di Luca Casadio
Introduzione
L’inconscio è un concetto di esclusiva pertinenza psicoanalitica o può essere utile e fecondo anche per altre forme di psicoterapia? E come declinarlo in ottica sistemica? E, più in particolare, chi si occupa di famiglie, o pratica la cosiddetta psicoterapia sistemica individuale,si può avvalere di tale concetto o appartiene piuttosto a una diversa epistemologia?
Per rispondere a queste domande, e per mostrare l’importanza dell’inconscio anche in ottica sistemica, è necessario riassumere il modello freudiano classico, rendere espliciti i suoi presupposti epistemologici, per poi confrontarli con le idee originali di Gregory Bateson, padre dell’ottica sistemica. Da questo confronto emergeranno, delle riflessioni particolarmente interessanti, ancora oggi, per la teoria e la terapia sistemica.
L’inconscio freudiano e i suoi presupposti teorici
Secondo l’Enciclopedia della psicoanalisi, di Laplanche e Pontalis (1967), l’inconscio può essere descritto da diversi punti di vista (topico, energetico, dinamico). In senso generale, come semplice aggettivo, il temine inconscioviene usato per definire quell’insieme di contenuti non presenti (in un determinato momento) nel campo della coscienza. Dal punto di vista topico, cioè il punto di vista usato da Freud fino alla pubblicazione de L’Io e l’Esnel 1920, la mente può essere divisa in due diverse porzioni, due provincie psichiche; quella conscia (che include anche il sistema preconscio) e quella inconscia. L’inconscio cioè sarebbe il risultato di un determinato processo mentale, la rimozione, che, per l’appunto, relega lontano dalla coscienza alcuni contenuti inaccettabili, soprattutto istanze sessuali e aggressive. Secondo il padre della psicoanalisi, questi contenuti, seppur collocati nell’inconscio, cercherebbero lo stesso una via di scaricae un accesso alla coscienza, anche se in forma mascherata (per opera della condensazionee dello spostamento, caratteristiche del cosiddetto processo primario). L’accesso alla coscienza sarà possibile, così, solo superando tutte le resistenze, cosa che, per Freud, caratterizza anche il processo di cura, come nel motto: Far subentrare l’Io dove prima c’era l’Es. In tale ottica, i contenuti dell’inconscio sono soprattutto rappresentanti delle pulsioni, cioè tutte quelle spinte, che hanno come fonteun’eccitazione somatica e come metala scarica di tale energia.
Con l’introduzione della seconda topica freudiana, e la struttura tripartita della mente, le cose cambiano. Questo perché ogni struttura psichica mostra un aspetto inconscio (anche l’Ioe il Super-Io), anche se le caratteristiche salienti dell’inconscio vengono di fatto attribuite all’Es.
Dal punto di vista energetico (punto di vista che Freud non abbandonerà mai), l’inconscio deriva da una forma di investimento di energia psichica(concetto sfocato e mai accuratamente definito, vedi Holt, 1989). L’investimento energetico di alcune tracce mnestiche, collegate a desideri infantili rimossi, rendono così un contenuto mentale inaccessibile alla coscienza. Ma si tratta di un processo reversibile.
Oltre a tutto questo, Freud sostiene che l’insieme delle pulsioni (per lui le spinte fondamentali dell’uomo, il vero sistema motivazionale umano) siano per loro natura inconsce. Inconscio sarebbe quindi anche una sorta di residuo arcaicodella mente, composto da tutte le forze biologico-istintuali tramandate da generazione in generazione.
Il modello freudiano classico, quindi, appare un modello meccanicista, basato su una concezione monologica(a-relazionale) della mente umana, checonsidera il soggetto esclusivamente all’interno di un sistema chiuso (Holt, 1989, Greemberg, Mitchell, 1986). Infatti, il compito principale di tale soggetto è per l’appunto quello di governare le proprie pulsioni sessuali e aggressive. In questo quadro, le relazioni intersoggettive sarebbero secondarie, oggettodella pulsione stessa, come a ribadire che ciò che determina il soggetto, e le sue dinamiche mentali, sono le sue pulsioni e non di certo lo scambio tra i diversi soggetti.
