di Beppe Pasini e Giada Cola
Abstract
L’articolo presenta e tematizza una esperienza di ricerca-azione e inclusione sociale in un contesto non clinico condotta dagli autori, rivolta a un gruppo di giovani donne e uomini immigrati, utenti dei servizi socio educativi e psicologici del territorio di Bergamo. La dimensione del sogno, riferita alle aspirazioni individuali presenti e passate, è esplorata e sollecitata impiegando linguaggi simbolici, biografici, corporei, e intrecciata con storie di vita fragili e spesso costellate da transizioni dolorose. Come per esempio una migrazione forzata, l’inserimento in una nuova cultura, i legami interrotti con la terra d’origine, le attese del proprio contesto famigliare e la loro ricaduta sulle personali traiettorie di vita. La finalità del progetto è quella di coinvolgere i partecipanti in veste di coricercatori nell’allestimento di un archivio onirico partecipato rivolto alla popolazione locale. Lo stile espositivo è ispirato all’approccio etnografico e sistemico-narrativo fortemente implicato e orientato alle cornici del costruzionismo sociale.
Ognuno cresce solo se sognato
Danilo Dolci
Beppe: questo (mio) immenso non sapere
Cosa conosco del Bangladesh? E del Senegal, della Cina, del Marocco? Intendo cosa conosco veramente, oltre ai luoghi comuni, alle immagini stereotipate, ai pregiudizi. Provo a elencarlo sulle dita di una mano per constatare subito il mio immenso non sapere, parafrasando il titolo di un recente libro di una poetessa che amo: Lidia Candiani. Viaggiare e incontrare esperienze, luoghi, persone è uno dei sogni che da sempre coltivo e un desiderio che ha orientato gran parte della mia formazione umana e professionale, ma che solo in minima parte sono riuscito a realizzare. Questo progetto nasce grazie all’incontro con una ricerca-azione dedicata ai sogni delle persone, che mi sedusse per la sua semplicità e potenzialità visionaria. Il percorso, realizzato nel 2019 dalla videomaker Elena Pugliese nell’ambito della Biennale Democrazia di Torino venne animato da alcune semplici domande: ‘qual è il tuo sogno di ieri, qual è il tuo sogno di oggi?’ Lo scopo dell’iniziativa fu quello di allestire un archivio effimero, fatto della stessa sostanza dei sogni, evocando Shakespeare, costituito dalle speranze, aspettative, attese di donne e uomini immigrati, spesso protagonisti di migrazioni forzate risiedenti nel nostro paese. La ‘materia’ della ricerca era costituita da brevi racconti, poi registrati e raccolti in un archivio web fruibile a tutti. Nello spazio angusto eppure liberatorio, che separava quelle due domande, sentivo racchiudersi il senso del tempo, un’idea di speranza e di progettualità, una dimensione resiliente, prospettive politiche e partecipative. Ingredienti che costituiscono un potenziale immaginativo e trasformativo per ogni individuo. E poi c’era la dimensione del sogno, riferita alle aspirazioni individuali presenti, passate, future, da esplorare tramite linguaggi simbolici, biografici, corporei, da intrecciare con storie di vita fragili e spesso costellate da transizioni dolorose. Come per esempio una migrazione forzata, l’inserimento in una nuova cultura, i legami con la terra d’origine, le attese del proprio contesto famigliare e la loro ricaduta sulle personali traiettorie di vita. La dimensione pandemica che stiamo vivendo inoltre, con il suo carico di vite a rischio di isolamento, bisogno di relazioni interpersonali, mortificazione delle fisicità, restrizioni interiori, implicava l’ulteriore scommessa di considerare la proposta pure nelle sue dimensioni curative e salutogeniche. Se è vero che raccontare i