento nervoso. Nathan si prese cura di lui, è probabilmente uno dei motivi che lo spinsero, dopo la laurea in medicina, a specializzarsi in psichiatria.

Nel 1937 si trova ad essere primario di una Child Guidance Clinic: si tratta di istituzioni che, negli Stati Uniti del primo dopoguerra, si occupano di individuare bambini considerati a rischio dal punto di vista della salute mentale, per prevenire lo sviluppo di psicopatologie nell’età adulta. Il trattamento è individuale, ma ugualmente viene in qualche modo presa in carico l’intera famiglia, ipotizzandone il ruolo patogenetico e considerando il bambino che manifesta la sofferenza come la vittima di un contesto familiare disfunzionale.

Altri in quegli anni si interessano, muovendo dall’insegnamento di Freud, al ruolo delle relazioni familiari, cercando di allargare e sviluppare la riflessione sul triangolo edipico – è ad esempio del 1938 uno dei primi testi fondamentali di Lacan, I complessi familiari (Lacan, 2005). Ciò che però caratterizza il nuovo posizionamento di Ackerman è la scelta di convocare l’intera famiglia in terapia, superando il veto di Freud rispetto all’esclusività della relazione analista-analizzando, che solo rispettando il setting classico può lasciare spazio all’emergere dell’inconscio. Una terza persona nella stanza di terapia comprometterebbe irrimediabilmente il funzionamento dell’analisi a partire dai suoi capisaldi, ad esempio il transfert. Il che rende legittimo ad esempio domandarsi: è possibile il transfert in una terapia della famiglia? Come vedremo, Selvini Palazzoli affronterà, seppur solo accennandola, questa questione, che in ogni caso è presente, sia pur non esplicitamente e in questi termini, già nei testi di Ackerman.

Eppure già Freud aveva in qualche modo incrinato il suo stesso veto: come è noto vide in analisi una coppia, i coniugi James e Alix Strachey, che divennero i suoi traduttori in inglese. C’è poi il celebre caso del piccolo Hans (Freud, 1908), un bambino di cinque anni, figlio di una sua paziente e di un suo allievo, che aveva sviluppato una fobia per gli animali, in particolare i cavalli, in concomitanza con la nascita della sorellina. Freud analizzava il bambino attraverso i resoconti del padre, che trascriveva le proprie conversazioni con il figlio e le riferiva a Freud. Una volta egli incontrò la coppia padre-figlio in seduta. In ogni caso egli vedeva con chiarezza quanto l’ambiente familiare influisse sulla cura: “Comprenderete, inoltre, quanto siano importanti per le prospettive di riuscita di un trattamento l’ambiente sociale e il livello culturale della famiglia dell’ammalato” (Freud, 1916-17, pp. 602). In un’altra circostanza ancora si lasciò andare a una considerazione che potremmo riassumere più o meno così: i parenti dei pazienti nevrotici spesso lavorano contro la cura, il più delle volte avrebbero a loro volta bisogno di cura, ma “ho ben poca fiducia in qualsiasi trattamento individuale di costoro” (Freud, 1912, p. 1707). Si potrebbe provare a seguire il suo ragionamento: se considerati a loro volta nevrotici, perché non dovrebbe funzionare per loro il trattamento che funziona per il paziente? Se invece non li consideriamo pazienti loro stessi, ma pazienti in relazione al paziente “principale” – verrebbe proprio da dire “paziente designato”, con l’espressione di Selvini Palazzoli (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin & Prata, 2003) – allora se il “trattamento individuale” non funziona, potrebbe forse funzionare un trattamento familiare.

È questo il salto del guado che Ackerman ritiene di dover compiere, con una ragguardevole libertà intellettuale che ricorda forse il primo brillare della libertà di coscienza in ambito teoretico, quando Aristotele si congedò intellettualmente dal maestro Platone: amicus Plato, sed magis amica veritas. Similmente Ackerman dice che il miglior modo per onorare Freud, per riconoscergli il merito che ha avuto nell’indicare il ruolo fondamentale delle relazioni tra genitori e figli nello sviluppo del soggetto, è proseguire la sua indagine tenendo conto dei risultati più recenti – posteriori a Freud stesso – delle scienze sociali e dello studio della comunicazione umana, arrivando ad affrontare “i problemi della salute mentale della vita familiare” (Ackerman, 1968, p. 17). Non lo dice in questi termini, ma il concetto sembra proprio: Freud avrebbe fatto così.

