Territori sistemici. Eredità del pensiero di Humberto Maturana: le voci degli allievi

Territori sistemici. Eredità del pensiero di Humberto Maturana: le voci degli allievi

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A cura di Ada Piselli e Barbara Trotta

Contributi di Marta Tonietti, Elena Patris, Flaviana Bertocchi.

La lezione di Maturana sul vivere in tempi complessi

di Marta Tonietti, IV anno, Centro Padovano di Terapia della Famiglia, sede di Trieste

All’inizio del 2020, in procinto di iniziare un nuovo anno formativo presso la sede di Trieste del Centro Padovano di Terapia della Famiglia, la notizia della diffusione pandemica del virus covid-19 ha stravolto completamente non solo i miei programmi di vita, ma ha condizionato pesantemente la salute, i progetti, le esistenze di tutta la popolazione globale, con conseguenze sistemiche all’epoca ancora inimmaginabili.

Tutt’ora, nel momento in cui mi accingo a concludere la mia tesi di specializzazione, ancora in piena emergenza, risulta difficile, a distanza di quasi due anni, tirare le somme di quello che abbiamo vissuto e di quello che ancora ci aspetta.

Vivere e provare questo tipo di esperienza dentro di sé, non solo come mera comprensione astratta, ma come punto di svolta, cercando di darle un senso condiviso e co-costruendo un nuovo ambito di significato, è una sfida che ritengo fondamentale, soprattutto in vista della nostra riorganizzazione globale futura.

Il diffondersi del Coronavirus ha certamente tutte le caratteristiche di un fenomeno sistemico.

Un complesso sistemico, in termini del tutto generali, è un complesso formato da molte parti locali interagenti tra di loro, e per comprenderne l’essenza è appunto importante considerare la totalità dell’insieme, invece di focalizzarsi sulle singole parti individuali.

Come sostengono diversi autori, oggi nel contemporaneo mondo iperconnesso, dove vi è la circolazione continua e la relativa trasformazione praticamente di ogni cosa; il coronavirus non è altro che uno fra i tanti esempi di un fenomeno sostanzialmente legato all’iperconnessione in cui siamo immersi.

La stessa realtà in cui siamo e ci muoviamo, come da tempo avevano intuito la maggior parte dei movimenti post-moderni, perde di stabilità, di punti di riferimento certi e diventa sempre più fluida e frammentata, come la nostra stessa identità e la sua definizione, messa ulteriormente in discussione dalla crisi sanitaria in atto.

L’interdipendenza progressivamente più marcata dei diversi fenomeni, il loro intrecciarsi sempre più rapido, ci portano ad affermare che siamo entrati, già da alcuni decenni, nell’Era della Complessità.

L’emergenza Covid-19 ci ha dimostrato quanto siamo, nonostante gli sforzi istituzionali internazionali, ancora decisamente impreparati a comprendere come gestire le conseguenze di un sistema iperconnesso come quello in cui viviamo, destinato a produrre simili fenomeni con intensità e frequenza sempre maggiore.

In questo senso, utilizzare la lente sistemica, per me significa valorizzare, mai come ora, l’ottica della complessità e dell’inter-connessione, per tentare di reagire alla sfida dei “drammatici” cambiamenti in atto, ma non solo.

Approcciarsi a problemi complessi, mettere in relazione e in connessione le varie parti, essere consapevole che un problema sistemico può essere risolto, o perlomeno affrontato, solo con un approccio sistemico.

Tutto questo non sarebbe possibile se non fossero esistiti pensatori come Humberto Maturana, che ha permesso, grazie anche alla valorizzazione della matrice epistemologica della conoscenza (soprattutto scientifica), di mettere in discussione il paradigma riduzionista imperante, aprendo la strada alla sfida della complessità, all’incertezza delle nostre conoscenze e allo sgretolarsi dei miti che per secoli hanno guidato la scienza moderna.

Questo è anche quello che accade in terapia, quando le certezze granitiche del paziente, l’illusione della completezza e l’esaustività di narrazioni che provocano sofferenza vengono ricostruite e rinegoziate insieme.

