a cura di Barbara Trotta
“ALZIAMO LE MANI”- METAFORA E PISCOTERAPIA. UNA RIFLESSIONE E UN CASO CLINICO.
Valentina Rossi, ex allieva CMTF, sede di Milano
Spesso, fin dalle scuole elementari sentiamo parlare di metafore: nelle poesie, nei testi narrativi. Per definizione la metafora (dal greco metaphorà che significa “trasferimento”) è un “tropo”, ovvero il significato letterale di due o più parole viene capovolto, modificato. Concretamente, in una metafora una parola eredita il significato di un’altra: viene messo in disordine il significato di un insieme di parole per comunicare qualcosa di nuovo. La metafora è connessione e creazione di significati: la sua natura è puramente relazionale. La metafora è per lo più intesa come figura retorica in grado di abbellire e rendere più piacevoli i nostri scritti e il nostro modo di esprimerci. Eppure se la considerassimo solo come una mera figura retorica eluderemmo il suo ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana. Anche in psicoterapia, per molto tempo, si è parlato di metafora. Essa è stata individuata per lo più come uno strumento utile in terapia per comunicare dei messaggi al paziente attraverso una certa forma. Eppure, anche considerare la metafora uno strumento che lo psicoterapeuta impara a padroneggiare è riduttivo e limitante rispetto alle potenzialità che essa può offrire nel dialogo con il paziente. Il linguaggio della metafora è, come direbbe Haley, un linguaggio complesso, “analogico” che si serve di “referenti multipli”: si ha a che fare con le somiglianze di una cosa ad un’altra e queste somiglianze o relazioni permettono la costruzione di un significato. Il linguaggio metaforico quindi assume una forma che ricorda più un’intricata rete di relazioni (per esempio: una rete di neuroni cerebrali) che una forma statica e lineare. È proprio la circolarità del pensiero, che si avvale di metafore, a renderlo tanto complesso quanto interessante da esplorare. Sicuramente il linguaggio letterale ci torna sempre utile. Ci serviamo di esso quando parliamo di fatti che possiamo descrivere con parole che si riferiscono alla realtà osservata e condivisa. Quando pensiamo a tutto ciò che riguarda l’essere umano o la biologia o le relazioni tra persone o neuroni, la linearità del linguaggio che descrive i fatti suona un poco come semplificazione di una complessità che necessita un linguaggio più ampio per essere spiegata. Questo proprio perché l’uomo, o come direbbe Bateson la “Creatura” è complessa, circolare, per essere compresa deve essere osservata da più punti di vista. Il contributo interessante di Bateson è il “sillogismo in erba” che ben spiega il processo insito la costruzione di metafore che costituiscono il nostro pensiero e le nostre azioni. Andando oltre la logica classificatoria del sillogismo aristotelico, Bateson, commettendo, come direbbero i logici, un grave errore di “affermazione del conseguente” sottolinea il passaggio logico dalla classificazione al processo e dal processo a una tipologia di processi. Il linguaggio del sillogismo in erba è il linguaggio dell’arte, della religione, della poesia, della creatività e della complessità: è il linguaggio dell’uomo quando parla di sentimenti, idee, pensieri ed emozioni. Bateson farà poi del sillogismo in erba la base del suo modo di pensare. Anche George Lakoff e Mark Johnson, due linguisti cognitivi, giungono alla stessa conclusione ovvero: il pensiero metaforico non può essere considerato di “serie B”. Al contrario, gli autori con i loro studi ed esempi ci mostrano come il nostro pensiero e le nostre azioni siano metaforici, procedono per metafore e sono strutturati da metafore. Gli autori partono dal presupposto che i concetti che regolano il pensiero strutturano tutte le nostre attività quotidiane: influiscono su ciò che viene percepito, su come interpretiamo il mondo e su come ci relazioniamo con gli altri. La metafora, quindi, oltre ad essere un fatto linguistico puramente legato alla letteratura e alle figure retoriche, è prima di tutto un fatto concettuale, ovvero getta le basi del nostro modo di pensare, di esprimerci e conseguentemente di relazionarci e agire. La metafora si manifesta linguisticamente attraverso il linguaggio e le espressioni linguistiche che usiamo per comunicare. Tali espressioni linguistiche sono il frutto di una serie di connessioni ricorrenti tra concetti. In altri termini: le persone tendono, in maniera ricorrente, a concettualizzare certe cose nei termini di altre. Essendo la psicoterapia un dialogo che cura, una cura che passa attraverso il linguaggio non possiamo non considerare questi contributi anche per ciò che riguarda la pratica clinica. Se la linearità, il procedere per cause ed effetti non sono funzionali nell’incontro con l’altro, è importante cercare altre connessioni tra le parole e i significati che vanno oltre le parole pronunciate. Il richiamo alla metafora è qui evidente: è proprio con la metafora che si scoprono significati che giacciono sotto le parole espresse! Ne deriva, quindi, l’avere cura e curiosità nei confronti delle nostre metafore, di quelle del paziente e di quelle che emergono dalla danza con il paziente.
