di Salvatore Pace
L’impresa di Marcelo Pakman – psichiatra, psicoterapeuta e terapeuta familiare argentino radicato da anni negli States – di coniugare, in modo clinico e teorico, la cultura umanistica insieme agli sviluppi di un approccio critico–poetico alla e nella pratica terapeutica, trova compimento nella trilogia, ancora in cantiere, intitolata El Espectro y el Signo [Lo Spettro ed il Segno].
Nel 2018, mentre usciva in lingua spagnola il secondo volume della trilogia, El sentido de lo justo – para una ética del cambio, del cuerpo y la presencia (Pakman, 2018), in Italia conoscevamo Immagine e immaginazione in psicoterapia – Al di là della scienza empirica e della svolta linguistica (Pakman, 2014), traduzione di Texturas de la Imaginaciòn – Más allá de la ciencia empírica y del giro linguístico, pubblicato dalla spagnola Gedisa. L’ottima traduzione di questa penultima fatica letteraria di Pakman – l’ultima finora per i tipi della casa editrice Alpes Italia, Roma – è di Gabriella Erba, che ha meritato tutto il mio riconoscimento e aggiungerei quello dei lettori: non solo per lo sforzo di semplificazione, rispetto al testo originale in spagnolo, ma anche per il lavoro di interpretazione, linguistico e di stile, non scontato data la difficoltà del testo. Tanto da poter affermare che quel j’accuse tanto noto quanto abusato (“tradurre è un po’ tradire”) in questo caso non ha assolutamente ragion d’essere.
Riprendendo dunque il discorso iniziato, Immagine e Immaginazione è un’opera complessa, articolata e vasta, nel tono e nel respiro progettuale. Ed ambiziosa, perché si tratta del primo volume della trilogia.
In essa Pakman privilegia la dimensione del senso, la materialità sensuale e singolare del mondo-della-vita, così come gli deriva dalla conoscenza profonda – da cui attinge a piene mani – del filosofo francese dell’ontologia esistenziale, J.-L. Nancy, in particolare quando accenna al concetto di senso e del suo venire alla presenza attraverso immagini che corporizzano, che rendono materiale in tutte le sue valenze e accezioni, per il loro farsi sede dell’esistenza, il battito intenso e vivido della realtà. E privilegia tale dimensione in un’epoca come la nostra, dove il mercato della salute mentale appare dominato da posizioni o forme di soggettivazione manichee, polari, come possono esserlo talune pratiche derivate da criteri esclusivamente scientifici, di tipo organico/biologico, garantite dalla certezza dell’accesso diretto e misurabile alla realtà empirica, o da quelle che prediligono il linguaggio e l’interpretazione: la “svolta linguistica”, espressione coniata da G. Bergmann, con la quale Pakman indica lo spostamento della filosofia verso l’orizzonte del linguaggio, unico locus possibile del cambiamento.
Punto nodale dell’audace proposta di Pakman è il lavoro in quella terra di mezzo o di confine – luogo proprio e originario dell’immaginazione – dove il senso si fa palpabile, nelle immagini ancora pulsanti della corporeità, nella texture pre-riflessiva e pre-narrativa della realtà ad opera dei processi di significazione, nello spessore, nella densità, nell’oscurità di quell’assenza – parola vuota – che non è ancora diventata segno e che, proprio per questo, è ancora apertura e lavoro di libertà.
Questa attività, che Pakman definisce lavoro dell’immaginazione (e non sull’immaginazione, dal momento che per l’autore l’immaginazione eccede ogni funzione mentale), rende possibile l’emergere, tanto nella quotidianità come nella pratica clinica, di eventi poetici, punti di discontinuità, di ambiguazione, attimi di inflessione come risultato dell’allentarsi delle maglie della disambiguazione, della continuità dell’esperienza degli individui, dove la realtà sembra palpitare diversamente, in cui vengono alla presenza momenti inaspettati, scarti, singolarità che acquistano rilevanza per la vita di coloro che li sperimentano, sottraendoli alle forze che creano soggettività e corpi docili, agli stereotipi che sembrano catturare, conformare e guidare i modi o, se vogliamo, i ruoli attraverso cui esperiamo la vita. Micropolitiche che ci trasformano in oggetti, in dispositivi, in agenti volti al mantenimento delle stesse forze dell’oggettivazione.
Questa concezione del lavoro dell’immaginazione – che, ripeto, non è da intendersi come lavoro sui fantàsmata, sul mondo delle apparenze – trascende secondo Pakman la dicotomia realtà/fantasia e va oltre la scissione corpo/anima – il retroterra nancyano non ammette polarità – perché mantiene sempre una trama sensuale che la configura come una via squisitamente umana al mondo materiale, nei modi in cui la realtà si fa presente, aperta, nell’esperienza viva, nella percezione, nella memoria, nel sentimento e persino nei pensieri. Così l’autore apre la sua trilogia esplorando, nella pratica clinica e nella teoria, l’apparire di eventi immaginali che forano il mondo delle rappresentazioni e dei significanti saturi e astratti, in favore di un ritorno ingenuo – da intendersi come pensiero debole, non-assoluto – alla superficie delle cose, a un’apertura che può portare il pensiero forte, il tradizionalismo, la conserva culturale, alla presenza di altri mondi possibili.
