di Luca Casadio,
Castelvecchi editore, Roma, 2023
Letto da Gianluca Ganda e Walter Troielli
Luca Casadio è scrittore dalla produzione ampia quanto variegata. Ci ha consegnato numerose opere, dalla letteratura alla divulgazione.
Oggi parliamo del suo ultimo lavoro, in cui la narrativa e la psicoterapia si trovano a danzare insieme. Una danza che permette di toccare temi importanti e da sempre centrali nella cura, quali la diagnosi. Storicamente argomento caldo per le discipline mediche in generale e psicologiche in particolare, la classificazione diagnostica risulta poi da sempre sotto un occhio critico da chi si sente influenzato dal filone sistemico. Qui Casadio guarda alla diagnosi senza rifiutarla, ma ampliandone le possibilità fuori dal recinto delle categorizzazioni.
Diciamo subito che tutto ciò che sta attorno alla psicoterapia può trovare una strada facile di adesione a criteri (quelli diagnostici) e tecniche (quelle di una particolare scuola o paradigma) che rischiano di banalizzare il disagio come la relazione, il vero perno attorno al quale operare un cambiamento. Invece di una visione semplificatoria, troviamo qui uno sguardo più ampio, che sente il desiderio di complessificare le esperienze, il passato come il futuro di una persona. E cerca di incrociare i saperi per creare occasioni di evoluzione per le persone.
Il tema della diagnosi, intesa come dilemma tra l’etichettamento asfittico in contrapposizione a un processo che porta a nominare il malessere delle persone, attraversa la storia sistemica dai propri albori. Dall’intramontabile Pragmatica della comunicazione umana (1971), che poneva le basi per una lettura depatologizzante di alcune delle sindromi psichiatriche più gravi dell’epoca, a Paradosso e controparadosso (1979), fino ad alcuni articoli come Il problema della diagnosi da un punto di vista sistemico (1988) e anche, perché no, l’ironico La diagnosi di psicoterapeuta (Bertrando, Connessioni, 5, 1999), nel mondo sistemico si preferisce cogliere l’interazione tra le persone sottostante alle loro manifestazioni di malessere.
In questo libro troviamo una proposta interessante. L’autore apre alla complessità perché affianca la costruzione della storia psicopatologica della persona alla diagnosi, che ne risulta così arricchita. Nella disamina dei vari “tipi umani” Casadio ricerca numerose narrazioni che ne siano la descrizione, pescando tra le arti e le discipline psicologiche. Il quadro che emerge ha pennellate prese dal pensiero di vari psicoanalisti, dalle parole di filosofi e dalle opere di discipline artistiche diverse. Con immagini che costruiscono delle storie dei percorsi di vita delle persone, piuttosto che rimandare istantanee statiche fatte di elenchi di criteri chiusi nei riquadri dei libri, per come appaiono nei vari DSM. Ricordiamo che il sottotitolo ci spinge a passare “dai sintomi alle storie di vita”.
Tornare oggi ad affrontare questo argomento in modo esplicito e diretto assume un significato e un valore ancor maggiori, considerando che proprio nel 2023 si è tornati a parlare di manualizzazione versus creatività nell’ambito della terapia familiare e sistemica. Uno dei versanti su cui si declina il dibattito sulla diagnosi è proprio quanto questa vada a togliere umanità al paziente e possibile creatività al rapporto curante-curato.
Il libro di Casadio tocca questo tema proprio quando torna sull’annoso problema del “senso” della diagnosi in terapia e dei correlati aspetti del potere e del sapere. Nel tornare su questo punto l’autore entra mani e piedi in un risvolto da non sottovalutare dove va a differenziare nettamente le discipline mediche da quella psicoterapeutiche arrivando ad affermare (finalmente o meno, si vedrà) che “le sue peculiarità [della psicoterapia] non permettono l’assimilazione tout court alle discipline mediche”; e, ancora, “Il problema della psicoterapia, infatti, non è la diagnosi, ma la cura”. Non è da escludere che a questo punto del volume, che arriva nell’introduzione, a pagina 12, qualcuno potrebbe saltare sulla sedia. Già prima, a pagina 9, cita Foucault con un discorso che sembra riecheggiare il giudice delle canzoni di Storia di un impiegato (1973): il giudice come il medico, coloro che sanno e hanno potere.
Eppure il grande tema della diagnosi/cura, o meglio, del rapporto tra la diagnosi e la cura sta forse proprio tutto qui: a cosa servono queste due fasi nel rapporto con il paziente, come possono essere usate in termini di reale attenzione all’altro e quale peso devono avere una rispetto all’altra e alla persona?
L’autore prende una posizione molto chiara su questo aspetto: una diagnosi che sia pura tecnica e non solo arte, che cioè prescinda dalla storia soggettiva delle persone con cui entriamo a contatto, ha l’effetto di bloccare l’assistito nel confine etichettante della diagnosi; e rischia di limitare la relazione terapeutica.
