Libro di Alda Merini
Rizzoli, 1997
Letto da Francesca Mariani
Nel libro L’altra verità: Diario di una diversa, Alda Merini ci narra con estrema lucidità i suoi dieci anni trascorsi al Paolo Pini di Milano. Vi fu ricoverata per la prima volta giovanissima, nel 1964, quando era “poco più di una bambina” a causa di un esaurimento che si era aggravato a seguito della morte della madre e delle incomprensioni con il marito a cui aveva chiesto inutilmente conforto. La Poetessa ci parla della sua esperienza manicomaniale, regalandoci un racconto profondo, emotivamente intenso e coinvolgente, affidato ad una scrittura snella, rapida ed essenziale, senza fronzoli di mezzi linguistici. Si rimane quasi senza fiato di fronte agli orrori che ogni giorno si perpetuavano dietro le porte del manicomio. Si ha, infatti, come la sensazione di entrare in una sorta di inferno dantesco, tanta è la sofferenza e le vite spezzate che si incontrano. Persone ridotte a meri oggetti, denudate e rivestite di camicie e vestaglioni anonimi, private delle libertà più elementari, legate mani e piedi e costrette a vivere in condizioni inumane in mezzo ai propri escrementi.Tant’è che, superata per la prima volta la soglia del manicomio, la scrittrice rimane colpita e sconvolta proprio dal fortissimo odore presente nell’ambiente, odore dovuto alla scarsa pulizia e alla presenza di orine e feci sui pavimenti. “Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni”. Si tratta delle prime parole a cui ricorre Alda Merini per descrivere la struttura manicomiale e per dar voce al proprio senso di smarrimento dovuto anche alla “folle paura di diventare come quelle là”.
Tra i ricoverati non vi erano soltanto persone afflitte dalla malattia mentale, ma anche persone che non avevano nulla di folle. Si trattava, in diversi casi, di persone di cui la società civile voleva disfarsi perché avevano tenuto un comportamento ritenuto lesivo di norme sociali e morali, come – ad esempio – ragazze madri in condizioni di povertà, oppure persone con handicap fisici pesanti e di cui la famiglia di origine non voleva o non poteva farsi carico.
Ecco la descrizione di una giornata tipo all’interno della struttura manicomiale:
– sveglia di buon’ora alle cinque del mattino;
– allineamento “su delle pancacce in uno stanzone orrendo che fungeva da anticamera alla stanza dell’elettroshock a cui sarebbero state sottoposte non appena avessero disobbedito agli ordini;
– divieto assoluto di parlare, di mangiare qualcosa al di fuori del pranzo e della cena (consistente in una ciotola di minestra) o anche solo di fumare una sigaretta.
Privazione totale della privacy: le pazienti venivano allineate completamente nude, lavate dalle infermiere e asciugate in luridi stracci. Nessuna libertà di scelta, neppure su quando andare a letto, tant’è che se la sera erano tentate di rimanere alzate un po’, subito venivano redarguite aspramente, contenute e legate ai letti con le “fascette” (ossia grosse corde di canapa con cui venivano bloccate mani e piedi) anche per giorni, senza neppure la possibilità di andare in bagno per tutto il tempo. Inoltre era persino proibito soffrire di insonnia, così ci dice la Merini. Ed ecco che le pazienti che non riuscivano a dormire venivano prontamente sedate e “così molte vecchiette venivano fatte morire a forza di psicofarmaci”. E ancora: controlli invasivi sopra e sotto la lingua da parte delle infermiere per verificare l’assunzione dei farmaci e soprattutto gli orrori dell’elettroshock che veniva abitualmente praticato.
Credo che gli esperimenti di psicologia sociale portati avanti da Zimbardo alla Stanford University possano forse esserci di aiuto nel comprendere come il manicomio, proprio per come era strutturato, agevolasse l’adozione di pratiche disumane nei confronti delle persone ricoverate. Come noto, Zimbardo aveva creato una prigione finta e aveva selezionato accuratamente i volontari che avevano deciso di prendere parte all’esperimento tra persone senza disturbi psichici o di personalità; li aveva suddivisi in guardie e prigionieri e li aveva collocati all’interno di un carcere simulato. I primi risultati ottenuti furono talmente drammatici da comportare la sospensione della sperimentazione. La prigione da finta era diventata una vera prigione. I carcerieri fecero infatti propria la funzione di controllo, e lo fecero al punto tale da assumere le regole dell’istituzione come unico valore a cui uniformarsi; iniziarono così a porre in essere comportamenti distruttivi nei confronti dei prigionieri e a sottoporli ad umiliazioni, tanto da indurre gli studiosi – come si è detto – a sospendere soltanto dopo poco tempo l’esperimento che avrebbe dovuto invece durare quindici giorni.
Ritornando quindi al manicomio, il rigido controllo e l’assunzione senza alcun senso critico dei valori dell’istituzione di cui il personale di cura faceva parte hanno probabilmente creato il contesto per tutti quei comportamenti aggressivi e disumanizzanti di cui si è parlato. E proprio così viene descritto il personale del nosocomio: esseri bestiali senza un minimo di comprensione verso le persone ricoverate. Eppure, nonostante le brutture dell’ambiente manicomiale, il libro è anche (e soprattutto, verrebbe da dire) un inno alla vita di una persona che si augurava di poter trovare dentro l’oscurità una via di uscita, che aveva ancora voglia di innamorarsi e che continuava a sperare in “qualcosa di bello e di sensibilmente umano”. E forse questa speranza era in qualche modo alimentata da quei brevissimi attimi di libertà che la Merini si concedeva o le venivano concessi, dal bacio della buona notte di altre ricoverate, dall’amore provato nei confronti di Pierre, “un ometto schivo e semplice che faceva il pittore, lì, dentro il manicomio”.