propri sogni è il primo passo per realizzarli, poteva un’esperienza simile, pur non avendo espressamente una finalità espressamente terapeutica, contribuire a coinvolgere i partecipanti in uno slancio progettuale, implementando l’immaginario, promuovendo una visione propositiva improntata a fiducia e speranza riguardo al proprio futuro? Viviamo in un’epoca in cui la desinenza ‘terapia’ è divenuta pervasiva, proporzionalmente al grado di sofferenza diffusa, isolamento, depressione, senso di esclusione. Assistiamo ad un profluvio di corsi, seminari e workshop sotto il cappello francamente logoro, del ‘benessere’. Dalla montagna, alla scrittura, agli oli essenziali, ai colori e profumi, alle pietre, agli alberi, al camminare, e perfino allo shopping. Giusto per fare alcuni esempi. L’esito è quello di riproporre una logica performativa, prestazionale, agonistica in attività che dovrebbero essere non finalizzate e piacevoli di per sé, ricreando le medesime conseguenze stressanti e ansiogene che pretende di lenire. Gregory Bateson parlerebbe di eccesso di finalità cosciente (Bateson, 1972). La direzione che intendemmo dare a questa proposta fu soprattutto quindi, quella di allestire un’occasione gioiosa nella quale alternare convivialità, gioco, leggerezza pensosa e appunto, sognante. In quanto psicoterapeuta, docente di pedagogia sperimentale all’Università di Brescia e formatore, sono affascinato dagli intrecci generativi che provano a coniugare apprendimento biograficamente fondato con linguaggi estetici, corpoetici e simbolici. Si trattava dunque di declinare in un altro contesto l’intuizione iniziale e reperire destinatari interessati motivando loro l’opportunità di intraprendere il percorso. Non solo. Una ulteriore direzione nella quale ci sembrò assai suggestivo operare era quella di dare al progetto una ricaduta comunitaria, proponendo ai giovani partecipanti di divenire a loro volta ricercatori di sogni, aspettative, speranze, visioni future, presso i loro coetanei e cittadine che avremmo coinvolto in un appuntamento finale, per costituire così una sorta di archivio onirico partecipato accessibile a tutti/e. Ci affascinava l’intenzione di implementare processi di trasformazione socio-culturale che sfidavano la percezione diffusa della persona migrante in quanto prevalentemente considerata come bisognosa di sostegno, in difficoltà linguistica, fragile socialmente, a rischio di marginalità. Tutte dimensioni ovviamente realistiche ed ampiamente esplorate, ma inevitabilmente focalizzate sul deficit, la mancanza, il problema, il bisogno. Cosa avrebbe significato per i/le giovani migranti che intendevamo coinvolgere e per noi stessi, percepirsi culturalmente e concretamente, da fruitori di servizi ad erogatori di cura per la comunità allargata? E poi c’era la questione della lingua. Mentre Giada se la cava bene con l’inglese io sono assai goffo. Il mio alfabeto è assolutamente basico e gergale. Credo antico retaggio di sogni poliglotti infranti. Ricordo i parenti francesi, cugini di mio padre, che da bambino ci facevano visita. Una tribù festosa calava dalle Alpi per bivaccare qualche giorno da noi. Gli sforzi che gli adulti inanellavano reciprocamente per capirsi, alternando inflessioni dialettali, inediti fonemi, contorsioni corposemantiche per rievocare rocambolesche epiche famigliari, esplodevano in appetitose risate. Nonostante siano passati ormai molti anni, quel gustoso teatrino che si materializzava di fronte ai nostri occhi bambini incantati, non cessa di mettere in scena la memoria antica e più affettuosa. Basta una fotografia e un accento francese a riaprire il sipario.