Bateson e l’inconscio
Se l’approccio sistemico, nel suo complesso, si rifà, più o meno direttamente al pensiero di Gregory Bateson, allora, può essere interessante ricordare le idee dell’antropologo inglese relative all’inconscio, e alle emozioni, ad esso strettamente collegate. Solo apparentemente, nel suo variegato campo di studi, Bateson non approfondisce queste tematiche. In verità, scavando solo un po’ più a fondo tra i suoi scritti, è facile constatare come l’epistemologo inglese ci offra, ancora oggi, una riflessione preziosa sull’inconscio, le emozioni, e sul ruolo che queste istanze svolgono nelle relazioni umane e nel processo di cura. Ancora oggi una guida per l’intervento clinico.
Gli articoli di Bateson che trattano questi temi sono molteplici: da quelli che cercano di descrivere i caratteri nazionali; a quelli che esplorano le modalità di apprendimento (e deutero-apprendimento) nell’isola di Bali, soprattutto, attraverso le danze tradizionali; fino a quelli che prendono in considerazione i modelli freudiani (il cosiddetto pensiero primario) e tutte le comunicazioni analogiche o metaforiche che gli individui si scambiamo nelle relazioni.
Tra tutti questi testi proviamo ad analizzare in dettaglio lo scritto a mio avviso più ricco di riferimenti all’inconscio e alle emozioni. Si tratta di Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva (Bateson, 1972).
Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva
Questo articolo è talmente denso e ricco di suggestioni che meriterebbe una rilettura attenta, addirittura frase per frase. In questo contesto, per ovvi motivi di spazio, mi limiterò a sottolineare e commentare alcuni passi salienti, invitando il lettore a riprendere in mano questo fondamentale testo.
L’antropologo inglese inizia la sua riflessione sottolineando come la graziarappresenti un aspetto fondamentale per l’umanità. E subito dopo aggiunge che la grazia deve essere considerata come “un problema di integrazione”. In pratica, ciò che il soggetto può integrare, sono le diverse parti della propria mente; in special modo quei livelli che genericamente sono chiamati coscienzae inconscio. A mio avviso, questo testo risulta particolarmente utile perché incrocia il tema delle emozioni, e delle conoscenze tacite (come le chiameremmo oggi), con una discussione epistemologica sull’inconscio dinamico e sui modelli della mente e della cura.
La grazia, così, si può sperimentare quando le ragioni del cuore, come dice Bateson, s’integrano con le ragioni della ragione, cioè con la coscienza. L’epistemologo inglese non vuole cercare un metodo di decodifica dell’inconscio, del messaggio artistico, o anche del sogno, e neanche un’interpretazione simbolica; non vuole cioè creare quella che Bateson definisce una mitologia interpretativa(come fece Freud, utilizzando la sessualità infantile come chiave di comprensione di ogni contenuto mentale), ma intende comprendere più a fondo il valore di alcuni messaggi inconsci, al di là delle parole e del messaggio espresso. In questo modo, Bateson enuclea diversi livelli di cui è composta la mente (ovviamente una mente “immanente al sistema di comunicazione in atto”, come ha sempre ricordato nei suoi articoli).
Proviamo a descrivere questi livelli uno per uno, da quelli più distanti a quelli più vicino al linguaggio e alla finalità cosciente:
1) Il primo livello della mente riguarda l’abitudine, come aveva già fatto notare a suo tempo Samuel Butler (vedi il testo stesso di Bateson). In pratica, tanto più un organismo conosce qualcosa, tanto meno diviene cosciente di tale contenuto. L’abitudine, come si deduce, fa scenderenella mente alcune conoscenze a livelli sempre più profondi, sempre meno coscienti. Ovviamente, tale inconsapevolezza non riguarda in nessun modo la rimozione, o un’altra forma attiva d’interdizione alla coscienza, come ipotizzava Freud. Oggi, diremmo che riguarda un sapere tacito, procedurale, delle informazioni muscolari, estetiche, che non si possiamo in nessun modo tradurre in parole (se non grazie alle metafore, e sempre con un grosso sforzo di traduzione).
2) Il secondo livello della mente è quello che riguarda le premesse percettive, quelle cioè che ci permettono di vedere, di cogliere un oggetto, seguendo, per esempio, le leggi matematiche della prospettiva. Chiaramente, non siamo consapevoli di tutte le operazioni che ci permettono di percepire un qualunque oggetto, ma solo del risultato finale. E questo è, secondo Bateson, oltre che utile, anche il modo generale di funzionare della coscienza umana, che ci mostra un percetto, ma oscura tutto quello che ci sta dietro, cioè tutti i processi realizzati dal soggetto stesso per ottenere tale risultato.