Sulla base di questi presupposti Ackerman che, come racconta Lynn Hoffman che lo ha incontrato e ne ha parlato anche nel suo ultimo scritto (Hoffman, 2002), è una persona schietta, brillante, che non bada troppo ai convenevoli, inizia a vedere famiglie, e ad affinare la propria tecnica terapeutica. Nascono diversi scritti, dagli articoli più antichi, come The unity of the family e Constructive and destructive tendencies in children; an experimental study (Ackerman, 1938, citati in Bertrando, Toffanetti, 2000), ai due testi fondamentali, che raccolgono anni di esperienza clinica: Psicodinamica della vita familiare (1968), che si occupa di inquadrare la terapia della famiglia nella prospettiva psicodinamica, e Patologia e terapia della vita familiare (1970), dedicato al processo terapeutico.

Ackerman parte da una constatazione molto semplice, che ha il sapore di quelle ovvietà che preludono a grandi svolte nel progresso dell’umanità, e che ricorda l’entusiasmo, come vedremo, con cui Lynn Hoffman racconta la “scoperta” dello specchio unidirezionale (Hoffman, 1984): “Nei colloqui con la famiglia, un membro rivela quello che l’altro nasconde. I figli buttano fuori quello che i genitori nascondono insieme. Quanto viene espresso da un membro involuto e distorto, viene corretto da un altro membro” (Ackerman 1970, p. 102). Da qui una straordinaria ricchezza di riflessioni e racconti clinici, che si muovono, appunto, tra una solida base teorica e un continuo affinamento della tecnica terapeutica.

Ora, la prefazione all’edizione italiana di Psicodinamica della vita familiare, che in originale era uscito nel 1958, è scritta dieci anni dopo da Mara Selvini Palazzoli, che nel corso degli anni Sessanta ha iniziato ad interessarsi di terapia della famiglia. Abbandonata la medicina interna, si è interessata ai disturbi alimentari, attraverso studi e ricerche che hanno portato nel 1963 alla pubblicazione di L’anoressia mentale (Selvini Palazzoli, 2006). Già nell’esperienza raccolta nella prima edizione, e sempre più negli anni successivi, Selvini Palazzoli si rende conto che, nel seguire pazienti anoressiche, è necessario coinvolgere il resto della famiglia, osservando direttamente le interazioni tra i suoi membri. Mentre matura questo mutamento di prospettiva, nel 1967 compie un viaggio negli Stati Uniti, dove partecipa ad un convegno a Filadelfia, e qui incontra Luigi Boscolo, che è stato in formazione analitica presso Ackerman e Silvano Arieti. Anche Boscolo ha scoperto l’interesse per la psicopatologia, abbandonando il proposito iniziale di seguire una formazione pediatrica. L’anno dopo, nel 1968, Selvini Palazzoli scrive la prefazione citata: sono poche pagine in cui sintetizza la traiettoria seguita fino a quel momento da Ackerman, soffermandosi sul rapporto tra psicoterapia individuale – che evidentemente fa riferimento alla comune formazione psicoanalitica – e psicoterapia familiare, mostrando proprio quella evoluzione “naturale” verso l’apertura alle famiglie, che rappresenta il percorso di Ackerman.

In questi primi passi non sembrano esserci grandi riflessioni di principio sulla compatibilità o meno delle due teorie, e la terapia della famiglia pare piuttosto un approccio terapeutico che nasce dalla teoria psicoanalitica; mi ha colpito molto leggere le poche parole che ricostruiscono la “svolta” di Ackerman sul sito dell’attuale Ackerman Institute di New York: “Although trained as a classical analyst, Dr. Ackerman broke with this approach after World War II when he began to experiment with seeing patients and their families in a group” (Ackerman Institute). Certo è innegabile la rottura con la tradizione, che accomuna tanto Ackerman quanto Selvini Palazzoli, ma nonostante quell’“although”, che sembra alludere ad una sorta di “rinnegamento” della formazione psicoanalitica, leggendo tanto l’uno quanto l’altra, pare piuttosto da sottolineare la diversità di “approccio” che non la contraddizione teorica.