Giada: il carico dei sogni
Oltre a operare come psicologa per il Centro Fo.R.Me, mi occupo di progetti educativi domiciliari in concerto con i servizi di Tutela Minori. Nella mia esperienza lavorativa, caratterizzata per lo più da un mandato coatto, la scommessa spesso ardua di favorire un incontro autentico con la famiglia, è orientata a rimettere in movimento narrazioni inceppate. Quelli che ho occasione di udire, sono perlopiù racconti omologati ai linguaggi dei dispositivi sanitari e assistenziali, che finiscono per diventare resoconti informativi, appiattiti sulle carenze, de-soggettivati, incapaci di onorarne la complessità in cui possano trovare voce le biografie, i sentimenti, le contaminazioni e gli intrecci esistenziali. Spesso in tali ambiti di intervento, si ripropone la medesima trita litania, di carenze, mancanze e dolori. Provare a rivitalizzare questi clichè uscendo dalle procedure standardizzate, mi aiuta a preservare un’apertura curiosa nell’incontro con la sofferenza delle famiglie. Raramente però questo passa per l’uso esclusivo della parola. Quando infatti si riesce a “giocare insieme”, il tappeto sonoro delle interazioni varia abbandonando temporaneamente la compostezza dei vecchi spartiti per sperimentare un modo nuovo di stare in relazione e creare inedite possibilità. Rimescolare i copioni delle relazioni famigliari può allora divenire salutare occasione per riscoprirne la poetica: impastare acqua e farina con nonne provenienti da lontano, giocare a nascondersi goffamente accovacciate sotto a un tavolo che è stato campo di battaglia durante i pasti, preparare il thè con le foglie di Shiba migrate in una valigia di speranze, aiuta a rimettere in moto le storie e ad alleggerire il clima. Anche i ragazzi e ragazze che avremmo incontrato, erano analogamente utenti ‘presi in carico’. Immagine che identifica l’iter di azioni, interventi e procedure attuate nei confronti del paziente/utente indizio di un linguaggio medicalizzante e socio-assistenziale. I carichi non hanno in sé niente di vitale: sono gravosi, opprimenti e prenderli in spalle finisce per storpiare l’andatura di chi se ne grava. Lo psichiatra Piero Cipriano in uno scritto recente, esprime efficacemente gli effetti di questa postura passivizzante tipica di certa psichiatria istituzionale, alla quale corrisponde una iper-responsabilizzazione dei professionisti e conseguenze iatrogene.
Ciò che trovai più stimolante nel progetto, fu la sua implicazione ecologica. Mi conquistò l’idea che materiale tanto intimo come i sogni, potesse diventare oggetto di esplorazione o potesse far da tramite per l’incontro tra generazioni e culture. Nel modello dominante della performance e della prestazione ad ogni costo a cui siamo addestrati sin dalla scuola, si allude spesso a sogni e ambizioni. Lo si fa però nel modo in cui si discute a proposito di oggetti, come di una proprietà privata, o come traiettorie raggiungere in totale solipsismo, coltivando esclusivamente il mito dell’autonomia anziché dell’interdipendenza. L’idea di un archivio onirico mi parve l’occasione per creare un contesto entro il quale riscoprire che le origini di un sogno hanno a che fare con una ecologia di incontri importanti. L’occasione di sperimentare opportunità formative nei quali i cosiddetti “utenti” divenissero portatori di cura e accoglienza per la comunità, costituiva una straordinaria possibilità di apprendimento. Cosa avrebbero potuto insegnarci i ragazzi e le ragazze coinvolte nel progetto in merito sull’idea di alterità come ricchezza, di fragilità come risorsa, e di diversità come occasione?
I sogni nel cassetto fanno la muffa
Con la cooperativa Ruah di Bergamo e con il Centro ForMe, attivo nell’ambito dell’intervento sociale delle politiche di inclusione e della cura etnoclinica, ci fu subito una sintonia di intenti. Il progetto poté fruire di fondi FaMi . Invitammo alcuni referenti di servizi per una presentazione nella quale anticipare la metodologia formativa che avremmo adottato, le nostre personali aspirazioni, e chiedere la disponibilità a promuoverlo presso i loro utenti, con queste parole:
Ciao! abbiamo un sogno in mente e vorremmo parlarvene! Si tratta del progetto: ‘SIAMO I NOSTRI SOGNI. ARCHIVIO ONIRICO PARTECIPATO’ che ha l’intento di creare un percorso dedicato ai sogni e alle speranze passate e future, coinvolgendo un gruppo di giovani migranti di prima o seconda generazione in carico ai servizi sanitari, educativi e/o assistenziali del vostro territorio. Ci piacerebbe molto poter presentare questa iniziativa durante un breve incontro a voi dedicato.