3) Un livello ulteriore riguarda poi tutte le metafore, le immagini della mente, come i sogni, che sono definiti grazie al pensiero primario, ipotizzato da Freud nei primi del ‘900. In pratica, Bateson – compiendo una sofisticata analisi epistemologica – rifiuta il punto di vista energetico freudiano, per andare, invece, a studiare i processi mentali e la logica metaforicadi base. Logica che, a suo avviso caratterizza tutti i sistemi viventi.
4) L’ultimo livello – su cui Bateson esprime diversi dubbi – riguarda proprio l’inconscio freudiano, quello dominato dalla rimozione.
L’epistemologo inglese visualizza questo processo mentali come una cantina o un nascondiglio in cui verrebbero rinchiusi i traumi e i ricordi spiacevoli per il soggetto. Pur non comprendendo l’utilità di tale processo, e soprattutto l’idea di poter rendere conscio ciò che è inconscio, Bateson considera tutte queste concezioni parte dei processi inconsci, o meglio, inconsapevoli del soggetto.
La mente all’opera
Operando sofisticate differenze tra i diversi processi mentali (che seguirebbero così algoritmi diversi), Bateson fa chiarezza sul modo di lavorare della coscienza e di tutto quello che, invece, non può essere consapevole per il soggetto stesso. In questo modo, molte informazioni risultano inaccessibili all’introspezione conscia, compresa la maggior parte dei fondamenti dell’interazione tra i mammiferi, e certo non per opera della rimozione, ma piuttosto per un aspetto strutturale; grazie all’intraducibilità tra i diversi linguaggi della mente, quelli che abbiamo appena descritto.
Con un linguaggio attuale, potremmo sostenere che nelle teorie di Bateson si possono cogliere diversi processi mentali: uno tacito, dominato dalle azioni (come le abitudini) e dai feedback muscolari rispetto a qualunque relazione o campo intersoggettivo; un altro dominato dalle immagini, e da un tipo di pensiero metaforico, e; l’ultimo, dominato dal linguaggio verbale, con una semantica e una grammatica ben specifica, relativa al pensiero conscio. Questi diversi livelli mentali, che tutti insieme collaborano alla formazione delle idee, non devono però essere confusi uno con l’altro, proprio perché ognuno di questi obbedisce a delle leggi specifiche (“Il cuore ha delle leggi che la ragione non può comprendere”). Come scrive ancora Bateson: “Come si è visto, tuttavia, molti altri generi d’informazione sono inaccessibili all’ispezione conscia, compresa la maggior parte dei fondamenti dell’interazione tra i mammiferi. A me sembra ragionevole pensare che questi elementi esistano primariamente nell’idioma del processo primario, solo che essi sono difficilmente traducibili in termini razionali. In altre parole, io credo che buona parte delle prime teorie freudiane fossero capovolte. A quel tempo, molti pensatori consideravano normale e ovvia la ragione conscia, mentre l’inconscio era considerato misterioso, bisognoso di prova e spiegazione. La spiegazione era data dalla rimozione, e l’inconscio veniva riempito di pensieri che avrebbero potuto essere consci, ma che la rimozione e il meccanismo onirico avevano distorto. Oggi riteniamo misteriosa la coscienza, mentre i metodi di computazione impiegati dall’inconscio, ad esempio il processo primario, li riteniamo continuamente attivi, necessari e onnicomprensivi” (1967, 169).
Come risulta evidente, Bateson non accetta in toto le teorie freudiane, e considera il tentativo di far subentrare l’Io dove prima c’era l’Es 1, un retaggio di una “epistemologia totalmente distorta di che cosa mai sia un uomo, o qualunque altro organismo” (ibidem, 170).
Quello che a Bateson risulta inaccettabile è proprio il transito di idee della stessa medesima fattura, tra l’inconscio e la coscienza. Tra queste diverse istanze, invece, – con una modernità straordinaria – ipotizza una barriera, una forma di intraducibilità, basata sulla differenza tra i diversi formatiin uso. Per Bateson, cioè, questi formati rappresentano diversi modi di elaborare le informazioni, e non due (o più) provincie psichiche. Come sottolinea ancora lo studioso inglese: “In realtà la nostra vita è tale che le sue componenti inconsce sono continuamente presenti in tutte le loro molteplici forme” (ivi).
