di Beatrice Chinnici, Donatella De Colle, Andrea Mosconi
Nella sua monografia Verso un’ecologia della mente Bateson riflette approfonditamente sulla questione del contesto. Egli contesta la tradizionale visione secondo la quale una qualsiasi azione è da intendersi la variabile dipendente del suo contesto, la cosiddetta variabile indipendente o determinate, tracciando così i contorni di una relazione causale; secondo Bateson questo modo di intendere le cose della natura non consente di percepire cosa significhi ecologia delle idee che costituiscono il piccolo sottosistema del contesto. Azione e contesto si pongono in un rapporto di costanza nell’inesorabile processo bidirezionale di adattamento mantenendo, allo stesso tempo, la sopravvivenza dell’ecologia che si evolve. I termini di questa relazione, dunque, subiscono incessanti cambiamenti momento per momento seguendo la logica dell’adattamento: ben si presta l’esempio dell’evoluzione del cavallo che Bateson menziona. L’evoluzione del cavallo a partire dall’Eohippus non si può pensare come un cambiamento unilaterale della vita dell’animale alle pianure erbose poiché è certo che a loro volta l’ambiente pianeggiante ed erboso si è modificato nel tempo al pari dell’evoluzione degli zoccoli e dei denti del cavallo; la zolla d’erba è la risposta adattiva evolutiva della vegetazione all’evoluzione del mammifero. La costanza della relazione si mantiene tale perché entrambi i termini della relazione cambiano per cui qualunque modifica dell’uno, se non corretta dal cambiamento dell’altro, potrà mettere a repentaglio la sopravvivenza della relazione stessa. (Bateson, 1976)
Nella cultura occidentale, in effetti, esiste quest’idea che la realtà sia abitata da soggetti pensanti autonomi in un ambiente a loro esterno su cui sono liberi di intervenire: Bateson è tranciante su questo aspetto affermando con forza che l’idea secondo cui nell’universo ci sono “cose” separate è una “creazione” e una proiezione della psicologia di ognuno di noi, che guida ad ascrivere una separazione tra le idee, la successione di eventi, i sistemi e le persone (Deriu, 2000). Il modo fondamentale di pensare ai problemi in gran parte delle scienze sociali era governato dai due principi di riduzione e disgiunzione, isolando le variabili e separandole dal loro ambiente. Riduzione e disgiunzione sono stati due principi organizzativi chiave che hanno plasmato gran parte della scelta della psicologia di concentrarsi sull’individuo, a scapito, ad esempio, dei “fattori sociali” (Montuori, 20005). Ma tutto ciò non esiste. Come non esiste la separazione tra essere umano e ambiente esterno oggettivo che abita ma essi si costruiscono e si adattano l’un l’altro; una reciproca relazione in cui l’ambiente seleziona gli organismi e gli organismi selezionano l’ambiente (Deriu, 2000). Come lo stesso Bateson afferma, senza il contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato e ciò è vero non solo per la comunicazione verbale ma anche per qualsiasi comunicazione, per tutti i processi mentali, per tutta la mente (Montuori, 2005).
Il successivo lavoro di Bateson Mente e Natura è il primo tentativo di fornire le basi di un cambiamento epistemologico, chiedendosi quale sia la struttura che connette: non una struttura fissa, non una struttura situata nelle cose ma della rappresentazione di un sistema di relazioni attinenti al mondo del vivente che si svincola in diversi livelli di connessioni. Le connessioni di primo ordine tra le varie parti del singolo essere vivente, il secondo ordine di connessioni riguarda le relazioni tra diversi esseri viventi. È così chiaro che la struttura che connette, per Bateson, è la struttura di struttura cioè una metastruttura che ha a che fare con le relazioni e le interrelazioni. Il modo migliore per capirla è quello di pensarla come una danza di parti interagenti (Deriu, 2000). L’idea propugnata da Bateson è ben sintetizzata nel metalogo Quante cose sai?: la struttura che connette, la sacra unità della biosfera, il concetto che tutte le realtà viventi sono connesse, hanno le caratteristiche proprie della mente e per questo possono essere comprese attraverso un modello comune, quello della cibernetica e della teoria dei sistemi (Deriu, 2000).