Nel presente articolo tematizziamo il percorso, che si è sviluppato in quattro incontri della durata di circa tre ore l’uno a cadenza settimanale, illustrando le pratiche proposte, gli esiti, le emozioni vissute, i linguaggi sperimentati, le implicazioni teoriche. Adottare il linguaggio proprio della ricerca etnometodologica, autoriflessivo e narrativo al medesimo tempo, (Merrill, West, 2012; Luraschi, 2021; Formenti, 2017; Pasini 2017) ci è parsa la cifra espressiva che meglio si sarebbe integrata con l’esperienza vissuta. Alla ricerca di una congruenza tra ciò che si dice e si fa. Siamo purtuttavia consapevoli che solo in minima parte sia possibile dare conto della ricchezza, umanità e intensità. I pregiudizi culturali, di cui siamo perlopiù inconsapevoli portatori e che incarniamo in gesti e azioni, rendono miope e parziale il nostro sguardo. Che lo vogliamo o no, in qualità di uomini e donne e professionisti della relazione di cura, siamo intrisi di rigidi presupposti, regole tacite, valori ereditati, linguaggi denotativi, folklore famigliare. Caratteristiche esotiche che spesso attribuiamo a tutto ciò che è diverso, strano, estraneo da noi, correndo in questo modo il rischio di riproporre una logica neocolonialista. Ad esempio impiegando con troppa disinvoltura il concetto di ‘etnia’ che confina lo straniero nelle gabbie culturali che pretendiamo di scardinare. A quale etnia appartengono i sogni delle persone? Se per etnia ci si riferisce ad un sistema sociale caratterizzato da una comunità costituita da omogeneità di lingua, cultura, tradizioni e memorie storiche, anche ogni famiglia lo è. A maggior ragione per chi come nel nostro caso, condivide orizzonti e approcci sistemici. Lo descriveva mirabilmente tra gli altri Natalia Ginzburg (Ginzburg, 1963), quando faceva del lessico quotidiano, l’impronta digitale del suo clan famigliare impresso in aneddotiche quotidiane. La scommessa di un dialogo interculturale sentiamo che transita (anche) da qui. Dal rendere esplicita l’alterità di cui siamo parte interrogandola. Confidiamo che questo possa aiutarci ad allenare la necessaria umiltà che riteniamo ci fa apprendere dal nostro lavoro, rendendolo così appassionante e coinvolgente.
Di che sogno sei? Il gruppo di presenta e si immagina
Le partecipanti, tutte donne comprese tra i diciassette e i vent’anni, arrivano alla spicciolata. L’ambiente è luminoso e suggestivo. Daste è una ex centrale termoelettrica nel quartiere Bergamasco di Celadina ora divenuta un progetto di rigenerazione urbana, centro di socialità e produzione creativa. Vi ospita una multiformità di attività culturali: una sala cinematografica e un bistrot al piano terra, sale per meeting ai piani superiori. Lo spazio dove ci troviamo è suggestivo e diviso in due parti: il ballatoio si interrompe a metà dando su quello sottostante, con un balcone protetto da una ringhiera che invece di essere all’esterno è però dentro casa. Eloquente metafora di confini mobili ed evanescenti. Come avremmo potuto utilizzare quella magnifica suggestione per il nostro percorso? Per una formazione site specific come quella che avevamo in mente, la questione rappresenta un interrogativo seducente. Qualcuna si siede in disparte, altre si stringono in coppia. Si respira imbarazzo, curiosità e divertimento. L’adrenalina regola il clima. Chi siamo, cosa faremo qui, cosa ci aspetterà, quali direzioni prenderà questa inusuale proposta che seppur anticipata sulla carta, presenta ampi margini di ambiguità e mistero? Percepiamo silenti domande nei volti, che del resto sono anche le nostre. La scaletta che cui siamo dati prevede un primo momento di riscaldamento e conoscenza che però è già informalmente iniziato sin dal nostro ingresso. Chi e cosa decide l’inizio di un incontro? Si odono accenti orientali e inflessioni africane, i corpi raccontano, le distanze si fanno fluttuanti. Ora ci si avvicina ora ci si allontana. In fondo, un processo di conoscenza interpersonale, evoca più una danza di movimenti che un protocollo preformato. Fatta di impercettibili passi che tracciano confini, li valicano, li riscrivono. Cosa significa incontrarsi? Ci siamo accorti ripensandoci in seguito, che questo momento così informale e destrutturato sarebbe stato essenziale al prosieguo dell’appuntamento e a determinarne la qualità. Fino a diventare parte integrante di un metodo. Coglierne la preziosità ci ha insegnato a rallentare, ad attendere, a far spazio alle direzioni pensate a tavolino per lasciare il posto all’imprevisto, alla colloquialità. Esercitare la goffaggine abilita a porre domande, ad essere inesperti, a chiedere permesso, a ridere dei nostri tentativi di approccio. Se è la relazione la vera esperta, con le sue dimensioni di imprevedibilità e spiazzamento, comprendere come accoppiarsi in modo generativo è l’arte raffinata dell’incontro. Si smussano così le atmosfere spigolose, ci disponiamo ad accorgerci, a trovare la giusta forma con cui con-vivere.