Bisogna allora capire come si arriva da questi primi passi della “sistemica”, all’affermazione con cui Lynn Hoffman racconta la formazione del Gruppo di Milano: “La disputa fra il modello psicoanalitico e il modello familiare sistemico si trasferisce a Milano, dove si esamina seriamente la possibilità che i due modelli siano compatibili. Stabilito che non lo sono, Selvini Palazzoli e colleghi si staccano nel 1971 dal gruppo originario, con l’obiettivo di lavorare esclusivamente nell’ambito del sistema familiare, o meglio in quello che in seguito definiranno l’ambito sistemico” (Hoffman, in Boscolo et al., 2004, pp. 25-26). Da questo momento in effetti, almeno per Selvini Palazzoli, il problema del rapporto con la psicoanalisi non è più messo a tema, almeno esplicitamente, concentrandosi le sue energie su una nuova cornice teorica, che deve moltissimo alla scoperta di Gregory Bateson, e sull’elaborazione di una tecnica terapeutica, la cui sperimentazione porterà a Paradosso e controparadosso (2003). La stessa Lynn Hoffman, che ricostruisce questa storia nella sua ultima opera, Family Therapy: An Intimate History (2002), non ancora disponibile in lingua italiana, inizia a frequentare il gruppo di Milano di via Leopardi, con “pellegrinaggi” periodici, come scrive lei stessa, seguendo dietro lo specchio i terapeuti all’opera e traendo proprio da questa esperienza ispirazione per fondare (chiudendo idealmente il cerchio) all’Ackerman Institute, insieme a Peggy Penn, una nuova équipe ispirata al modello di Milano. Per il gruppo di Selvini inizia una nuova avventura teorica, che sembra davvero segnare una cesura netta con il passato psicoanalitico: Watzlawick è per un periodo consulente dell’équipe, e gli scritti di Gregory Bateson sono la linfa che rilancia con entusiasmo la sperimentazione di quel periodo. Il gruppo legge e rilegge le sue opere, e gli studi sulla comunicazione umana nel loro intreccio con la clinica – in particolare il concetto di double bind, che Bateson aveva elaborato già nel 1956 in Verso una teoria della schizofrenia (Bateson, 2013b). L’analisi della transazione comunicativa familiare, in particolare nella sua dimensione disfunzionale, quando i messaggi si disconfermano, è alla base dei casi clinici presentati e discussi in Paradosso e controparadosso, dove appunto ad una comunicazione paradossale l’équipe cerca di controbattere con una mossa controparadossale, in modo da perturbare quell’equilibrio omeostatico, insano, che i membri della famiglia hanno raggiunto. Nel racconto di questi interventi il lessico si fa “bellico”: “spunto competitivo”, “battaglie di équipe”, “strategie degli avversari”, “giocatori in campo” (Selvini et al., 2003, p. 15).

È un modo di intendere la terapia che prelude alla direzione strategica che sempre più marcatamente distingue Selvini Palazzoli rispetto ad altri membri del gruppo, in particolare Boscolo e Cecchin i quali, infatti, nel 1980 si separano dall’équipe  in cui lavorano con Selvini e Giuliana Prata, assumendo il nome di Associati di Milano e dedicandosi da un lato alla formazione dei futuri terapeuti, dall’altro all’elaborazione di una tecnica terapeutica meno strategica, meno legata all’immagine di come la famiglia “dovrebbe essere” (Boscolo et al., 2004) fondata ad esempio sulle domande circolari, forse uno dei cardini più rilevanti del nuovo approccio (Hoffman, 2002), aperta inoltre a un approccio “curioso” (Cecchin, 1987), “irriverente” (Cecchin, 1993) e che molto assorbe, negli anni successivi, dai contributi teorici della cibernetica di secondo ordine, secondo le riflessioni di Heinz von Foerster, Humberto Maturana e Francisco Varela.

Tuttavia, tornando agli anni della formazione del gruppo di Milano, lo stesso Luigi Boscolo, che è colui nel quale l’ancoraggio all’origine psicoanalitica rimane probabilmente più forte, è entusiasta per gli scritti di Bateson, di cui parla in toni quasi commossi: nel 1972, poco dopo la costituzione del gruppo, esce in originale Verso un’ecologia della mente (Bateson, 2013a), la cui lettura per Boscolo è un’esperienza folgorante, tanto che accosterà la profondità del pensiero di Bateson a quella di Freud, aggiungendo che a Bateson deve la scoperta della complessità e del carattere circolare, e non lineare, della realtà (Boscolo, 2009). E, paradossalmente, proprio Bateson, che successivamente pubblica Mente e natura (Bateson, 1993), diventa la chiave di lettura anche della separazione da Selvini Palazzoli: mentre lei cercava in fondo ancora, nonostante i propositi opposti, una causa lineare, cui corrispondesse una strategia terapeutica, Bateson consentiva di insistere sulla circolarità, rinunciando ad una ricerca eziologica.