I capitoli dell’opera sono inframezzati da alcuni casi clinici, documentati con dovizia di dettaglio, nei quali l’evento poetico si costituisce come una deriva del senso, come uno scarto in grado di creare differenza, modi altri di concepire la metodica terapeutica.
Per esempio, nel caso “Helena”, il nome di finzione dato alla paziente da parte del terapeuta, diventa una finestra inopinata che giustifica e tiene viva la sua intima fedeltà al caso, nonostante la pesantezza e le difficoltà incontrate durante le sedute lo invitino allo scoramento e gli suggeriscano la rinuncia: “Questa bambina, Helena, ha gli occhi più belli che io abbia mai visto in una bambina di quell’età. È per quegli occhi che, nonostante tutte le fatiche, e benché a volte io non sappia se davvero li stia aiutando, continuo a incontrare questa famiglia” (pag. 3).
L’emblematico caso “Papà” diventa il paradigma di un uomo che trincerato dietro la familiarità e la bonarietà di un nomignolo (“Tutti mi chiamano Papà”) che lo identifica come pater familias, rifiuta di comunicare il suo vero nome, pena la frantumazione di un ruolo che norma la vita familiare, e l’ammissione di un fallimento che informa la sua stessa vita.
L’ultimo capitolo, sul quale vorrei soffermarmi un po’ per la suggestione di continuità e di fedeltà espositiva che Pakman crea con l’immagine di copertina –, “Lo spettro vivido e sensuale della realtà è caduto sul segno”, diventa un’ampia disamina su Amleto, sulla malinconia e l’ombra dell’oggetto caduta sull’io, cioè la perdita su cui risiede – dirà il Principe Masud Khan prologando un testo di Bollas (1987) – la ragione stessa della psicologia come mestiere impossibile: l’uomo è, nel contempo, soggetto e oggetto di sé.
Nella prima di copertina è ritratto il giovanissimo Amleto giocando a cavalluccio con Yorick, il giullare alla corte del defunto padre. L’opera è del pittore francese – forse naturalizzato inglese ma di chiare origini spagnole – Philip Hermogenes Calderòn. La scena dipinta è il contraltare di un’altra scena, quella dell’atto quinto dell’omonima tragedia shakespeariana, dove Amleto prende in mano il teschio di Yorick e si lascia andare, come lo stesso Pakman rileva, a tutti i ricordi vivi, intensi e sensuali che, portandolo indietro alla sua infanzia, tracimano, esondano e si sversano sulla scena, producendo – se solo il principe se lo fosse concesso – novità nella sua grama vita di erede annebbiato dai fantasmi della vendetta.
La scena dei Gravedigger, altrimenti e significativamente conosciuti come clowns/jesters/fools, in questa ed in altre tragedie shakespeariane, apre alla presenza di personaggi di spirito, sagaci, di ingegno e intelligenza crassa, naturale – una sorta di scaltrezza alla Bertoldo (cfr. Croce, 1620) – e anche di sana follia, per cui varrebbe la pena di definirli con quei versi dell’Antologia di Spoon River dove Edgar Lee Masters (1915) fa dire a Lucinda Matlock:
Cos’è questo che sento di dolore e stanchezza
Collera, scontento e speranze vacillanti?
Figli e figlie degeneri,
la Vita è troppo forte per voi –
ci vuole vita per amare la Vita.
soprattutto quando accennano al suicidio di Ofelia, spiegato con un “i ricchi – o le persone bene – hanno più libertà – o facilità – di suicidarsi rispetto ai poveri”. Ma per Amleto tutto dà lo stesso, e l’ambiguità significativa del giullare, il pleroma del Rebis, del Res Bis, della “cosa doppia”, sbiadisce sotto l’ondata mortifera della malinconia del principe di Danimarca.
Ricordo che durante le sedute iniziali della mia prima analisi feci un sogno altro, diverso rispetto a quelli che portavano alla luce tonnellate di scorie parentali. Sognavo di trovarmi in una spiaggia dove si svolgeva una grande festa, con luminarie e tanta bella gente, molto curata e ben vestita, molto abbiente, potente, importante e trasgressiva – nel senso dell’eccedenza di quei limiti naturalmente imposti ai poveri nel commento dei fossori. Una festa di cui non sentivo l’appartenenza e che liquidai, rivolgendomi all’analista, etichettandola con la frase “sotto il vestito niente”, come un grande nulla, un vuoto tappato dall’eccesso di stordimento e dalla coazione a ripetere, nello stile de La Grande Bellezza, decadente, grottesca, per certi versi felliniana. Ma nel bel mezzo del baccanale, ecco spuntare dal mare la figura di un buffone di corte, un giullare vestito a strisce rosse e gialle, con un berretto a sonagli, simile all’ermafrodita di cui abbondano i testi alchemici di Jung; una figura mercuriale che ancheggiando vistosamente attraversa la spiaggia diagonalmente, trasversalmente, incurante del indignato chiacchiericcio dei presenti, e si avvicina a me.