Le attivazioni corporee che proponiamo sono semplici e immediate. Il primo passaggio implica appropriarsi dello spazio. Muoversi, accennare a passi di danza, esprimersi con i gesti e non solo con le parole, aiuta ad entrare in un clima di reciprocità attenuando timori di giudizio. Il linguaggio corporeo è di per sé un alfabeto transculturale, facilmente riconoscibile e legato alle dimensioni meno raziocinanti. È facile in queste occasioni, che l’imbarazzo si trasformi in una scrosciante risata sollevando i partecipanti, animatori compresi, da ansie performanti. Per presentarci proponiamo dunque di metterci in cerchio, simbolica configurazione che predispone all’incontro. Una musica dai ritmi africani fa da suadente e discreta colonna sonora. Come una ola di bocca in bocca, annunciamo ad ogni giro il nostro nome, poi aggiungiamo una cosa che amiamo e ci appassiona e infine un sogno che ci ha portato qui. Se presentarsi significa ‘rendersi presenti’ il modo in cui lo facciamo non è neutro, genera una particolare presenza che è pure invito ad un sobrio spiazzamento sperimentando giocosamente inusuali registri:
“Sogno d’imparare qualcosa! Sogno d’incuriosirmi! Sogno di parlare meglio l’italiano! E io di fare nuove amicizie! Io sogno di conoscere nuove persone e io invece di conoscermi un po’ di più! Sogno di raccogliere spunti per il mio libro! Io sono di accompagnare e sostenere!”
I nostri volti sono visibili a metà, il rituale cui siamo obbligati da questa stagione pandemica affida al solo sguardo un ruolo inedito e speciale: abbiamo imparato a sorridere, ad abbracciarci, a salutarci solo con gli occhi. Questo acuisce il senso di immaginazione delle persone e ci porta a completare unilateralmente la parte nascosta. Come avviene ad esempio nell’arte non figurativa. Le neuroscienze (si veda per es. Kandel, 2017) evidenziano il ruolo attivo dell’osservatore nel dare senso ad immagini ambigue rappresentate nell’opera, in seguito al quale sopperiamo alla mancanza di informazione con la creatività. Questo accade in special modo per il riconoscimento del volto, la cui corretta comprensione delle espressioni è essenziale nelle relazioni interpersonali. Com’è sorprendente e spiazzante vedersi all’aperto a volto scoperto e constatare che il viso che avevamo immaginato con i dispositivi anti covid non coincide per nulla con quello reale! Decidiamo di giocare con questa limitazione colorando sulle nostre mascherine simboli e forme che, posti all’altezza della bocca, ridisegnano i nostri contorni in una festa di fisiognomie, un po’ ridicole, un po’ emblematiche. Il gioco del tracciare forme evoca quello dei confini, delle mappe, delle geografie in una semantica eloquente che percepiamo legata al tema della nostra alterità. Lo stesso gesto lo impiegheremo per accedere al racconto simbolico dei nostri sogni, di ciò che amiamo e che sentiamo alloggiare dentro e fuori di noi. Tracciamo così il contorno dei nostri corpi in sagome cristallizzate