Allo stesso tempo, questo approccio, comporta un’inevitabile trasformazione delle domande e delle risposte su cui è basato tutto il nostro sapere, anche come clinici.

Abituarci a pensare in termini non lineari, in questo senso, è fondamentale per relazionarci alla complessità senza farci spaventare da fenomeni che non riusciamo a comprendere, attraverso quell’atteggiamento di neutralità e di curiosità che permetta, in certi termini, di riconoscerne e accettarne i paradossi.

Se è vero, infatti, che nell’epoca della complessità siamo costantemente impreparati a comprendere come rispondere all’ampiezza e alla rapidità dei fenomeni che un sistema iperconnesso produce, la lente sistemica credo inviti a sviluppare quel tipo di pensiero che, grazie proprio ai costrutti sopracitati, permette di gestire, o almeno pensare, la complessità con degli strumenti epistemologici adeguati.

Concludendo, l’educazione alla complessità, è un obiettivo che come terapeuta e come essere umano, sento sempre più necessario e intrinseco al mio status di abitante del mondo, anche nel rispetto e nel miglioramento della qualità di vita delle altre specie con cui conviviamo sul nostro pianeta.

Ringrazio Maturana per aver dato dignità, grazie al metodo autopoietico, ad una realtà ricca, intessuta di relazioni complesse ed in continua trasformazione.

La stessa realtà che compone le storie di vita dei nostri pazienti e le nostre relazioni con essi.

La mano è l’organo della carezza

di Elena Patris, IV anno, Centro Milanese di Terapia della Famiglia, sede di Torino

Aveva una faccia seria e simpatica insieme. Questo è quello che ho pensato quando ho saputo della morte di Maturana, conoscendo poco delle sue idee.

Ora che sto cercando di avvicinarmi al suo pensiero (che fatica e che bellezza!), mi sembra che guardare quella faccia, seria e simpatica insieme, sia stata la mia prima esperienza del suo insegnamento, di quel modo di conoscere e dare valore al mondo con il corpo e con la tenerezza dello sguardo.

Da biologo, Maturana ci ha detto che la nostra conoscenza si costruisce con il nostro corpo che attraversa il mondo, e che noi, soggetti della conoscenza, siamo prima di tutto esseri viventi. Prima ancora che esseri pensanti, come ci ha abituato a credere la tradizione di pensiero che, da Cartesio in avanti, separa la mente dal corpo e risolve questo dualismo in favore della razionalità, considerando le emozioni come qualcosa da tenere a bada. Invece, noi siamo costantemente immersi nelle emozioni e, se la razionalità è importante per comprendere qualcosa, le emozioni sono fondamentali per rendere possibile l’interazione all’interno della quale la conoscenza avviene. Quindi, le emozioni sono fondamentali per comprendere qualcosa di quello che sta succedendo e per costruire il pensiero.

In terapia tenere presente questo ci consente di immergerci negli inevitabili processi emozionali senza sentircene in balìa, ma considerandoli, semmai, informazioni preziose per la pratica ricorsiva, perché, come scrive Philip Roth nella sua autobiografia, “ogni avventura dell’immaginazione comincia laggiù, con i fatti”, comincia, insomma, con il corpo.

Maturana parlava dell’amore, e lo intendeva in modo diverso da come siamo abituati. Non era per lui un eventuale esito dell’incontro, ma la disposizione corporea che muove per renderlo possibile, aprendo lo spazio per riconoscere l’altro come legittimo altro. Né giusto, né sbagliato. Altro. La mano, diceva Maturana, è l’organo della carezza, il gesto attraverso cui entriamo in contatto con l’altro e lo accogliamo così com’è.