Bateson richiama così la centralità della relazione nel processo di comprensione e spiegazione dei processi mentali. La relazione è epistemologia se si assume la premessa che l’essere umano è immerso nella connessione: riposa nella relazione la comprensione della realtà. L’io non esiste senza il con (Padoan, 2020).
Riprendendo il nucleo riflessivo batsoniano della struttura che connette, è inevitabile approdare al maestoso lavoro che interessò gran parte dell’attività speculativa dell’antropologo, teso a dimostrare la fallacia dell’approccio dualistico tipico della tradizione religiosa e medica del suo tempo, che contrapponeva la mente e il corpo per riconoscere e mostrare la fondamentale unità dei processi biologici e le caratteristiche mentali di tutti i processi vitali complessi (Deriu, 2000).
È proprio al modello biomedico che le riflessioni di Bateson puntano, poiché esso affonda le sue radici nel paradigma lineare causa-effettuale, che ha inneggiato all’illusione di poter ridurre a semplici determinanti la malattia e la salute umana, nutrendosi della “filosofia meccanica” alimentata da Cartesio, Newton, Boerhaave e De La Mettrie, negli ambiti di studio della filosofia, della fisica e della medicina (Bottaccioli, 2014). L’approccio riduzionistico meccanicista ha alimentato l’idea del corpo malato, della malattia come entità nosologica, senza tener conto che la descrizione di malattia conta almeno di tre dimensioni: disease, malattia come entità nosologica, illness cioè l’esperienza soggettiva della stessa, l’esperienza della sofferenza e infine sickness cioè il ruolo sociale di malato che si acquisisce. Il rischio di non considerare tutte e tre le dimensioni è quello di escludere dalla rappresentazione mentale di malattia tutti quegli aspetti dell’esperienza del corpo che hanno a che fare con le relazioni sociali (Dei, 2006).
È la matrice ecologica del modello “biopsicosociale” (1946) che integrerà sistematicamente i fattori biologici, psicologici e sociali, incluse le loro complesse interazioni, nella comprensione della salute psicofisica oltre che nella scelta dell’intervento terapeutico, ponendo la sua attenzione su un approccio unitario e integrato dei vari aspetti della vita della persona ben si adatta all’approccio multidisciplinare che ogni equipe che si occupa di salute dovrebbe perseguire. Tutto ciò parallelamente all’adozione, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, della nuova definizione di salute secondo la quale essa: “è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto di assenza di malattia o infermità” (Szadeiko, 2020).
Lo studio delle complesse interrelazioni tra psiche, cervello e sistemi biologici costituisce l’obiettivo principale della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI): in essa convergono, all’interno di un unico modello, conoscenze acquisite, a partire dagli anni Trenta del XX secolo, dall’endocrinologia, dall’immunologia e dalle neuroscienze. Questa disciplina scientifica è imperniata su un paradigma che propone un approccio sistemico e multidimensionale all’organismo umano e alla salute (Bottaccioli, et al., 2019) Questa cornice permette di inglobare al suo interno la concezione secondo la quale la personalità è il risultato di continue interazioni tra caratteristiche genetiche ed esperienze che derivano dagli scambi con il mondo, soprattutto con l’ambiente sociale familiare e culturale. La vulnerabilità alla malattia psico-fisica non dipende né dai geni né dalle esperienze ambientali presi singolarmente: il paradigma teorico che permette di adottare e ragionare in questi termini è quello dell’epigenetica.