in un gesto, una intenzione, uno stato d’animo. Useremo quelle mappe per una toponomastica onirica: ognuno è invitato a sdraiarsi su un grande foglio bianco di carta nella posizione che desidera, una compagna utilizzando un pennarello, traccerà il suo contorno. Percorrendo il periplo dell’altro, in un gesto che rasenta intime prossimità, regoliamo la vicinanza con i suoi confini. Come fragili natanti, costeggiamo e beccheggiamo lungo le nostre coste. Le geografie corporee assumono ora la forma di un’isola, un promontorio, uno scoglio, di un intero continente. In un gioco di eloquenti analogie, la morfologia di un territorio è inestricabilmente intrecciata con quella umana, le cui distinzioni culturali, antropologiche, etniche, sociali, politiche, sono arbitrarie ed esistono solo nello sguardo del viaggiatore. Come quei confini, che nelle zone critiche del pianeta, ove sopravvivono torme di umanità dolente e in fuga, si ergono in muri invalicabili. Sappiamo che le storie individuali o famigliari, di questi ragazzi provengono anche da lì; ne sfioriamo solo da lontano la rotta. Come ci si avvicina a questi confini esistenziali? Che responsabilità abbiamo sul nostro sguardo nel tracciarli? Quali le conseguenze? È sorprendente intuire la nostra impronta sul mondo quando ci solleviamo dalle nostre sagome e le contempliamo dall’alto. In quel gioco di prospettive grazie al quale abbandoniamo forme note per altre bizzarre ed eccentriche, i nostri corpi somigliano a farfalle, fiori, alberi, galassie. Qualcuno per scherzo si adagia nella traccia di un altro cercando di adattarvisi. Esercizi di empatia in-corporea. Mettiamo poi a disposizione tante riviste con la proposta di ritagliare immagini, parole, brevi testi presi dai titoli, che alludono a ciò che amiamo per poi inserirle ognuno nel proprio contorno, collocandole là dove sentiamo che stanno bene. Mondi interiori appiccicati su una pelle di carta, come tatuaggi. E se si incontrassero? E se si sfiorassero? Con quali collisioni? Con quali suoni? Alziamo da terra le nostre forme addobbate, tenendocele di fronte. Ce ne andiamo nella sala per una processione sghemba, le facciamo dondolare e salutare, saltellare ed accucciare. Si odono stropiccii, sciabordii, spiegazzamenti, scoppiettii, strappi, silenzi. Fino a sera.
Sogni in scena. Onirico teatro
Si avverte il desiderio di ritrovarsi: passa da mani che si intrecciano e sorrisi distesi. In quello spazio informale arrediamo un alfabeto comune scambiandoci storie sulle nostre origini. La nostra svelata ignoranza intorno alle questioni geopolitiche dei paesi di provenienza dei partecipanti, facilita illuminanti e dolorose scoperte. Qualcuno racconta che nel paese da cui proviene il riconoscimento della lingua è stato un processo sofferto, costato la vita a milioni di persone. Ci mostra l’immagine di un monumento realizzato per commemorare i martiri del movimento per la conservazione della lingua madre. Le parole possono essere pietre.