PERDERSI E, TRA PIÙ MONDI, RITROVARSI. POSSIBILITÀ DEL LAVORO CLINICO IN CONTESTO MIGRATORIO
Marta Guidotti, ex-allieva CMTF, sede di Milano
Perdersi e ritrovarsi sono aspetti di un processo che mette in connessione i cambiamenti geografici, culturali e identitari che avvengono nella migrazione, ma è anche qualcosa che avviene in un percorso di psicoterapia, non solo in chi consulta ma anche nel terapeuta. La scrittura della tesi del IV anno al Centro Milanese di Terapia della Famiglia è stato, infatti, frutto di risonanze sulle tematiche del disorientamento legato all’esperienza migratoria e sui cambiamenti che, a più livelli, ne derivano. In che modo stiamo in relazione con i contesti, i luoghi e la geografia circostante? E quando tutto intorno a noi cambia, cosa succede alle nostre mappe, alle nostre premesse, al nostro modo di pensarci, ovvero alla nostra identità? Infatti, i luoghi sono il bacino relazionale in cui anche le nostre identità si costruiscono. I cambiamenti nel tempo e nello spazio, come rappresentato dalla migrazione, portano a riconsiderare quelle premesse, personali e sociali, che abbiamo costruito nel corso delle nostre esperienze per definire chi siamo. Capita che il modo in cui definiamo noi stessi (o veniamo definiti) diventi un principio dormitivo, incurante delle relazioni con i contesti. La costruzione dell’identità è sicuramente un processo irrinunciabile per la nostra esistenza, ma è opportuno valorizzarne soprattutto l’aspetto generativo, piuttosto che quello che ci porta a un’illusione di staticità e immutevolezza nel definire chi siamo. Questo processo identitario è intimamente connesso con i luoghi che abitiamo. Ci orientiamo costantemente in modo attivo nel mondo e costruiamo delle mappe che costruiscono e fanno parte della nostra identità. La migrazione, come evento individuale ma anche collettivo, è un radicale cambiamento dei “segna-contesto” e impone ai nostri pensieri e alle nostre esistenze una ri-definizione delle nostre coordinate. La danza relazionale tra noi e i luoghi può avverarsi un’esperienza disorientante, tutt’altro che armoniosa, e possono crearsi confini spessi tra le diverse parti di Sé e con l’altro. Si può correre il rischio di funzionare come una “mente senza aiuti”, ma è altrettanto possibile cogliere le differenze, renderle informazioni, apprendere ad apprendere ed accedere ad una dimensione generativa della propria esistenza-nel-mondo. A sollecitare il desiderio di approfondire queste connessioni tra luoghi, migrazioni e identità, è stato l’incontro con Afra, una donna proveniente da un Paese dell’Asia sud-occidentale, titolare assieme alla sua famiglia di una protezione internazionale in Italia. La richiesta di consulenza arriva dagli operatori del centro di accoglienza, in cui Afra e la famiglia risiedono, all’associazione Approdi, di cui faccio parte. L’invio sembra avere carattere urgente, gli operatori sono spaventati dalla sua sofferenza e affaticati dalla conflittualità che si è instaurata con lei. Afra viene inviata come un’autentica paziente designata. Inoltre, sono presenti ingiunzioni, in parte, paradossali, le si richiede di essere autonoma, in fretta, e di aderire alle attività previste dal progetto di accoglienza e di “trovare una propria strada”. Incontro Afra con la mediatrice linguistico-culturale e, in seguito in co-terapia con un’arte-terapeuta di Approdi. Afra si mostra disillusa e poco convinta ma, soprattutto, molto arrabbiata. Dal suo punto di vista, i problemi derivano dalla vita nel centro di accoglienza, dai conflitti con i coinquilini, dall’atteggiamento degli operatori e del servizio sociale. Cerco di far comprendere ad Afra il contesto in cui ci troviamo, il funzionamento e il senso che possono assumere i nostri incontri. Le propongo di darci un po’ di tempo e vedere se potevamo fare qualcosa di utile insieme per rendere meno faticoso questo momento di vita. In particolare, mi preme che comprenda la distinzione tra il mandato che hanno gli operatori e quello che abbiamo noi e che possa sentire di poter esercitare la propria autodeterminazione. Dopo i primi incontri caratterizzati dall’esternalizzazione di tanta rabbia, emerge una sofferenza