Il termine “epigenetica”, usato per la prima volta nella metà del Novecento da Conrad Waddington, embriologo e genetista inglese, che rivoluzionerà la classica visione del genoma, non più visto come un centro direttivo che impartisce istruzioni ma come un dispositivo di adattivo che risponde alle esigenze ambientali regolando l’espressione genetica (Bottaccioli, Bottaccioli, 2012). L’epigenetica è quindi una branca della biologia che studia l’interazione tra geni e ambiente e spiega come essa possa modificare le funzioni neuronali dal punto di vista strutturale, funzionale e comportamentale; secondo l’attuale definizione le modificazioni epigenetiche sono tutte quelle modificazioni risultanti dall’interazione tra ambienti e genotipo che avvengano senza che la sequenza di DNA si alteri: esse rappresentano l’espressione delle modifiche fenotipiche, stabili ed ereditarie, in assenza di cambiamenti del genotipo. Sulla scia di questo paradigma quindi i geni da un lato contengono ed elargiscono le istruzioni, per esempio, per le fasi iniziali dello sviluppo del sistema nervoso centrale, dall’altro i fattori ambientali (stile alimentare, esercizio fisico, stress, assunzione di farmaci, agenti patogeni etc.) modellano la sua strutturazione e funzionalità (Vicari, Caselli, 2017). I meccanismi epigenetici veicolano le influenze ambientali sui geni (sottoforma di unità molecolari o marker) contribuendo all’attività genica in risposta alle esperienze. Questo paradigma rappresenta un ponte che funge da collegamento diretto tra le scienze umanistiche, sociali e le scienze biologiche, e così facendo getta le basi per costruire una visione integrata del comportamento e della salute umana. Recenti ricerche, per esempio, hanno stabilito il ruolo di processi epigenetici alla base della relazione tra comportamento materno e sviluppo dell’asse HPA: l’assenza di un attaccamento sicuro esiterebbe nell’impossibilità di una regolazione affettiva sufficiente a supportare una gestione ottimale delle richieste ambientali, favorendo uno squilibrio dell’asse HPA. La relazione significativa, non solo quella primaria, potrebbe agire attraverso meccanismi epigenetici per indurre cambiamenti stabili: la relazione significativa sarebbe considerata come fattore in grado di intervenire con la sua rilevanza affettiva, attraverso meccanismi epigenetici, sui sistemi regolatori e meta-regolatori inducendo un cambiamento duraturo nelle modalità emotive e affettive dell’individuo (Rocchi, et al. 2015).
Come assemblare i concetti dell’epistemologia batesoniana e dell’epigenetica? La risposta a questa domanda è una: teoria allostatica. Bateson in Mente e Natura marca con fermezza l’inesistenza dell’oggettività dell’esperienza: la percezione, che crea un’immagine e ne attribuisce un valore, è mediata da specifici organi sensoriali: la spiegazione di un oggetto (o situazione, comportamenti, evento) scaturisce sempre da una descrizione, che conterrà sempre caratteristiche arbitrarie. Ma allora in che modo l’individuo percepisce, acquisisce ed elabora le informazioni? Alla base del pensiero di Bateson c’è la convinzione che per comprendere il funzionamento del singolo occorre considerare l’organismo inserito nel suo ambiente. (Bateson, 1972) L’individuo si sviluppa nell’ambito di una spinta auto-organizzatrice che incorpora il bagaglio ereditario e le esperienze, che ha come finalità l’adattamento. L’autoregolazione è la capacità di gestire pensieri e sentimenti, in modo flessibile e adattivo, in relazione al contesto socio-relazionale e a bisogni interni: in altre parole, la gestione dei processi adattivi e lo stress a essi legato. Ogni processo autoregolatorio è finalizzato alla riduzione della discrepanza negativa o all’aumento di una discrepanza positiva che implica una duplice e contemporanea valutazione della domanda e delle possibilità di risposta. Questa è una visione che abbraccia quella proposta da Lazarus, secondo il quale i livelli di stress non siano situati nello stimolo o nella risposta quanto nel processo, legato alla percezione individuale: i livelli di stress e le strategie di coping dipendono dal processo di valutazione cognitiva e di attivazione emozionale dipendenti all’evento o alla situazione: valutazione soggettiva che implica la domanda “cosa implica per me questo?” L’autoregolazione è quindi quel processo vitale teso a ridurre la discrepanza negativa o ad amplificare la discrepanza positiva tra le richieste (interne o esterne) e le risorse che il soggetto percepisce di possedere o da cui attingere dal contesto. Il prezzo da pagare per il bilanciamento e quindi per la mobilitazione necessaria è lo stress (Lazzari, 2020).
