di Umberta Telfener
Insieme al nostro Direttore sono stata a Toyama, in Giappone, invitata alla conferenza IFTA (International Family Therapy Association) in qualità di presidente dell’EFTA. L’anno scorso ero stata a Malaga, se ricordate la recensione.
L’IFTA è nata nel 1987 al Convegno di Praga, con Virginia Satir e Don Block come vicepresidenti. È stata pensata come un gruppo sistemico che andava a offrire training in Asia e che accettava membri senza alcuna richiesta educativa; un gruppo di appartenenza fluido e in continua evoluzione. Lo storico segretario, il cuore pulsante dell’IFTA – William Hiebert – mi ha spiegato che l’IFTA ogni anno organizza una “destination conference”: si sceglie un luogo attrattivo nel mondo che attiri professionisti che vogliono incontrarsi e presentare le proprie idee.
Il processo proposto è genuino e orizzontale, non sembra che vi giochino né il controllo né alcun desiderio di supremazia; l’impostazione è ugualitaria: ogni relatore ha 45 minuti in cui può organizzare come desidera lo spazio assegnato: può esibirsi in modo interattivo, in modalità esperienziale, tenere una conferenza, proporre un dialogo… Il messaggio suona così: “Eccomi, presento ciò che faccio e sono ansioso di ascoltare ciò che avete da dirmi al riguardo.” Purtroppo troppo spesso come sistemici siamo addestrati a trovare comunque il positivo e l’elogio in ogni messaggio invece che approfondire la discussione; questo nostro pregiudizio può abbassare l’intensità dello scambio e l’approfondimento del ragionamento condiviso.
Dovremmo interrompere questa positività a tutti i costi, poiché anche i precursori – tra cui c’erano sicuramente Boscolo e Cecchin della ridefinizione in positivo – non la praticano più, a favore di una sincera fiducia nell’interlocutore e nel dialogo e di una sincera curiosità per un approfondimento delle idee. Sono sicura che tutte le tante persone che ho ascoltato a Toyama – compresi me ed Enzo de Bustis che abbiamo presentato l’attuale posizione della Scuola di Milano – sono molto capaci di affrontare una discussione sulla loro prassi, e sarebbero stati grati di rispondere anche a domande “difficili”.
William ha definito l’incontro una “conferenza di relatori” in quanto il 70% dei professionisti è qui per mostrare il proprio lavoro. 10 sessioni simultanee in tre giornate intense, insieme dalle 8.30 alle 17, pranzo compreso. Le tre pause quotidiane sono lunghe (anche un’ora) per permettere alle persone di creare connessioni e scambiarsi punti di vista e progetti.
C’è stata solo una plenaria di due ore (troppo breve per la maggior parte di noi) sulla cultura ospitante: sei professionisti asiatici provenienti da Giappone, Hong Kong, Taiwan, Cina (il nostro “amico” Zhao!) e Corea, che ci hanno raccontato cosa sta succedendo in questa parte del mondo per quanto riguarda la salute mentale e il funzionamento familiare. Il titolo che organizzava i loro interventi era: “L’evoluzione della terapia familiare in Asia”.
Quando mi sono lamentata – come faccio spesso – di quanto sia restrittiva l’attenzione unica alla famiglia anziché la possibilità di ragionare sull’ambito più ampio dei sistemi umani e degli interventi sistemici in molti contesti possibili, William Hiebert mi ha raccontato un aneddoto interessante. Con un sorriso spiritoso, un po’ prendendomi in giro e un po’ concordando con il mio punto di vista, William mi ha detto che la rivista dell’IFTA è stata ribattezzata “Terapia sistemica”. Evviva, una conquista! NO. Si chiama “Terapia Sistemica” non perché come professionisti facciamo molte più cose che non vedere le famiglie e fare psicoterapia, non perché il concetto di “famiglia” sia sempre più inclusivo e abbia perso il suo senso tradizionale, né perché la cornice sistemica sia un concetto più ampio che ci rende più liberi. Lui stesso avrebbe desiderato che ci fosse stata un’evoluzione concettuale. Il motivo per cui la rivista ha cambiato nome è perché gli organizzatori di uno dei Congressi dell’Est del Mondo non hanno voluto che nel titolo ci fosse il termine “terapia familiare”: sono convinti che la terapia familiare faccia separare le persone – questo è un pregiudizio comune – e non volevano trasmettere ai partecipanti l’idea di “separazione”!
Prima di concludere questo resoconto, vorrei ragionare sui contenuti presentati: molto varii. Direi che la maggioranza delle presentazioni trattava il livello della tecnica all’interno di un modello sistemico abbastanza lasso e non sempre definito chiaramente. Alcuni hanno presentato modalità specifiche di praticare il proprio lavoro, pochissimi hanno presentato un approccio coerente che collegasse il quadro epistemologico con le variabili culturali, le lenti teoriche e le conseguenti pratiche. Noi della scuola di Milano abbiamo tentato di farlo e abbiamo ricevuto molti riscontri positivi.
Ho comunque apprezzato molto le tante presentazioni e l’appuntamento con alcuni professionisti amici che è diventata una piacevole abitudine. All’anno prossimo!