Forse risuona tra queste righe, più ancora che in altre parti, il famoso imperativo di Von Foerster — con cui Casadio ricorda di aver lavorato — di ampliare il numero di scelte possibili, cosa che richiede la ricerca di vie alternative nel “conoscere” il paziente e la sua storia.
Il grande limite della diagnosi medica è proprio quello di chiudere in parole, avulse dal contesto di vita, la storia delle persone. Arrivando, nella migliore delle ipotesi, a dare un nome ad alcuni tratti comportamentali con la pretesa illusoria di rinchiudere in poche parole tutta l’esistenza del paziente. Con il dubbio che il paziente possa accettare un nome ma non il significato che quell’etichetta porta con sé: non possiamo confondere il nome di una classe con ciò che essa contiene. Per l’autore qui si incunea la possibilità delle discipline psicologiche di creare, grazie alle proprie specificità, un reale contatto tra le persone: per ridare voce alle loro storie persone, per arrivare a capire non il cosa (la diagnosi medica) ma il come (la diagnosi narrativa) si sia arrivati a certe situazioni che possono essere poi inquadrate in quadri nosografici più o meno verosimili.
Non a caso Casadio riprende, in diversi passaggi, le parole di Frances, prima un attivo fautore dei manuali diagnostici come il DSM V e poi un suo grande detrattore. Le sue parole demoliscono proprio il classico processo di classificazione e etichettamento delle malattie mentali e che vale la pena richiamare anche qui: “…ho letto decine di definizioni di disturbo mentale (ho anche contribuito a descriverne una) e posso dire che nessuna ha il benché minimo valore”. Per parafrasare proprio un libro di Frances (Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie) Casadio ci ricorda che dare un nome a un malessere esistenziale non è garanzia che se ne inneschi un processo per uscirne. Perché la diagnosi non si fermi a un’azione di etichettatura, da molti già visto come un atto violento, bisogna dar vita a un processo che richiede la capacità e la responsabilità di andare oltre facili nosografie, in favore di un lavoro di conoscenza dell’individuo in grado di dare risalto all’unicità di ogni essere umano.
D’altronde già in passato Casadio aveva affrontato il tema delle biografie, un tema che rimanda alla vita intesa come un romanzo autoprodotto, che può sentire la necessità di essere rivisto e riscritto: e qui arriva la psicoterapia e il dialogo tra cliente e terapeuta. L’autore aveva già trattato questo aspetto in Madri (scritto in collaborazione con Massimo Giuliani), i cui temi tornano, in parte, anche in questo volume.
Il passaggio successivo, inevitabile, è il richiamo ai lavori di Charon e Remen che parlano proprio di medicina narrativa come quella branca medica che adotta l’attenzione alle storie per arrivare a identificare una “malattia” da curare che sia però a quel punto una malattia sistemica, ecologica, calata e “sensata” nel contesto di vita dei pazienti. Su questo punto ci viene in mente anche il volume Dieci minuti per la famiglia. Interventi sistemici in medicina di base, di Aien, Tomson, Young, Tomson (2015).
Il volume quindi prevede una serie di capitoli ciascuno dedicato a un particolare disturbo psicopatologico, raccontato attraverso opere della narrativa (film, libri, racconti, opere d’arte), accostato a storie di vita di persone (pazienti, casi clinici), con un excursus storico dell’evoluzione nella nosografia e nella clinica di quel disturbo.
Così abbiamo la storia dell’artista Yayoi Kusama, riferimenti ai film Vanilla Sky e Rosemary’s baby, un racconto di Melville, lavori di Philp Roth, riferimenti a Elena Ferrante e ancora ai film Pelle e La casa Di Jack, per parlare di sintomi schizofrenici e psicotici, disturbi del sè, ansia e panico, depressione e alcolismo, suicidio, dissociazione, pedofilia e disturbi ossessivi. Un menù decisamente ampio che non stanca: anzi, invoglia il lettore a trovare le proprie storie di riferimento per dare senso a ciò che ci viene portato e per ridare al cliente quanto vive in una forma migliore. Cecchin diceva che ogni terapeuta dovrebbe avere un suo elenco di storie, forse venticinque, forse di più. A noi il gioco è piaciuto: così Bartleby lo scrivano può stare bene con i problemi di alcolismo e affiancarsi alle storie di quelle persone che hanno paura del nuovo, della scelta, delle emozioni, siano manifestazioni di panico, di fobie o, meno banalmente, di disagio e sofferenza.
La possibilità di creare una narrazione diagnostica terapeutica sta proprio in questa tecnica artistica di usare storie (come fa l’autore) per incrociare racconti e dare origine così a altre narrazioni che possano ampliare le possibilità di scelta (e cura) per il paziente e per il terapeuta, perché tra conoscere e curare la differenza è così ampia da essere, a volte, minima.