È con la teoria allostatica che possiamo interpretare il concetto multilivello di stress. La risposta adattativa dell’organismo, utile per mantenere l’omeostasi in risposta agli stressor, viene denominata allostasi, cioè la capacità di raggiungere la stabilità attraverso il cambiamento (Bottaccioli, Bottaccioli, 2020). Tale paradigma coniuga le complesse interrelazioni tra psiche, cervello e sistemi biologici in termini di benessere in linea con la natura multidimensionale dell’approccio della PNEI (Bottaccioli, et al., 2019); esso mette in luce l’entità delle modificazioni multisistemiche e coordinate, fisiologiche e comportamentali, che vengono messe in campo ogni qualvolta l’organismo è impegnato nel raggiungimento di un nuovo equilibrio, uno sforzo dinamico che l’organismo realizza per mantenere la salute (Minelli, 2020). Il cervello è l’organo fondamentale nel modello allostatico. Le strutture corticali e limbiche sono coinvolte nei processi cognitivi ed emotivi nell’attribuzione del significato personale agli stimoli percepiti e guidano la risposta comportamentale e fisiologica agli eventi stressanti (Bottaccioli, et al., 2020). Dal punto di vista fisiologico il cervello è la sede centrale dei circuiti attivati dagli stressor, tra tutti l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) con la mediazione degli ormoni CHR- ACTH-cortisolo, che svolge un ruolo centrale poiché gli ormoni che rilascia hanno un effetto sistemico sull’organismo (Bottaccioli, Bottaccioli, 2020). Minacce sociali o eventi psicosociali che pongono a rischio l’autostima evocano l’attivazione dell’asse dello stress (Minelli, 2020). L’attività cellulare e i mediatori prodotti dall’asse HPA, dal sistema immunitario e dal sistema nervoso producono l’allostasi; questo stato di omeostasi è per ovvie ragioni influenzato anche dalle interazioni sociali e dal modo in cui il nostro sistema nervoso si è regolato in funzione delle nostre connessioni relazionali (Siegel, 2021). Il nostro organismo, però, paga un prezzo per adattarsi alle mutevoli condizioni che affronta mediante l’attività cellulare del sistema dello stress e del sistema immunitario: il carico allostatico (CA).
Nonostante questi meccanismi siano protettivi nel breve tempo, possono manifestarsi a lungo tempo dei problemi. McEwen ha identificato quattro tipologie di danno che il CA può provocare: uno stress cronico, che causa l’elevazione dei mediatori dello stress per lunghi periodi di tempo; il mancato adattamento a uno stressor ripetuto nel tempo; un’incapacità di bloccare la secrezione di ormoni di risposta allo stress o di ripristinare il ritmo circadiano terminato l’evento stressante e un’inadeguata risposta ormonale. Il tipo di risposta agli eventi stressanti dipende alle strategie di coping, cioè alle capacità di adattamento, che dipendono sia da fattori genetici che esperienziali, soprattutto le esperienze vissute nei primi anni di vita. (Trabucchi, et al., 2012).
L’esposizione protratta a situazioni che il cervello valuta come stressanti induce stati emozionali negativi e risposte fisiologiche e comportamentali che favoriscono l’accumulo allostatico sui sistemi fisiologici con conseguenze negative sulla salute: in termini allostatici parliamo di sovraccarico allostatico, inteso come il peso biologico (energetico) che si accumula nel corpo nel processo continuo di adattamento all’ambiente, costantemente tendente all’equilibrio tra le richieste ambientali e le risorse a disposizione. Le condizioni di stress ripetuto o cronico causano modificazioni fisiologiche che divengono meno flessibili e reversibili che possono usurare i sistemi di regolazione: disturbi cardiovascolari e metabolici per i livelli cronici elevati di catecolamine e cortisolo (ipertensione, sindrome metabolica), l’eccesso di cortisone causa danni neuronali ippocampali con inibizione della neurogenesi, interferenza con i processi di apprendimento e mnestici; si può presentare una compromissione del sistema immunitario con aumento della vulnerabilità alle infezioni, elevata predisposizione di sviluppo dei tumori (Minelli, 2020).
Le premesse su cui si basa l’approccio sistemico vedono ogni comportamento inteso come comunicazione, la cui attenzione si focalizza sulla relazione reciproca tra intenzioni individuali ed effetti pragmatici e sulla definizione della relazione tra i componenti di un sistema; inoltre, il sintomo del paziente è l’espressione di un disagio associato anche alla posizione relazionale che egli occupa all’interno del suo sistema di relazioni significative, socio-familiari. Queste premesse ben si accostano al modello clinico PNEI poiché la comunicazione come comportamento può essere tradotto i termini di sistema di auto-regolazione che si basa sul processo di attribuzione di significati connesso circolarmente con il sistema dello stress (influenzato dalla posizione e funzione nel proprio sistema di riferimento), questo perché un sintomo, psichico o fisico, non può prescindere dal funzionamento del sistema vivente che lo manifesta (a sua volta inserito nel suo più ampio sistema relazionale sociale di riferimento). Sembra che l’incapacità dell’individuo di percepire la natura del sovraccarico allostatico in atto (che innesca una catena di successive alterazioni nel funzionamento dell’organismo), sia un aspetto centrale della relazione tra salute e malattia. Ciò significa che, non possedendo un indice cosciente dell’entità del proprio sovraccarico allostatico, non siamo in grado di fermare le reazioni e i processi generati dal sistema dello stress, anche quando tali processi tendono condurci verso la condizione di malattia. Inoltre, s’ipotizza che la via biologica e quella psico-comportamentale si rinforzino a vicenda per strutturare le situazioni e le abitudini disfunzionali per la salute, in una progressione che avviene all’interno di continui feedback tra individuo e ambiente (Bernardini, 2014).