potente, affidata al corpo, attraverso forti e ripetuti attacchi di panico, disorientamento e manifestazioni d’ansia di vario genere che la portano a rifiutare qualsiasi attività e il contatto con gli altri. Quale può essere il senso di questa immobilità? Agisce una protesta? Contro chi, o che cosa? Sente paura? Paura del confronto, del mettersi in gioco in un contesto straniero che la esporrebbe a fare i conti con un sentimento di emarginazione? Si tratta di non fare scelte per non tradire? Non tradire se stessa, la se stessa di “prima”? La famiglia di origine? Il proprio paese? A scatenare il sintomo sono proprio i luoghi che Afra abita in questa città, percepita come estranea e ostile. Le mappe della propria esistenza precedente non sono più utili, ma non ce ne sono ancora altre. La coerenza tra l’aspettativa di familiarità verso un luogo e il feedback che questo luogo ci dà è infranta. È proprio attraverso la narrazione dei luoghi che percorriamo nelle sedute degli “andare e venire” attraverso il tempo e la geografia della vita di Afra. Comprendiamo che sentirsi fuori-luogo è qualcosa di ricorrente nel passato di Afra nonostante, con tenacia e coraggio, avesse tessuto un’identità personale e professionale rigogliosa che, però, con la migrazione non aveva trovato spazio e appariva insabbiata. Afra desidera tornare “come prima”, ma tutto il contesto pare non permetterglielo. Sembra proprio questo non ritrovarsi nei luoghi e nelle premesse su di Sé a far emergere una sofferenza profonda. Dando voce a queste parti, ridefiniamo il sintomo, esercitiamo tenerezza e curiosità verso la propria storia e i suoi sentimenti. Arriviamo a toccare, in modo parziale ma significativo, il processo familiare attraverso cui Afra ha dovuto introdurre nella propria vita la migrazione. Così, con qualche intervento col contesto familiare allargato, si genera una sorta di “rituale liberatorio”, che permette di esplicitare l’implicito, di dire il non detto. Vengono rinegoziate delle scelte, viene data legittimità al punto di vista e al dolore di ogni membro e l’informazione riprende a circolare in un modo che permette di non passare attraverso il sintomo. Nel percorso svolto con Afra, l’uso di risorse somatiche e la possibilità di usare linguaggi espressivi sono stati strumenti particolarmente utili che hanno dato accesso a un livello estetico, capace di creare maggiori connessioni nella trama della narrazione. La frequenza è stata variabile, più sostenuta nei momenti di maggiore sofferenza e più diradata nei momenti di maggiore possibilità di sperimentazione in autonomia, ma comunque discussa con concordata con Afra. I sintomi iniziali sono stati, più che un problema, una porta d’ingresso e hanno rapidamente cessato la loro funzione. Afra ha accettato di partecipare a nuove proposte e ha trovato un lavoro che la soddisfa, per quanto diverso da quello che aveva sempre fatto nel suo paese di origine. Il flusso della storia ha ripreso a scorrere, forse anche quello del meticciamento identitario e i confini tra le diverse istanze di Afra e il mondo esterno sembrano aver trovato un modo più fluido per stare insieme. Dopo un anno e qualche mese, ci siamo salutate. L’incontro con Afra e la sua storia ci ha permesso uno sguardo riflessivo sulle nostre matrici culturali e sulle relazioni tra diversi contesti in campo. Per l’approccio sistemico, così come inteso dal Milan Approach, la pratica del decentramento non è di certo una novità. Le operazioni di secondo ordine, sapere che la realtà che conosciamo è determinata dalle scelte che operiamo, il considerare la differenza come informazione, il questionamento sulle idee perfette, l’irriverenza, l’atteggiamento di curiosità, i processi di de-costruzione e ricostruzione delle narrative, ecc… sono tutte posizioni epistemologiche che facilitano il decentramento degli sguardi e, quindi, l’emersione e il riconoscimento dell’alterità, delle alternative possibili, di margini più ampi di libertà. Può accadere di perdersi e questo può anche diventare un modo per ascoltarsi, per rimanere ingaggiati in un processo costante di ricerca e di creazione di nuove e più complesse mappe per ritrovarsi in altri mondi possibili.