Bateson cerca così di uscire dall’idea di repressodi Freud, per cogliere tutti i diversi livelli di senso, compresenti in ogni atto comunicativo, i “diversi modi di essere della mente”, come direbbe lo psicoanalista cileno Matte Blanco (1981). Come scrive ancora Bateson, nelle interazioni ci scambiamo continuamente dei messaggi su questi aspetti inconsci, soprattutto quelli che riguardano le relazioni, i segnali di stato, le emozioni prima di tutto, che mostrano un commento alla relazione attuale. Bateson, in questo modo, rilegge il processo primario, come qualcosa di puramente metaforico, e afferma che: “La coscienza parla di cose o persone e attribuisce predicati alle cose o alle persone specifiche che sono state menzionate. Nel processo primario le cose o le persone sono di solito non identificate, e il discorso è concentrato sulle relazioni che si sostiene esistano tra di esse. In realtà, questo è solo un modo diverso per dire che il discorso del processo primario è metaforico: una metafora mantiene inveriate le relazioni che ‘illustra’, mentre sostituisce ai termini della relazione cose o persone diverse. In una similitudine l’uso di una certa metafora è segnalato dalle locuzioni ‘come se’ o ‘come’. Nel processo primario (come nell’arte) non vi sono segni che indichino alla mente coscia che il materiale del messaggio è metaforico. (…). Il soggetto del sogno e gli altri materiali del processo primario sono, in realtà, relazione nel senso più ristretto di relazione tra l’io e le altre persone, tra l’io e l’ambiente. (…). La relazione tra l’io e gli altri e tra io e l’ambiente sono, in realtà, i contenuti di quelli che sono chiamati ‘sentimenti’: amore, odio, timore, fiducia, ansia, ostilità, ecc. Queste astrazioni, che si riferiscono a strutture di relazione, hanno sfortunatamente ricevuto un nome il cui uso di solito presuppone che ‘i sentimenti’ siano caratterizzati principalmente dell’intensità piuttosto che da una precisa struttura” (1967, 174).
Ne consegue che anche le immagini e le metafore sono prodotti dell’inconscio (o meglio del pensiero primario), cioè elaborazioni emotive del soggetto, basate su di un sapere sensoriale e relazionale. Ma metaforiche possono essere le relazioni stesse; secondo Bateson, infatti, il gatto che ha fame non dice alla sua padrona: “Dammi il latte”, ma: “Fammi da mamma”, comportati con me come fa una mamma gatta con il suo cucciolo (vedi Bateson, 1960).
La coscienza, quindi, per Bateson non rappresenta che un arco parziale di un processo ben più complesso, e non di certo un’informazione completa. In questo modo, l’arte (come esempio di sapere emozionale, o il sogno) costituisce un correttivo– come scrive Bateson – che aiuta il soggetto a comprendere, a toccare con mano “la natura sistemica della mente”. Una modulazione, da parte del soggetto, del suo stesso modo di vivere le relazioni con gli altri all’interno di diversi contesti.
Bateson e l’inconscio: conclusioni
Per concludere questa breve sintesi delle riflessioni di Bateson sul tema dell’inconscio, possiamo affermare che il suo sguardo era, come al solito, complesso, ma, al contempo, anche capace di gettare lo sguardo oltre a un’oscura fenomenologia, come quella del pensiero primario, intuendo un vero e proprio universo di significati. L’inconscio, così, riguarderebbe diverse cose: un sapere muscolare, qualcosa cioè affine alla sensibilità del soggetto, alla sua capacità di sperimentare, ma anche; un sapere muto, procedurale, “qualcosa che si avverte con le ossa, con i muscoli” (come dice a proposito della danza a Bali), oltre a qualcosa che si basa su di una logica metaforica, basicamente relazionale, tipica, a suo avviso, dei mammiferi. Infatti, le immagini della mente si strutturano su e attraverso specifiche metafore, e soprattutto grazie alla struttura relazionale delle metafore stesse; una struttura che permette la nascita di storie e l’articolazione del pensiero. Ma questo accade anche grazie alla “Metafora che noi siamo” (Bateson, 1977), in quanto anche noi stessi siamo parte di un’ecologia più complessa. Siamo un personaggio tra altri personaggi che si definisce solo nell’insieme dei rapporti e delle “scene relazioni” in atto (Casadio, 2015).