Letta a posteriori, l’ambivalenza nel gruppo è già presente dalle origini e, oltre a tutto il resto, non è escluso che proprio il rapporto con la psicoanalisi sia una delle questioni sotterranee, che riaffiora potente molti anni dopo la scissione dell’équipe originaria; ripensando après-coup a quegli anni, Selvini Palazzoli e Luigi Boscolo la vedono infatti in maniera decisamente differente; così scrive Selvini in un’intervista del 1992:

[…] è così che alla fine del 1971 formai una nuova équipe con Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata, tutti psichiatri con un retroterra psicoanalitico, ma tutti piuttosto disillusi dalla psicoanalisi, e in cerca di qualcosa di nuovo. […] Decidemmo concordemente di optare per il modello sistemico, specialmente nell’intento di evitare ogni contaminazione con il pensiero lineare. Mi rendo oggi conto che a quel tempo, quella decisione fu una sorta di consacrazione religiosa ad una nuova fede, una vera e propria apostasi che scandalizzò un gran numero di nostri ex colleghi. (Selvini Palazzoli, 1999, p. 15, corsivo mio)

Una scelta pratica, quella di lasciarsi la psicoanalisi alle spalle. Ma Boscolo deve ammettere: 

Questo è stato un modo di rientrare in contatto con il nostro passato, con quello che per noi ha avuto senso e importanza; la psicoanalisi è rientrata dalla porta, mentre prima entrava dalle fessure della finestra, perché dovevamo essere “puristi sistemici”. (Boscolo et al., 2004, pp. 340-341, corsivo mio)

Questa tensione esplode, quando Selvini Palazzoli, con il figlio Matteo Selvini, con Stefano Cirillo e Anna Maria Sorrentino, si dedica a una terapia che utilizza la teoria dei giochi e la “prescrizione invariabile”, mentre Boscolo, dopo anni di lavoro con la scuola di formazione “sistemica” insieme a Cecchin, tra circolarità e approccio narrativo, torna a riflettere sul valore della terapia individuale, il cui prototipo è innegabilmente il setting freudiano (Boscolo, Bertrando, 1996). Si potrebbe però allora leggere la questione non in termini di spaccatura, presente fin dalle origini, ma di complementarietà negli approcci, nel “non detto” di ciascun terapeuta (Boscolo et al., 2004), che, fino a che il gruppo ha lavorato insieme, è certamente stato un valore.

Il transfert

Attraverso questo tentativo di indagine storica dei rapporti tra sistemica e psicoanalisi, ci sono alcuni temi che ruotano attorno all’evidente diversità del setting, tra questi possiamo isolarne un paio: uno è evidente al primo impatto con la terapia sistemica ed è lo specchio unidirezionale, l’altro è legato al transfert.

Da quest’ultimo vorrei partire, perché mi pare sia legittima la domanda su quale sia il destino del transfert nella terapia della famiglia, non tanto come questione innanzitutto teorica, ma nella prospettiva di chi, come ha fatto Luigi Boscolo per un certo periodo, per metà del suo tempo incontrava pazienti in analisi individuale, e per l’altra metà incontrava famiglie insieme all’équipe di Selvini Palazzoli. Il veto di Freud, di cui abbiamo discusso, rispetto alla presenza di altre persone nella stanza di terapia, ha certamente a che fare con la relazione transferale, come evento del tutto peculiare in cui l’inconscio è il protagonista, e che non può ammettere triangolazioni se non, appunto, tra l’analizzando, il suo inconscio e l’analista. Oggi alcuni, nel mondo psicoanalitico, sottolineano con forza l’incommensurabilità del transfert rispetto al più generale concetto di “relazione terapeutica”, o di “alleanza terapeutica” (si veda ad esempio Di Ciaccia, 1987). Naturalmente se affrontiamo la questione da questo punto di vista non ha senso neppure iniziare a interrogarsi sulla possibilità di transfert nella terapia sistemica della famiglia. Se invece accettiamo di discutere di come il terapeuta, o i terapeuti – come sarà nella configurazione dell’équipe di Selvini – entrino in relazione non solo con i membri della famiglia, ma con le relazioni tra essi, aggiungendo che i primi terapeuti di cui parliamo sono stati o sono psicoanalisti, la questione diventa al contrario molto interessante da esplorare. In Paradosso e controparadosso (2003) la questione, che rimane sottotraccia in diversi momenti in cui viene messa a tema la relazione tra terapeuti e membri della famiglia, è affrontata esplicitamente in un solo punto, attraverso un paragone:

Dopo una serie di errori, riuscimmo finalmente a trovare una soluzione.