IL RITIRO SOCIALE AL TEMPO DEL COVID-19: TRA RESILIENZA E PATOLOGIA
Adriana Davoli, ex-allieva CPTF, sede di Padova
Quando si avvicinò il momento di scegliere un tema da affrontare e approfondire all’interno dell’elaborato di tesi di specializzazione presso il CPTF non ebbi il minimo dubbio su quale dovesse essere. Gli anni precedenti, segnati dalla pandemia da COVID-19 e dalle restrizioni imposte per arginarla, mi avevano dato l’opportunità di osservare come alcune persone vivessero il “ritiro sociale” imposto come una modalità efficace per gestire problematiche psicologiche già in essere, denotando in alcuni casi una vera e propria remissione dei sintomi riportati. La particolarità di questo tipo di funzionamento era tanto più evidente se confrontata a tutti quei vissuti di reclusione, ansia e depressione che la maggior parte delle persone riportava di vivere. Difatti, come sembrava lecito attendersi, la maggior parte della popolazione ha vissuto la situazione pandemica come molto stressante e angosciante, arrivando a sperimentare profondi vissuti di reclusione, sino a sviluppare, in alcuni casi, consistenti sintomatologie ansiose e/o depressive. Il mio interesse, dunque, è stato attratto dalla prima “categoria” di persone appena descritte, notando come per alcuni questo particolare contesto fatto di restrizioni abbia invece favorito un miglioramento delle condizioni del paziente sino alla scomparsa dei sintomi per i quali si era rivolto a me in epoca pre-COVID-19. Era possibile spiegare tale funzionamento, divergente dal resto della popolazione, utilizzando esclusivamente il concetto di resilienza? Come terapeuta sistemico-relazionale in formazione non ho potuto fare a meno di notare che tale scomparsa o remissione della sintomatologia in essere durante il periodo pandemico andava di pari passo con una drastica riorganizzazione delle regole del proprio contesto che a loro volta determinavano profonde modificazioni nelle relazioni familiari. Vediamo allora il caso di Alfredo, un ragazzo di 19 anni considerato unico “rampollo” di una famiglia benestante: in quanto tale, genitori e nonni nutrivano grandi aspettative su di lui rispetto all’andamento scolastico, sportivo e lavorativo. Purtroppo, Alfredo sembrava non eccellere nel modo sperato dalla sua famiglia, disattendendo così ogni aspettativa di grandezza. Tale situazione lo vedeva vivere profonda frustrazione, vissuti di ansia e depressione che, col tempo, lo hanno portato a chiudersi in casa evitando altre attività che non fossero obbligatorie, come andare e tornare da scuola. Con l’imposizione del lock-down il suo umore inizia a migliorare, progressivamente diventa attivo e propositivo. Cosa è successo? In questa sede riporto solo una parte di quella che è stata l’ipotesi che poi ha guidato il mio agire terapeutico: l’allentamento delle pressioni genitoriali, in particolare di quelle paterne, verso Alfredo che, come tutti gli altri, era costretto in casa, ha favorito un miglioramento dei vissuti di frustrazione e ansia del ragazzo. Le richieste, ora percepite come congruenti alle proprie possibilità, non costituivano più un problema. Allo stesso modo il caso di Sara vede un miglioramento della sintomatologia ansiosa di quest’ultima che, grazie alle restrizioni imposte, non solo non era più costretta a frequentare così assiduamente la propria famiglia di origine, ma non era più sottoposta alle pressioni del compagno che la allenava per corse competitive, pretendendo da lei il massimo del risultato. Diverso appare il caso di Valeria: questa volta le restrizioni hanno permesso alla paziente di giustificare la sua totale disponibilità per la famiglia di origine a scapito del proprio universo di relazioni. Valeria, infatti, sempre alla ricerca di conferme da parte della propria madre, viveva il paradosso creatosi tra un ideale di lei come vincente nella vita, nel