La Merini ci narra del suo “idillio ottocentesco fatto di sorrisi da dietro i vetri, di frasi approssimative, di piccoli, piccolissimi incontri ma senza alcun desiderio di amplesso amoroso” e di come, eludendo la sorveglianza degli infermieri, sgattaiolasse e corresse tra le sue braccia. Ci parla anche di come però un giorno “tristissimo” vide il suo amore “caricato su una specie di furgone insieme ad altre bestie umane” per essere mandato in un cronicario. Ed ecco quindi di nuovo un intervento penalizzante e controllante da parte dell’istituzione nei confronti dei propri “ospiti”, intervento che altro non fece che spezzare proprio quei legami che avrebbero potuto essere di aiuto ai malati per consentire loro di avere – per dirlo ancora con le parole della Merini – “qualcosa di bello e di sensibilmente umano”.
La Poetessa ci parla non solo di legami spezzati, ma anche dell’impossibilità di condividere in quella realtà il suo immenso dolore per la perdita di questo amore, della nostalgia delle sue figlie, del suo immenso dolore per la perdita del bimbo avuto in manicomio e dato in adozione, del suo isolamento. Il manicomio ci appare così in tutta la sua drammaticità: anziché luogo di cura e di accoglimento, luogo di contenzione e di controllo sociale, dove collocare i diversi per preservare la società civile e i cosiddetti sani. Non è un caso che queste strutture venissero realizzate di norma lontani dai centri abitati.
In questo contesto di brutture e di mancanza di umanità del personale sanitario, la Merini ci parla del dottor G. (lo psichiatra dottor Enzo Gabrici), definendolo come l’unico ad essere disponibile all’ascolto e ad avere un volto umano. Fu proprio lui che risparmiò alla Poetessa alcuni trattamenti di elettroshock e fu ancora lui che le donò una macchina da scrivere, invitandola a comporre nuovamente poesie. La “letteratura, l’unica fonte di vita” alla quale la Merini – come lei stessa afferma – poté aggrapparsi “per non morire”. Insomma fu proprio questo medico a far sentire la Merini una persona ancora meritevole di rispetto. La Poetessa parla dell’esperienza di cura con questo psichiatra in un libro dal titolo “lettere al dottor G.”. Quest’opera contiene delle poesie e anche una serie di lettere (indirizzate appunto al dottor G.) scritte sia durante la degenza in manicomio che nel periodo successivo quando la Merini – ormai dimessa – continuò con lui un percorso terapeutico.
L’esperienza del manicomio sollecita dunque diversi interrogativi etici: – come affrontare la malattia psichica, tema ancora attuale a distanza di quarant’anni dalla legge Basaglia che chiuse i manicomi; – come restituire dignità ai cosiddetti “malati di mente”; – come e in che termini è possibile il loro reinserimento nella “società civile”; – quale possibilità di autodeterminarsi e di scegliere per la propria vita hanno i “folli”. A quest’ultimo proposito, un giorno la Merini incontrò un prete nel giardino del manicomio e gli chiese “in che concetto Dio tenesse i poveri pazzi” curiosa di sapere per quale motivo, se Dio aveva dato il libero arbitrio per consentire agli uomini di poter scegliere il bene e il male, glielo avesse poi tolto con la pazzia. “Perché un folle non può più essere padrone della sua volontà?” Il prete biascicò qualcosa di incomprensibile e se ne andò. Il quesito della Merini apre le porte a un dibattito ben più ampio tra sostenitori del libero arbitrio e sostenitori del determinismo. Tra chi è convinto che le proprie azioni siano frutto di libere decisioni e chi ritiene invece che siano completamente determinate da tutta una serie di condizionamenti. Posizione quest’ultima che solleva gli uomini da ogni responsabilità ma che li priva anche della loro libertà di scelta e di azione. Come ci raccontano Cecchin e Apolloni in Idee Perfette, un po’ come l’operaio di nome Gras, colpevole dell’assassinio della propria amante; il suo avvocato parigino, di nome Bellart, cerca di difenderlo dall’accusa di omicidio assegnando uno status di autonomia all’emozione dirompente (“furore improvviso”) provato per il tradimento della giovane donna. Libertà di scegliere e di agire vanno quindi di pari passo con la responsabilità: qualsiasi scelta si faccia ha inevitabilmente delle conseguenze sulla propria esistenza e sui micro e macrosistemi di cui si è parte. Libertà più volte invocata dalla stessa Merini per i malati di mente. In Lettere al dottor G.scrive: “Ho sete della mia libertà e qui non è facile ottenerla, anzi qui dentro non esiste; la libertà è altrove, nell’amore, nella gentilezza e più che mai nella fede”. E forse, verrebbe da dire, libertà non è facile da ottenere neppure fuori dalla realtà manicomiale, dove i cosiddetti folli vengono difficilmente integrati e accettati. “Il manicomio che ho vissuto fuori e che sto vivendo” – ci dice infatti la Merini – “non è paragonabile a quell’altro supplizio che però lasciava la speranza della parola. Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”.
Il folle, uscito dal manicomio o comunque privato del necessario supporto, appare una sorta di apolide senza alcun diritto di cittadinanza né nel mondo dei “sani” né dei “malati”, appare come costantemente su un ponte sospeso tra due mondi. Eppure la Merini ci dice: “la malattia mentale non esiste ma esistono gli esaurimenti nervosi, esistono le pene famigliari, la responsabilità dei figli ed esiste anche la fatica di amare”.