Maturana e Varela (1984) hanno usato il termine di autopoiesi, come struttura che individua nei sistemi biologici un dominio in cui forma, ordine e complessità si producono emergendo, auto-organizzandosi e influenzandosi reciprocamente. Gli autori definiscono i sistemi come assemblati intorno all’asse della globalità integrata e in cui, le proprietà emergentiste sono funzioni della globalità del sistema: il coinvolgimento della struttura nel suo assetto totale, nel suo sistema di interrelazioni che fa emergere la nuova forma.
Ulteriormente, il concetto di carico allostatico ben si mette in parallelo col concetto di omeostasi della teoria dei sistemi (De Robertis, 2005) e in cui la capacità di auto-organizzazione della materia vivente ha acquisito rilevanza (Prigogine, 1997), come rappresentante la nuova proprietà della materia: solo i sistemi aperti e dinamici sono in grado di costruire strutture e modelli prodotti dalla capacità innata che è l’auto-organizzazione. Possiamo riflettere quindi su cosa possa esser in clinica la rappresentazione di un sistema aperto, come attivarlo e come mantenerlo come qualità interocettiva di tipo psichico.
Quale contributo può arrivare quindi da una visione biopsicobiologica all’interno di un orientamento di lavoro sistemico? In che modo possiamo utilizzare e quale funzione può avere per il clinico una cornice di questo tipo?
Che senso ha il parlare di elementi di tipo biologico in una cornice terapeutica di tipo sistemico?
L’invito è quello di mantenere una visione ampia in senso non solo relazionale rispetto al contesto, ma anche relazionale nel senso di struttura che connette in senso organico ed evoluzionistico. Il tenere a mente i funzionamenti psico-organici dell’individuo, e il connetterli con il contesto esterno e con i marker epigenetici di esso, può offrire un canovaccio al clinico, permettendo allo stesso di considerare i vari livelli (influenza psicobiologica del contesto, stile di vita, traumi e stress emotivo e sistemico, marker epigenetici, curva dello stress, etc.) (Bottaccioli e Bottaccioli, 2020). Questi canovacci interni possono guidare ulteriormente la creazione di una ipotesi biopsicorelazionale e offrire direzioni e interventi ben contestualizzati, anche nella capacità di invio a colleghi afferenti a professionalità diverse, con i quali risulterebbe necessario poter comunicare con un linguaggio comune di tipo biologico.
Pensare quindi ad una struttura più ampia che connette, allargare i campi di interrelazione anche a ciò che sta intorno al sistema di relazioni dell’individuo, come influenza del contesto su aspetti psiconeuroendocrinoimmunologici, e avendo così idea di ciò che influenza e ciò che è influenzato ci sembra possa essere una nuova direzione di cornice sistemica nel senso più ampio della parola.
Si può ipotizzare una formazione clinica quindi che può permettere di creare una visione più ampia e curiosa del sistema, per la qual cosa risulta necessaria una propria cultura di rappresentazione biopsicosociale, una visione biologica di tipo circolare, non deterministica e necessariamente integrata (Bottaccioli, Bottaccioli, 2020). In questa fase di grandi cambiamenti sociali, la Psiconeuroendocrinoimmunologia rappresenta un modello sistemico efficace per lo studio e la presa in carico della persona nella sua complessità, avendo in mente il lavoro multidisciplinare. Rivalutare lo studio delle emozioni e delle cognizioni in un’ottica integrata può mettere in luce ciò che unisce e non ciò che divide.
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[Nell’immagine: Conrad Waddington]