È notorio che per Jung la figura mercuriale si fa veicolo di messaggi, ha il sapore delle cose nuove, la freschezza delle azioni e dei ruoli inusitati, inconsueti, inediti, che rompono con la ripetizione, con il già detto. È in assoluto il portatore di novità, di una novità piuttosto ambigua e confusa, con–fusa, fusa–insieme, questionante, al di fuori di ogni logica binaria, come il “sillogismo in erba” batesoniano (Bateson, Bateson, 1987): troppo grande perché una coscienza asfittica possa incorporarlo o – per dirla con una parola poderosa del vocabolario pakmaniano – corporarlo. Amleto non fa corpo del prezioso ricordo, e non fa nemmeno anima, Soul-making, così come avrebbe voluto il poeta Keats. Congela tutta la scena, con il gesto, carico di sufficienza, di buttare il nauseabondo teschio sul mucchietto di terra accanto alla fossa e con un triste memento mori a fargli da premessa.
Amplificando – com’è in uso dire tra junghiani – la via trasversale, mi vengono alla mente Suely Rolnik, psicoanalista, e Lygia Clark, artista. Durante una performance artistica (Caminhando, 1964) la pittrice brasiliana Lygia Clark si trovò a lavorare con il nastro di Moebius. È risaputo che la topografia di tale nastro è curiosa e paradossale, dal momento che si tratta di una figura a faccia unica, continuativa, come è possibile apprezzare su alcuni disegni dell’incisore M. C. Escher. Se si taglia la striscia longitudinalmente, ci ritroviamo con due repliche inanellate dello stesso nastro, e così via all’infinito se si continua a tagliare seguendo un percorso in linea retta. E allora, per uscire dall’impasse della ripetizione e del soggetto prefabbricato, la Clark suggeriva di eseguire tagli multidirezionali, imprevedibili, che risolvessero il nastro in una miriade di ricci, di volute, tali da rendere inaspettato e per niente scontato il risultato finale. Un potenziale messo a disposizione da cui la Rolnik trasse ispirazione, seguendo in ciò Felix Guattari, per le sue scorribande artistiche e “vie di fuga” schizoanalitiche. E, se vogliamo stressare la similitudine, un velato rimando all’etica hassidica, la quale sostiene che ciascuno ha il dovere di inventare nuove forme di esperienza: “Innovare o morire”, era la consegna di Rabbi Nachman di Breslav. E un accenno all’esegesi non-interpretativa dei testi, la lettura hassidica, l’arte di far esplodere le parole per aprirle al senso mai definitorio delle lettere che le compongono. Affinché le lettere possano coesistere insieme alle parole. E perché la parola sia sempre plurale.
Concludo con un brevissimo accenno alla complessità del pensiero pakmaniano, che non ha a che vedere con complicate metodologie o pratiche intellettuali da circoli Viennesi, ma con una posizione esistenziale fondamentalmente etica e profondamente umana che gli segna il nord. Marcelo Pakman, accanto alla formazione medico-psichiatrica, ha una robusta preparazione epistemologica e filosofica, versata soprattutto nel pensiero moderno e post-moderno. E con un riguardo particolare per le pratiche sistemiche, essendosi formato indirettamente con Gregory Bateson (di cui ha curato gli scritti postumi in lingua spagnola) e più direttamente con Heinz von Foester, uno dei padri fondatori della cibernetica del primo e del secondo ordine, con cui ha collaborato e di cui ha curato alcuni scritti. Aggiungo che, oltre alla pratica clinica e alle supervisioni, svolge una nutrita attività di conferenziere presso molte facoltà, centri di cultura e di teoria e pratica terapeutica degli Stati Uniti, del Centro e Sudamerica, dell’Europa e dell’Asia. In Italia conduce, insieme a Pietro Barbetta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, i seminari itineranti dal titolo “Pensar la Clinica”.
Bibliografia
Bateson, G.; Bateson, M. C. (1987), Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989.
Bollas, C. (1987), L’ombra del soggetto, Milano, Raffaello Cortina, 2018.
Croce, G. C. (1620), Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, Milano, Ares, 1987.
Masters, E. L. (1915), Antologia di Spoon River, Torino, Einaudi (2014).
Pakman, M. (2018), Immagine e immaginazione in psicoterapia: Al di là della scienza empirica e della svolta linguistica, Roma, Alpes.
Pakman, M. (2018), El sentido de lo justo: Para una ética del cambio, del cuerpo y la presencia, Barcelona, Editorial Gedisa.