Questa consiste nel riferire esclusivamente a noi stessi, al momento opportuno, i problemi del rapporto intergenerazionale, in maniera assai simile all’interpretazione del transfert operata nel trattamento psicoanalitico. (Selvini Palazzoli, 2003, p. 97)

Si tratta di una misura strategica, che serve ad attuare contromosse rispetto alle manovre della famiglia, e dove l’inconscio non è evocato, né “convocato”, ma mi pare ugualmente interessante che Selvini Palazzoli utilizzi il linguaggio psicoanalitico, che le è familiare, prestato alla propria visione strategica della terapia della famiglia. 

Un altro riferimento interessante riguarda il controtransfert, cui Lynn Hoffman paragona la situazione in cui talvolta i terapeuti sono lasciati nella stanza di terapia, insieme alla famiglia, mentre i consulenti discutono in disparte; in questa situazione i terapeuti sono spinti a considerarsi parte del sistema osservato più che di quello osservante, e Hoffman commenta questa situazione dicendo che è “simile all’enfasi posta sul controtransfert nella terapia psicoanalitica individuale” (Hoffman, in Boscolo et al., 2004, p. 35). Questo tema del sistema osservante e osservato è evidentemente centrale nell’approccio sistemico, e ha a che fare con la cibernetica, in particolare di secondo ordine, come le riflessioni successive di Boscolo e Cecchin mostreranno. 

Ackerman, che inevitabilmente, per ragioni cronologiche, non può possedere gli strumenti teorici della cibernetica di secondo ordine, ha una visione più appiattita del sistema osservante/sistema osservato, ma riconosce ugualmente l’importanza di connotare in qualche maniera la presenza del terapeuta nel contesto della famiglia:

il medico integra la sua conoscenza e il suo uso di sé in modo speciale. È osservatore partecipe; è attivo, aperto, fluido, deciso, talora brusco. Penetra direttamente nel conflitto familiare per dare energia ai processi d’interazione e influenzarli; si ritrae per oggettivare la sua esperienza, per cogliere gli eventi più significativi e valutarli; poi rientra nell’agone. […]

È importante definire i processi di transfert, di controtransfert, e di esame di realtà nel quadro dell’interazione diretta con la famiglia. (Ackerman, 1970, p. 102, corsivo mio)

Il posizionamento del terapeuta nel contesto della situazione terapeutica è di massimo interesse per Ackerman, che si pone il problema delle possibili alleanze che i diversi membri della famiglia possono di volta in volta instaurare, non si tratta di evitare questi comprensibili tentativi (avere il terapeuta dalla propria parte), ma evidentemente di gestirli, salvaguardando una neutralità non tanto dal punto di vista fenomenologico, ma sostanziale; a volte il terapeuta  sembrerà “allearsi” con un membro della famiglia per sostenerlo in una contingenza di maggiore debolezza; a volte assume il luogo di una “figura parentale” (Ackerman, 1970), ma nella sostanza manterrà, alla fine dei giochi, una equidistanza sostanziale. Proseguendo in questa direzione Minuchin parlerà di “solidarietà” del terapeuta con il membro della famiglia che si sente in posizione subalterna, in modo che sia possibile provocare una ridefinizione delle relazioni familiari (Minuchin, Fishman, 1982): non è ovviamente in questione l’equidistanza in senso etico del terapeuta, ma l’aspetto strategico. È il contrario, infatti, della prospettiva dell’équipe di Selvini Palazzoli, che pone la massima cura nel tentativo di “neutralizzare” ogni tentativo di alleanza solidale da parte di un membro della famiglia nei confronti di un terapeuta: la ragione è di tipo comunicativo, poiché il discorso dei terapeuti deve mantenersi su di un metalivello rispetto alla comunicazione della famiglia (Selvini Palazzoli et al., 1980). È il concetto di “neutralità” – sviluppato in seguito in particolare da Cecchin (Cecchin, 1987) – che si può riassumere in questo esperimento mentale (Selvini Palazzoli et al., 1980): se dopo la seduta, o quando il terapeuta si sposta dietro lo specchio, entrasse una persona esterna e chiedesse a ciascuno le proprie impressioni sul terapeuta, emergerebbero sicuramente molte “qualità”, positive o negative; ma se si chiedesse a ciascuno da che parte il terapeuta si è schierato, non dovrebbe emergere nessuna risposta netta e certa. È naturale infatti che ciascuno, in alcuni momenti, senta il terapeuta più vicino a sé, “ma nel procedimento globale della seduta la somma algebrica delle susseguenti alleanze avrà lo zero come risultato finale” (Ibidem, p. 18).