Di Maturana, più di tutto, mi tengo stretta l’espressione del viso, quel misto di simpatia e serietà, che insieme consentono di sentirsi e stare con l’altro, nella sua unicità, in un incontro accogliente come una carezza, e di assumersi la responsabilità del proprio agire. È questo che ho imparato ed è così che ho imparato in questi anni di formazione: accarezzata da un contesto ospitale, ho sperimentato il valore di accarezzare il mondo e la fiducia di provare a costruire un contesto di cambiamento in cui aprire alla possibilità di essere felici, in senso etimologico, capaci di dare frutto.

Eredità di Maturana

di Flaviana Bertocchi, II anno, Centro Padovano di Terapia della Famiglia

Ho sentito citare per la prima volta il nome di Maturana, sempre in coppia con Varela, durante le lezioni all’Università (Padova, anni 2003-2009, ai tempi di Racalbuto, Salvini, Mangini, Pisapia, Spano, Lis, Pagliaro, Ferlini, Petter, Ravasio). Il mio entroterra universitario è stato di orientamento psicodinamico, ma con esami opzionali e curricolari dall’ottica psicoanalitica, costruttivista, fenomenologica e sistemica: davvero un mosaico ricchissimo di luci e prospettive che mi hanno proposto una lettura della realtà diversificata, complessa e davvero inedita. Ho avuto l’infatuazione per lo studio della famiglia col prof. Cusinato, il primo a citare “Paradosso e controparadosso”, la scuola di Milano ed altri nomi, idee, contesti e nuovi spunti sui quali riflettere. È stato durante questi anni che ho incontrato quell’ ambito della scienza che aleggia sopra ad ogni riflessione come un telo trasparente, che è l’epistemologia. Il primo dubbio che ha destabilizzato le mie “certezze” è stato posto con la presentazione del realismo ingenuo quale approccio dal fascino troppo facile e riduttivo e di come uno psicologo abbia utilità/necessità a disfarsene per poter esplorare territori nuovi: “la mappa non è il territorio”, non si stancava di ripetere A. Salvini, citando Korzybski. Questa sorta di “mosaico” che ho avuto la fortuna di incontrare durante il percorso universitario, è un po’ il leitmotiv della mia vita, poiché, per una serie di circostanze contingenti e scelte di vario tipo, mi ritrovo in famiglia quattro provenienze da regioni italiane diverse (Lombardia, Campania, Basilicata, Veneto) e personali trasferimenti (Brescia, Vicenza, Padova), moltissimi traslochi, cambiamenti di lavoro i più disparati (operaia, postina, pittrice, insegnante di scuola elementare). Un’identità forse frammentata, ma certamente versatile che ha perlomeno provato a tenere conto, integrandole, delle molte sfaccettature acquisite, senza disgregarsi e provando a riporre nel posto adatto ogni nuovo tassello, senza confondermi, ma “fondendomi con” queste diversità di esperienza vissute dapprima come un fardello, poi come un’opportunità. L’effetto collaterale è di guardare con sguardo sbigottito misto a disagio alle situazioni di permanenza in uno stesso luogo di residenza, lavorativo o ideologico, commista ad una incapacità, lo riconosco, di rimanere in una data dimensione oltre un certo tempo e di rilevare in me una sorta di “sdr da incapacità di appoggiare le valigie”. Tengo sempre qualche metaforico scatolone imballato pronto per il prossimo viaggio, il prossimo spostamento, il prossimo travestimento, il prossimo ruolo per entrare in una nuova scena, spinta da un demone straordinario e a volte pericoloso che è la curiosità. Questa modalità di vivere connotata da un approccio da “cane sciolto”, mi ha ricordato la creatività di cui parla Maturana in “Autopoiesi e cognizione” con cui si esprimono i soggetti che vivono in una società dove vi è l’amore e dove si registra una stabilità della società posta a livelli tali da garantire l’ordine utile sì alla prosperità, ma non tale da precludere il benessere del singolo, che notoriamente, nelle società totalitarie, viene meno, poiché il fine ultimo di dette società non è il benessere dei suoi componenti (che in questa condizione sarebbero più liberi di operare come osservatori) ma il suo perpetrarsi, col fine ultimo di arrivare ad una sorta di unità. Maturana riconduce alle società totalitarie di qualsiasi genere, l’evoluzione-involuzione storica di qualunque società, quale fine fisiologica di un percorso di restrizione delle possibili interazioni umane, dovute ad un eccesso di prescrizioni che conducono alla fine ad un abuso sociale.