Abitare un luogo equivale a farci noi stessi luogo, a cercare le distanze, a moltiplicare punti panoramici. Un modo divertente per sperimentarlo è metterci in scena, camminando liberamente nella stanza prestando attenzione agli altri, per poi bloccarsi e trattenere il respiro in un movimento abbozzato, alternando il ritmo delle nostre falcate, cercando una precaria immobilità. Gli inevitabili e occasionali attriti diventano opportunità per salutarsi ancora, stabilire un’intesa, condividere una sonora risata. Ispirandoci alle pratiche di Virginia Satir (Satir, Grinder, Bandler, 1980) componiamo sculture corporee viventi, seguendo una successione: qualcuno va al centro e assume una posa a piacimento, a turno gli altri vi si connettono cercando un contatto. Ne escono forme collettive e quadri viventi nei quali il gesto di una prosegue nel corpo di un’altra. Qualcuno sceglie di osservare l’intreccio dei corpi per completarlo agganciandosi con mani e piedi dilatando i nostri confini. Dove iniziamo e dove andiamo a finire quando ci connettiamo fisicamente agli altri? Come diviene la nostra individualità e quale contributo indispensabile apportiamo, nel gesto di approssimarci all’altro e plasmarci nello spazio che ci concede? Allestiamo una piccola performance raccontando la storia del nostro nome. Lo spazio si fa teatro. Spuntano trame in cui si intrecciano racconti di famiglie, di buffi fraintendimenti, di speranze e profezie, di auspici. Da quand’è che ci chiamiamo in quel modo? Prima che nascessimo siamo stati il sogno di qualcuno, come racconta Giada:
Mi è stato raccontato che, quand’ero ancora in grembo, le fantasie di famiglia mi volevano maschio e promettente atleta. Arrivata inaspettatamente, quando entrambi i miei genitori avevano superato la quarantina, tiravo calci con un’energia che, secondo mio padre, lasciava presagire avrei fatto il calciatore. Anche per questa ragione, il nome che lui aveva scelto per me – qualora avessi rispettato le aspettative di genere – era Manolo. Nome presumibilmente ispirato a un giocatore, alla cui identità non sono però mai riuscita a salire. Invece poi nacqui femmina e le mie sorelle scelsero per me ‘Giada’. Immaginarono che la forza che avevo dimostrato di avere nei piedi dentro al grembo, tramutasse in un temperamento tenace al momento della nascita e fosse garanzia di una preziosa capacità di resistenza. Così accadde che mi risparmiarono il nome spagnoleggiante di un calciatore per darmi quello di una pietra.
Appoggiamo a terra i testi poetici da Rupi Kaur, Mariangela Gualtieri, Erri de Luca. Vi passeggiamo accanto per declamarli con sentimento facendo attenzione a non calpestarli. Tra questi scegliamo le parole che più sentiamo risuonarci e legate ad un sogno possibile, lontano, vicino. Scopriamo così di avere tra noi poetesse del silenzio che fanno sogni senza voce e poliglotte narratrici che raccontano i loro desideri in tante lingue. C’è chi sogna di viaggiare, chi vuole la libertà e ha conosciuto la persecuzione, chi traduce lo stesso sogno cambiando qualche parola. Ragioniamo di libertà e visioni dell’aldilà arrischiando eresie. Ognuno rivendica il monopolio di un paradiso ultraterreno. Infine facciamo prendere il volo ai nostri sogni, trasformandoli in aeroplanini di carta. Il ballatoio diventa provvidenziale rampa di lancio dal quale ammiriamo siderali evoluzioni, impennate, contorsioni, planate, schianti, collisioni.
A volte succede: sogni che diventano realtà’
Quando un oggetto di uso comune viene trasferito in un altro spazio, cambia il suo significato e può facilitare l’accesso ad una dimensione evocativa, fantastica e corposensoriale. In un illuminante saggio ambientato tra i paesaggi domestici, Francesca Rigotti (Rigotti, 2010) interroga la posizione dei soprammobili ricavandone sorprendenti simbologie legate a suggestive visioni del mondo di chi vi abita. Tutt’altro che innocue suppellettili, sulle nostre credenze, mensole, vetrinette, appoggiano frammenti di universi interiori. Anche gli artisti del ready made operano traslochi contestuali: Marcel Duchamp (Marcadè, 2007) capovolgendo un umile orinatoio lo trasformava in una fontana, oppure coglieva nel movimento rotatorio