a cura di Ada Piselli e Barbara Trotta
Contributi di Laura Furnari, Maria Luisa Savona, Sara Varvaro, Camilla Simonato, Anastasia Dei Giudici, Alessia Nastasi, Angela Ricco, Elena Patris.
La complessità del percorso formativo: tra sé personale e professionale
di Laura Furnari, allieva IV anno, Sara Varvaro, allieva II anno, Maria Luisa Savona, allieva didatta, CSTF sede di Palermo
L’emergenza da Covid-19 ha prepotentemente messo in discussione, fino a “rompere”, le reti di relazioni esistenti tra l’individuo e il suo ambiente.
Bateson ci ha insegnato che non si può parlare di una specie o di un singolo individuo in modo astratto e per comprenderne il funzionamento occorre considerare l’organismo inserito nel suo ambiente: l’interazione individuo-ambiente diventa, quindi, fondamentale non solo per la sopravvivenza, ma anche per vivere bene.
Quando viene a mancare questa reciprocità, come possiamo ancora una volta essere “visti”? Come possiamo riconoscere e riconoscerci? Quali nuovi apprendimenti possiamo sviluppare in questo stato di emergenza?
Questa condizione, vissuta da più di un anno, ci ha messo nelle condizioni di dover ripensare e ri-significare concetti appresi nella nostra formazione: comportamento/comunicazione verbale e non verbale, contesto, identità, osservazione, ascolto, emozioni, relazioni, sistemi.
Questi concetti sono alla base della nostra formazione come psicoterapeuti.
Quanto tutto questo è pensabile e fruibile nella formazione a distanza?
Due allieve del IV e II anno del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, sede di Palermo, hanno provato attraverso un’intervista a interrogarsi su questi aspetti.
Laura (allieva del IV anno) e Sara (allieva del secondo anno), ognuno con il proprio stile, con proprie differenze personali, professionali e formative hanno ripercorso le tappe dei rispettivi apprendimenti andando ad analizzare le potenzialità della formazione a distanza attraverso le piattaforme web.
Come allieva didatta, all’ultimo anno del mio percorso, ho osservato le allieve nel processo dell’intervista e in una posizione “meta” osservando il processo comunicativo sui temi emersi: riflessività, cambiamenti possibili, moltiplicazione di mappe e territori.
Le domande delle allieve hanno riguardato le aspettative rispetto alla FAD, la gestione dei tempi e degli spazi e la connessione tra il sé personale e professionale, le differenze in termini di apprendimento tra la formazione on-line e in presenza e gli effetti (pragmatici) sul gruppo.
Laura è parte di un gruppo di cinque allieve e quando è iniziata la pandemia, da pochi mesi aveva iniziato il secondo biennio di scuola, respirava da anni l’area del Centro, i suoi spazi, le sue stanze e i suoi corridoi e all’improvviso si è ritrovata come molti, catapultata in una nuova “realtà” formativa.
Sara ha conosciuto il Centro già on-line, avendo partecipato solo ai primi due weekend formativi in presenza. Il suo gruppo è composto da 19 allievi e le dinamiche al suo interno hanno dovuto fare i conti con una “distanza” che non sembra avere di per sé inficiato la creazione di relazioni importanti.
Parlando di aspettative, le risposte delle allieve hanno messo in evidenza confusione e timori che sono stati rintracciati nel dover mettere tra parantesi il contatto con le colleghe nel momento del percorso formativo e nell’incontro con il modello sistemico durante la pandemia.
Queste prime “sfide” sembrano essere state superate nel momento in cui, racconta Laura, “pur se sei sola in una stanza che segui la lezione, ti senti parte del gruppo, intervieni, partecipi e contribuisci attivamente alla giornata formativa”.
Il modello sistemico diventa, quindi, risorsa per se stesso e nel momento i cui cambia il contesto si aprono nuovi spazi di scelta possibili e di “libertà” che, seppur “limitata” da uno schermo, assume un altro significato in termini di riconoscimento.
La proposta formativa del Centro ha fatto proprie le differenze tra FAD e formazione in presenza cercando di integrare le risorse dell’una e dell’altra, mantenendo come caratteristica principale l’attenzione ai bisogni formativi degli allievi e ai loro feedback: si sono resi necessari strumenti nuovi che tenessero conto della complessità di nuove inter-connessioni tra sistemi differenti. Se in presenza le attivazioni e i rimandi sembravano più immediati, oggi la FAD permette un’attivazione di risonanze con i contenuti proposti più “sospesa”. Qui gioca un ruolo importante il concetto di tempo, formativo e personale, che per le allieve diventa un tema importante. Se da una parte si assiste ad un’accelerazione del tempo per favorire una diminuzione delle distanze, dall’altra è proprio questo tempo che ci ha permesso di sostare tra diversi sistemi e confrontarci con il timing dei macro e micro sistemi in cui siamo inseriti. Nei racconti delle allieve, tempo e spazio si mescolano.
Sara ha sentito che “il Sé personale entra all’interno del percorso formativo, come un’onda” amplificato da una (a volte) necessaria condivisione di queste variabili.
Ognuno è entrato negli spazi personali dell’altro e ha permesso all’altro di entrarvi, così come la formazione è entrata in questi contesti e dentro le dinamiche relazionali di ciascuno.
La condivisione dello schermo è diventata una “porta” di accesso che ha permesso a Sara di “scoprire i propri limiti e pregiudizi” e a Laura di “mostrare un’altra parte” di sé.