Probabilmente il genere di società nella quale viviamo attualmente, checché se ne dica, conserva ancora un barlume di libertà di movimento tale da permettere quella creatività che mi ha portato a sperimentare diverse identità senza appunto disgregarmi e perdermi, ma permettendomi di ricostituirmi in un sistema vivente poliedrico perché fornito del presupposto di più possibilità grazie all’amore concesso (tollerato?) dalla nostra attuale società.

Come dice Maturana in “Autopoiesi e cognizione”, ogni tipo di società è biologicamente legittimo, anche se non tutti sono ugualmente desiderabili. L’uomo è un essere sociale centrato sul linguaggio (aggiungerei io, non soltanto verbale) che ha la capacità di diventare un osservatore, permettendogli di operare come se fosse esterno alla situazione nella quale si trova e questo gli permette, se ha le esperienze adatte, di contemplare la società che egli stesso integra.

Questa posizione di osservatore e di “contemplatore” rende, secondo me, l’uomo autonomo e per questo creativo, una sorta di dissidente involontario di una società che, se libera, lo valorizza, se totalitaria, lo perseguita o lo annienta, magari con espedienti mortificanti come la burocrazia, che depauperano la persona da ogni iniziativa e da qualsiasi velleità creativa, riducendolo a grigio ingranaggio di un sistema utilitaristico quanto gretto e disumano. La società totalitaria specifica nel dettaglio le esperienze, mentre nella nostra esiste un margine ampio ancora di libertà di movimento dove abbiamo la possibilità-opportunità di farci osservatori.

Maturana dice che l’amore è l’esperienza che, insieme al linguaggio, genera la creatività umana in generale. La società totalitaria nega l’amore come esperienza individuale (poiché la teme) perché “l’amore, prima o poi, conduce ad una valutazione etica della società che integra l’amato”.
E’ giusta e vivibile una società dove l’altro che amo non è felice, non può esprimersi, non può farsi osservatore ma soltanto operatore supino, appiattito, asservito? È ancora in grado di amare e di essere creativa una persona posta in questa condizione? Con quali strumenti potrebbe porsi come osservatore? Si confà maggiormente il ruolo di controllore per bloccare sul nascere gli altrui moti di creatività.

“Fintantoché l’uomo ha un linguaggio, egli può diventare un osservatore attraverso l’esperienza dell’amore”. Nella società umana è possibile concepire come tutti gli esseri umani come equivalenti a se stessi e amarli. Questo è possibile senza che si domandi loro una rinunzia di individualità e autonomia maggiore di quanto uno possa accettare per se stesso […].

Una società ideale per far crescere un osservatore è “[…] una società che ammette il cambiamento ed accetta ogni essere umano come indispensabile. Una tale società è necessariamente una società non gerarchica per la quale tutte le relazioni di ordine sono costitutivamente transitorie e circostanziali alla creazione di relazioni che continuamente negano la istituzionalizzazione dell’abuso umano. […] una società fatta per e da osservatori che non rinunzierebbero alla loro condizione di osservatori in quanto loro richiedono solamente libertà sociale e mutuo rispetto”. Concludo asserendo che, oltre all’amore, l’humus di cui necessita l’uomo per poter farsi osservatore è l’Istruzione (che io giudico una forma di amore) la quale ha permesso a me che sto scrivendo e a chi legge, almeno di provare a comprendere la complessità che l’esistenza ci profila.

Questa riflessione coincide, per una casualità, con la data di oggi che è il 20 novembre, Giornata mondiale dei Diritti dei Bambini, tra i quali il diritto all’Istruzione, tema particolarmente sentito visto che sono attualmente una maestra elementare che si avventura nei meandri dell’epistemologia.