Ci sono dunque temi che si avvicinano, o sono contigui, a quello tipicamente psicoanalitico del transfert e del controtransfert, ma la peculiare situazione terapeutica della clinica sistemica della famiglia spinge a concentrarsi piuttosto sul posizionamento dei terapeuti all’interno della relazione con i clienti. Se la neutralità del terapeuta sembra andare in direzione opposta a quella dell’installarsi di una situazione transferale rispetto al paziente, più ambivalente pare la riflessione circa il controtransfert: quali effetti sul “sistema” porta la retroazione di ciò che accade in seduta sul vissuto emotivo dei terapeuti? Quali pregiudizi, convinzioni, pensieri automatici sono elicitati nei terapeuti dalle parole o dalle situazioni emotive che circolano in seduta? La riflessione sui pregiudizi è centrale nel lavoro di Cecchin (1997), che ritiene anzi che la terapia consista proprio nella circolarità tra i pregiudizi del terapeuta (il suo vissuto, la sua visione della propria missione professionale ecc.) e quelli del cliente.

D’altra parte delle emozioni del terapeuta si occupa anche Paolo Bertrando (2012), quando ricostruisce un “ripensamento tardivo” di Boscolo, che riguarda proprio il ruolo delle emozioni, che mostrano una inaspettata importanza nella situazione terapeutica, almeno quanto l’aspetto cognitivo, quello fondato sulla circolazione della parola e sulla sua analisi. Se partiamo dunque dall’importanza del transfert emotivo-relazionale in psicoanalisi, non possiamo non rimanere suggestionati dall’importanza che Boscolo, nell’ultima fase della sua vita professionale, dà alle emozioni dei clienti, ma anche, e in modo peculiare, dei terapeuti: “Il terapeuta che ha delle emozioni le mette a disposizione del paziente per permettergli di pensare a che cosa può sentire”. (Boscolo, in Bertrando, Toffanetti, 2000, p. 385). Questo effetto terapeutico delle emozioni, è accostato da Bertrando (2012) a una serie di riflessioni di autori di ambito psicoanalitico, che mostrano interesse e attenzione proprio per questo tema, sintetizzate nella frase di Frank Alexander, che suggestivamente può essere accostata alla considerazione di Boscolo sopra citata: “il paziente, per essere liberato dalle sue modalità nevrotiche di sentire ed agire, deve subire nuove esperienze emotive” (Alexander, citato in Bertrando, 2012, p. 157).

La visione portata nella terapia dalla cibernetica di secondo ordine, oltre alle emozioni di clienti e terapeuti, contempla i pregiudizi (Cecchin, 1997) quali particolari “lenti” che ogni essere umano possiede e che lo informano circa il modo di leggere e rispondere agli stimoli della vita. In tal senso i pregiudizi sono sia una lettura cognitiva sia emotiva, sia constestuale sia dinamica delle interazioni. Portano in sé un aspetto emotivo che è a un tempo stimolo e risposta nell’interazione. Per questo si può dire che la lettura che una persona – terapeuta o cliente – dà a un evento è frutto dei suoi pregiudizi, cioè schemi di riferimento emotivi e relazionali, schemi precostituiti che vanno modificati tanto quanto le risposte automatiche di transfert che portano una persona a rimanere incastrata in una dinamica nevrotica.