lavoro e nelle relazioni e di lei come sostegno della propria famiglia di origine (madre e sorella sorda). La ricerca di tale riconoscimento la portava ad essere sempre a disposizione del nucleo familiare, attività che male si conciliava con la costruzione di una propria stabilità affettiva e sociale. L’imposizione delle restrizioni ha dato a Valeria la possibilità di superare almeno momentaneamente il paradosso, permettendo di dedicarsi interamente alla famiglia e giustificando al contempo la propria immobilità in tutte le altre aree della sua esistenza. Come sottolineato all’interno dell’elaborato di tesi, in tutti e tre i casi esposti, si è potuto denotare un marcato miglioramento della sintomatologia riportata che sembra favorito dalla riorganizzazione relazionale imposta dalle restrizioni che avevano reso inutile (almeno temporaneamente) il ruolo di paziente designato. Il ritorno alla normalità, ovvero il ritorno a regole di contesto e di relazione pre-COVID -19, ha successivamente portato ad un ritorno del malessere di queste persone ri-generando i precedenti paradossi relazionali. Ora, il malessere dei pazienti, di cui ho riportato i casi, veniva caratterizzato da un ulteriore comportamento considerato “problematico”, ovvero quel comportamento che li vedeva restringere il proprio campo di azione e interazione per paura del contagio. Si parla in altri termini di “ritiro sociale”, considerandolo in una prospettiva sistemica secondo la quale alcune persone, tra le quali questi tre pazienti, avrebbero trovato proprio nel ritiro sociale imposto una possibile soluzione ai paradossi in cui erano inseriti. Nel momento delle riaperture tale soluzione ha smesso di avere un senso condiviso socialmente per diventare uno dei tanti comportamenti poi additati come “disfunzioni” causate dalla pandemia. Ho difatti voluto sottolineare come il ritiro sociale smetta di essere una caratteristica dell’individuo (“è ritirato”) per diventare un comportamento il cui significato e valenza più o meno patologica cambia in base al senso attribuito a livello relazionale e sociale. Detto questo è importante sottolineare che durante i mesi iniziali della pandemia tale comportamento non solo era tollerato, ma era anche consigliato, se non addirittura imposto. Ora il medesimo comportamento era considerato uno strascico della situazione pandemica, se non addirittura un vero e proprio sintomo causato dalla difficile condizione di restrizione a cui siamo stati sottoposti. L’ipotesi portata avanti nel mio elaborato presuppone che nel “ritiro sociale imposto” alcune persone abbiano ritrovato un buon livello di benessere e aree di funzionamento in quanto tale ritiro è stato funzionale alla gestione del particolare contesto relazionale in cui erano inseriti (confitti, triangolazioni, doppi legami e incongruenze). In questo modo ho provato a dare una spiegazione al riacutizzarsi della precedente sintomatologia e all’adozione di un comportamento di ritiro successivo all’uscita dal lockdown. Quanto qui brevemente esposto ha visto un approfondimento clinico portato avanti grazie all’impiego delle lenti sistemiche e di strumenti quali: la Cartella Relazionale, la Linea del tempo, i Pilastri dell’Ipotesi e il Quadrilatero Sistemico che mi hanno permesso di formulare varie ipotesi, mettendo in luce un diverso senso del comportamento di ritiro, rendendo possibile il mio lavoro come terapeuta. Per concludere, l’analisi dei tre casi clinici evidenzia come il miglioramento del malessere dei pazienti determinato dal ritiro imposto e il riacutizzarsi della sintomatologia precedente al Covid-19 con l’aggiunta di alcuni comportamenti di ritiro sociale possano essere spiegati nel momento in cui si allarga il proprio focus attentivo al contesto delle persone in questione, trovando un diverso senso e una utilità del ritiro stesso all’interno del loro sistema di relazioni.