Da questo punto di vista possiamo individuare due diverse logiche: una Pleromatica, che tratta di forze e di strutture non vitali, e un’altra Creaturale, che riguarda invece le relazioni tra esseri viventi, basata su relazioni metaforiche, sensibili al contesto, fortemente emotive.2 Secondo Bateson: “È interessate notare che il linguaggio metaforico dei sogni si situa a metà strada tra il linguaggio relazionale del gatto – (che abbiamo ricordato) – e il linguaggio oggettivo che gli uomini ritengono sarebbero in grado di usare se solo potessero smettere di sognare. Nel sogno definiamo le relazioni con sovrana indifferenza per i termini della relazione. Le contingenze della relazione tra me e mia madre mi appaiono paragonabili alle contingenze che esisterebbero tra un omino del deserto e una sorgente in cima ad una montagna di granito. In sogno ci appare la montagna e l’interpretazione diviene possibile quando ci rendiamo conto che la montagna è relativa a uno dei due termini della relazione originaria” (1960, in Bateson, 1977, 216). Descrivendo così un inconscio prettamente relazionale.
Concludendo, possiamo sostenere che, per Bateson l’inconscio, al pari dell’emozione, è qualcosa che può essere descritta grazie al linguaggio, pur senza coincidere con il formato del linguaggio stesso. È piuttosto qualcosa che trapela, che si evince da una relazione, da un soggetto che agisce, che sta parlando, che si relaziona, qualcosa che fa parte del modo di costruire relazioni e vincoli senza per forza fare parte della narrazione del soggetto stesso. Qualcosa che trapela da un soggetto che sovrappone un contenuto semantico a una serie di movimenti, gesti, posture, a modi concreti, di relazionarsi agli altri e di creare con gli altri una trama complessa, una danza di parti interagenti. Come scrive Bateson, molti termini come Amore, Fiducia e Rabbia, possono (o anzi dovrebbero) essere tradotti in sequenze di relazioni, in interscambi, in storie o genealogie e vissuti dei personaggi che s’incontrano, e che si raccontano.
I contenuti di un colloquio clinico, le descrizioni operate dai pazienti, quindi, sarebbero sempre e comunque metaforiche, perché costituirebbero una segnalazione del campo intersoggettivo in atto, utilizzando termini intercambiabili che, però, sono capaci di colorare (e rendere evidente) la relazione vissuta in quel momento, l’emozione del campo. Se tutto questo è plausibile, soffermarsi sulla comunicazione emotiva, e farlo in una relazione calda e sicura, come quella terapeutica, creando un pensiero sulle emozioni (uno svolgimento delle emozioni in storie) e sulle premesse tacite delle relazioni in atto, permette di integrare le diverse parti della mente, sperimentando appunto la grazia e, al tempo stesso, la natura sistemica della mente, l’intrecciarsi cioè di significato, relazione ed emozione in una pienezza di espressione e di senso.
I contenuti inconsci, al pari delle emozioni sarebbero così poetici, perché fanno nascere parole e storie complesse, proprio nel tentativo di descrivere (incarnare) e raccontare un vissuto, il modo soggettivo e idiosincratico di partecipare al contesto a una specifica relazione.
Considerazioni conclusive
Gregory Bateson ci ha mostrato come l’inconscio sia un concetto troppo prezioso per escluderlo dall’ottica sistemica. Anche se, per renderlo pienamente sistemico, si devono operare alcuni accorgimenti epistemologici. Per prima cosa è necessario superare il punto di vista intrapsichico, proprio della psicoanalisi classica, e considerare l’inconscio come una struttura prettamente relazionale, transizionale, potremmo dire in omaggio a Winnicott (1980), un sapere muto, emotivo, metaforico, che si struttura esclusivamente nella zona di interscambio tra il soggetto, gli altri e i contesti a cui appartiene. Un sapere che caratterizza la nostra stessa umanità.