della ruota di una bicicletta, rasserenamento e apertura mentale oltre la materialità della vita quotidiana. Gianni Rodari (Rodari, 1973) nel binomio fantastico, affiancava parole-oggetto che generavano incredibili macchine narrative. Il medesimo spostamento (Gregory Bateson parlerebbe di ‘apprendimento’), avviene del resto nella clinica sistemica. Quando nella conversazione terapeutica il terapeuta prova a proporre ai suoi clienti altre versioni di una storia non più generativa sfidandone le cornici contestuali e Gianfranco Cecchin brinderebbe allegramente con ‘vino nuovo in vecchie bottiglie” (Cecchin,1992). Una alchimia simile accadrà anche al comportamento delle persone? Con giocosa solennità appoggiamo al pavimento: una saponetta, un mazzo di chiavi, una pipa, un sasso, un paio di ciabatte, un pettine, un bicchiere, un cucchiaio, una forchetta, un pennello, un fermacapelli, un quaderno, un libro, uno specchio, una tazzina, un mestolo, una spugna, un ukulele, un’armonica a bocca, un ciondolo dorato, un piccolo annaffiatoio, un orologio, una lampadina, una clessidra, due bacchette per sushi, un cuscino. Ognuno è invitato a guardarli, toccarli, esplorarli, annusarli, muoverli, ecc.: cosa ci ricordano? A che momento della nostra vita sono collegati, a quali emozioni? Ci somigliano? Ne scegliamo tre per raccontare un ricordo bello e personale che ci suscita. Nella biografia di ognuno quegli oggetti poveri e sparuti traslocano per innescare frammenti di memoria, in un divertimento dadaista e abbinamenti fantastici. Materialità e inconsistenza di cui i sogni sono fatti.
Raccoglitori di sogni.
Ci disponiamo circolarmente dondolando al suono della voce, accenniamo filastrocche e cantilene: ‘Volare’ di Modugno, o una ninna nanna africana si meticciano ridicole e austere. Sorreggiamo con le mani chi sta al centro lasciandosi andare a occhi chiusi. Per smarrire temporaneamente vecchi equilibri serve reimparare la fiducia. Il passaggio da fruitori a erogatori di cura forse inizia così: nel gioco di accudire e cullare. Siamo pronte a diventare raccoglitori di sogni. L’ipotesi originaria del progetto prevedeva un incontro finale aperto alla cittadinanza ma i timori del contagio ci hanno dirottato verso un contatto digitale. Dai nostri device inviamo una semplice richiesta ad amici, conoscenti, compagni. Vediamo chi risponde a questo invito bizzarro!
‘Ciao! Sto partecipando a una ricerca sui sogni delle persone. Ti andrebbe di raccontarmi, in un breve vocale, qual è il tuo sogno di ieri e qual è il tuo sogno di domani?’
Giungono via etere voci e inflessioni. Sono storie venute da lontano, desideri bambini, attese di riscatto, che connettono passato e futuro in un immaginario della speranza. Così ingenue e necessarie che somigliano a quelle di ognuno di noi, a quelle che un tempo avevamo e che forse ancora dentro, albergano. Ci sono ancora? In cosa si sono trasformate? È l’inizio di un archivio onirico che auspichiamo possa divenire in futuro più vasto e corposo. Eccone alcune:
Abbiamo tutti delle macchine del tempo. Alcune ci portano indietro e si chiamano ricordi. Altre ci portano avanti e si chiamano sogni. Il mio sogno è girare il mondo e conoscere le culture… “(GH, 17 )
Mi chiamo J. , studio alla scuola Lorenzo Lotto (Bg), mi piace stare in Italia. Il mio sogno quando diventerò grande è di diventare una insegnante di geografia (J., 16)
Ogni persona ha un sogno, il mio per il mio futuro è di essere un tecnico elettronico, esperto in futuro. Questo è quello che cerco sempre di fare (A., 18)
Frequento la quarta superiore, come futuri progetti c’è quello di prendere il diploma e poi mi piacerebbe fare l’università nell’aeronautica civile per poi diventare pilota che è stato sempre il mio sogno da piccola. Una seconda opzione è diventare un’imprenditrice, quindi creare un mio proprio brand magari con l’università di marketing (Sh, 18)
C’è il tempo per congedarci regalandoci parole belle da portare appresso. Ripari tascabili per accudire un fragile futuro che ci offriamo con premura in un piccolo rituale mentre fuori imbrunisce e le nostre frontiere divengono un solo orizzonte.
Bibliografia
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