Naturalmente, come nel caso del transfert e del controstransfert, si tratta di una relazione dinamica, che cambia nel tempo: si potrebbe parlare in questo caso di un’alleanza terapeutica che presenta dei pattern, riconoscibili non solo dal cliente ma anche dal terapeuta, che sono momenti di cambiamento e che hanno una specifica connotazione emotiva: essi infatti “divengono momenti specifici di incontro; la conoscenza implicita di ciascun partner si modifica, creando un nuovo contesto intersoggettivo: la relazione è cambiata” (Bertando, 2012, p. 158).

Lo specchio

Se il transfert è un po’ uno dei simboli della psicoanalisi, lo specchio unidirezionale lo è della sistemica. Comparve la prima volta (vedi Bertrando, Toffanetti, 2000) a Berkeley, in California, dove Charles Fulweiler lo usava per osservare gli psicologi che stavano imparando a somministrare i test, per supervisionarli. In seguito Minuchin lo adottò con entusiasmo nel proprio studio alla fine degli anni Cinquanta, rivoluzionando così il proprio setting terapeutico. Ho trovato le parole più suggestive su questo tema nel prologo, intitolato appunto Dietro lo specchio, che Hoffmann scrive all’inizio di un suo testo importante (Hoffman, 1984): “Questo libro è un viaggio verso un regno da poco scoperto, il mondo dietro lo specchio” (p. 13). Subito dopo paragona l’introduzione dello specchio unidirezionale in psicoterapia alla scoperta del telescopio, che porta un “nuovo modo di pensare”, addirittura ad una “rivoluzione epistemologica”. Il paragone con Galilei è suggestivo e perspicuo: non è ovviamente l’oggetto in sé a essere una particolare novità, ma l’incredibile coraggio teorico che sostiene il gesto rivoluzionario di puntarlo verso il cielo. Così lo specchio offre una “visione bicamerale” che comporta un mutamento profondo nella diagnosi – il sintomo del paziente è inquadrato in un sistema di relazioni – e terapeutico: la possibilità di un cambiamento è legata a sistemi di relazioni che si intrecciano, e non più a due individui che si incontrano nella stanza di terapia. Naturalmente attorno allo specchio si giocano gli elementi chiave della sistemica: l’équipe, il modello cibernetico, fino al reflecting team di Tom Andersen.

Epigenesi

Ecco dunque qualche punto di contatto tra psicoanalisi e sistemica, in una prospettiva in cui l’indagine de jure sulla compatibilità o possibilità di integrazione della teoria psicoanalitica con l’approccio sistemico, si fonde con frammenti di ricostruzione storica; essi ci mostrano de facto come nell’evoluzione personale dei terapeuti, nell’esperienza clinica, nell’accoglienza del disagio dei pazienti, una qualche convergenza, a tratti forse anche un’amicizia, c’è stata.

Così c’è una convergenza tra la presa di posizione teorica sul tema dell’integrazione tra approcci diversi e il racconto della formazione ed esperienza personale dei terapeuti: lo esprime con chiarezza Boscolo quando parla di una “prospettiva epigenetica” (Boscolo, Bertrando, 1996, p. 35). Si tratta di non gettare per sempre il proprio passato sposando nuove prospettive che cancellano le precedenti, ma neanche accumulare semplicemente idee e tecniche in una prospettiva di un disgregato eclettismo che si accresce indefinitamente; così il purismo teorico è un valore solo se finalizzato alla formazione dei terapeuti, ma l’esperienza porta nel tempo a stare in una condizione di “agio” dentro il proprio modello, avendo la capacità di utilizzare anche altri modelli, dove ce ne sia la necessità e dove essi mostrino la propria utilità. L’esperienza e la propria “provenienza” è anzi lo spessore sostanziale di questa prospettiva epigenetica, “nella quale ogni cambiamento teorico o pratico viene a connettersi nel tempo a quelle prospettive precedenti che si sono dimostrate utili” (Ibid., p. 37).

Come questa modalità si declini in modo specifico nel rapporto tra “provenienza” psicoanalitica e terapia sistemica, si è cercato di accennarlo in questo lavoro, consapevoli che il tema è ben più complesso e merita riflessioni più ampie, con molta semplicità ci viene però in aiuto la metafora di Gregory Bateson, quando afferma (Bateson, 1993) che la visione binoculare – due diverse prospettive che guardano lo stesso oggetto – consente di cogliere la profondità, una nuova dimensione rispetto alle sole visioni monoculari che ci parlano ciascuna, rispettivamente, di un mondo piatto e quindi, certo, meno coinvolgente.

Bibliografia

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Sitografia

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