E più che uno sgabuzzino, o un sacco pieno di idee represse, o ancora peggio una serie di contenuti inaccettabili che possono esistere solo in forma mascherata, possiamo pensare l’inconscio come un processo che contribuisce a formare le rappresentazioni, anzi, che costituisce la base su cui poggiano le rappresentazioni stesse. L’inconscio, da questo punto di vista, rappresenterebbe infatti il piano del sentire condiviso, la soggettività sperimentata in ogni contesto interpersonale o familiare. In ogni famiglia, infatti, si definisce e si sedimenta un sapere condiviso, un insieme di storie ed esperienze che definiscono gli atteggiamenti e le rappresentazioni dei suoi componenti. Con l’introduzione dell’inconscio sistemico, molti aspetti tecnici, propri della terapia sistemico-familiare, non possono che mutare. Diciamo che dando un nuovo ruolo a questo concetto si compie definitivamente il viraggio dalla concezione strategica, proprio della cibernetica del primo ordine (vedi Telfener, Casadio, 2002), basata sul controllo del soggetto, a favore di un punto di vista partecipativo, capace di immergersi nei processi emotivi e taciti, propri della famiglia. Processi che il terapeuta stesso contribuisce a narrare, e a trasformare, creando una grazia, un’integrazione tra emozioni, idee e storie.
L’intervento clinico, così, non può basarsi sulla decrittazione di un mondo interno, privato e sconosciuto al soggetto stesso, che solo l’analista conosce, ma si deve basare sul modo di creare legami e contesti e di raccontare se stessi e la propria famiglia.
In questa sede non possiamo di certo elencare tutti i possibili cambiamenti clinici che il concetto di inconscio sistemico comporta, ma può essere interessante evidenziare, come si possa riconsiderare il tema del paradosso. Da questo punto di vista, il paradosso (Selvini Palazzoli et al, 1975) rappresenterebbe proprio la multidimensionalità della comunicazione inconscia, il collegamento ipertestuale (Casadio, 2010b) di aspetti taciti con le storie familiari e personali, tutti i circuiti riflessivi che si possono instaurare tra i diversi livelli della mente. E se l’inconscio può essere pensato come un sapere tacito – alla stregua delle emozioni e di tutto ciò che è viscerale, sensibile – allora si può prendere in considerazione l’idea che la cura consista in un dialogo emotivo(Betrando, 2014), di forte stampo metaforico, dove lo scambio terapeutico ogni volta può riempirsi di parole nuove, di nuove immagini e metafore, utili per descrivere la relazione in atto, di fatto trasformandola. Perché è proprio da questo substrato emotivo che dovrebbero emergere le parole chiave, i reframing, e tutti gli interventi e le tecniche proprie del terapeuta sistemico.
Un caso a parte per le cosiddette domande circolari (Selvini Palazzoli et al, 1980), che potrebbero immediatamente mostrarsi terapeuticheperché vanno a modificare proprio quel sapere proceduraleche lega il soggetto alla famiglia e ai cotesti per lui più rilevanti. In questo modo, non ha senso cercare idee represse, ma piuttosto degli aspetti indicibili che nascono proprio all’incrocio tra relazioni, emozioni e narrazioni. Per il soggetto, o per la famiglia, può essere importante trasformare un assetto mentale, retaggio della storia personale e familiare, grazie alla creazione di nuovi nessi e all’introduzione di nuove metafore nel dialogo terapeutico. Metafore che dicono e che permettono di dire, di dire, mettendo in collegamento emozioni e relazioni, storie personali e saperi sensoriali. Tutto ciò risulta fondamentale per sperimentare quella grazia, cui accennava Bateson, che rappresenta appunto l’integrazione tra conscio e inconscio, ma anche per avvertire la natura sistemica della mente, ovvero la creazione di una nuova interdipendenza affettiva con l’altro. Uno scambio ricco, prezioso, poetico per sua stessa definizione. In questo modo, le narrazioni non costituirebbero un insieme a sé, come spesso sono state considerate in ottica sistemica, ma rappresenterebbero uno dei due pilastri su cui poggia la mente narrativa(Casadio, 2016), perché le emozioni e i contenuti taciti costituiscono gli spazi multidimensionali da cui prendono vita le narrazioni.
Possiamo così pensare l’inconscio, le emozioni, e le narrazioni come vasi comunicanti, capaci di dare vita sempre a nuovi circoli autopoietici. Narrazioni capaci di far nascere nuove immagini, nuove metafore e nuovi presupposti con cui leggere (e costruire) il mondo e noi stessi, in un percorso potenzialmente infinito e senza soluzioni di continuità.
Bibliografia
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