Ci si è interrogati su quanto queste “porte”, una volta aperte, possano essere chiuse o ancora socchiuse. Quanto tutto questo sia connesso circolarmente con l’essere dentro la propria casa e in alcune circostanze alla presenza dei propri familiari.
È possibile pensare alla FaD come “struttura che connette” alcuni apprendimenti rispetto al sé personale e professionale?
E ancora, quanto tutto questo può incidere sui livelli di apprendimento, sull’attenzione e partecipazione?
Le due allieve concordano sul fatto che spesso ci si lasci distrarre da altri stimoli, in misura maggiore che in presenza, ma ciò non sembra influire sull’acquisizione di competenze e conoscenze.
Le piattaforme web danno un “ordine” agli scambi comunicativi che risultano brevi e, spesso, con un’alternanza precisa. Tuttavia, da questo apparente ordine, sfuggono dei livelli incontrollabili che si inseriscono al di fuori dello schermo. Lo spazio virtuale crea delle icone, con la nostra immagine delineata in dei “confini”, che diventano reali nella relazione con l’altro. Sembra che lo schermo, dalle parole delle allieve, non permetta un’autentica interazione con l’altro, di cogliere e ricevere feedback ed emozioni: “uno schermo che scherma le emozioni”.
La FaD può essere considerata un significativo limite alla comunicazione (verbale e non verbale)? E in generale, cosa ci direbbero oggi Watzlawick, Beavin, Jackson della pragmatica della comunicazione umana?
Dalle riflessioni emerge che, nel momento in cui l’obiettivo diventa quello di riproporre un’attività formativa senza alcuna differenza tra on-off line, (forse) il problema è mal posto.
Il modello sistemico insegna che bisogna saper leggere i contesti e chiedersi, non se esista o meno una comunicazione (non verbale), ma come una conversazione come quella on line possa diventare formativa all’interno di una cornice/schermo: l’esperienza ci aiuta a produrre significati e informazioni contestuali, discontinui, temporanei, sta a noi coglierli e ri-significarli.
Un altro elemento sembrerebbe entrare prepotentemente in relazione con la formazione a distanza: lo sguardo dell’altro, la reciprocità e il rispecchiamento. Nelle piattaforme web, chi viene visto da chi? Durante la formazione on-line vedere se stessi ci porta ad essere attori e osservatori di noi stessi, all’interno di un sistema osservante più ampio di cui siamo a nostra volta osservatori-osservanti.
Ciò potrebbe amplificare e potenziare la funzione riflessiva?
Il programma formativo del Centro ha previsto, anche on-line, la possibilità di utilizzare strumenti quali simulate, esercitazioni e supervisione di casi clinici. Ciascuno, attraverso queste metodologie, connette teoria e pratica clinica ed impara a confrontarsi non solo con i feedback dei colleghi e dei didatti, ma anche con lo specchio di proprie premesse e pregiudizi. Sara, nello specifico, ha fatto riferimento alla percezione di “ansia da prestazione”, avvertita soprattutto durante i primi incontri on-line. Prepotentemente veniamo riconosciuti nella nostra identità come persone (nome e cognome), veniamo “visti” all’interno dei nostri contesti (figura-sfondo), ci relazioniamo in grandi e piccoli gruppi (plenaria/stanze zoom) e queste relazioni vengono percepite come più o meno autentiche (possibilità di oscurare la propria telecamera e/o silenziare il microfono, connessione a singhiozzi).
Ad un altro livello è necessario parlare di metodologie formative e come queste siano state, da una parte, proposte da didatti e assistenti didatti e, dall’altra percepite e vissute dagli allievi nel passaggio dalla formazione in presenza a quella on-line.
Le allieve intervistate hanno definito i didatti come dei “mediatori e facilitatori” dell’apprendimento attraverso l’utilizzo di diverse tecniche e della piattaforma web in modo funzionale agli obiettivi delle diverse lezioni e al numero dei partecipanti. Sara, ad esempio, racconta che durante le simulate solo gli “attori” mantenevano telecamera e microfono accesi, mentre il resto del gruppo, quale equipe dietro lo specchio (schermo) si oscurava. Questo ha permesso di ovviare ad una serie di difficoltà soprattutto iniziali, come il sovrapporsi di voci e il mancato riconoscimento degli attori.
La creazione di stanze ha permesso la riflessione sugli articoli e testi assegnati, con un maggiore coinvolgimento e condivisione (nel piccolo gruppo) di propri aspetti personali e professionali.
La supervisione ha costituito un ulteriore strumento a disposizione degli allievi: dopo il racconto del caso, l’allievo/a viene invitato ad allontanarsi (attraverso la creazione di un’altra stanza) e il gruppo elabora una possibile restituzione da condividere. Tale processo viene facilitato anche dall’utilizzo di altre piattaforme.
Slide, filmati, audio e videoregistrazioni sono rimasti di ausilio anche per la formazione a distanza e si sono arricchiti della possibilità di poter vedere delle terapie in diretta, partecipando in modo attivo a tutte le fasi del processo terapeutico, dalla pre-seduta, alla conclusione di seduta, alla post-seduta. Questo aspetto, molto apprezzato dagli allievi, ha permesso loro di effettuare delle connessioni sempre più immediate tra teoria e pratica clinica.
La percezione del tempo didattico appare “denso” di contenuti”, “dilatato e più scandito” e ciò sembra riflettersi sullo spazio di intervento e su possibili riflessioni in merito a risonanze ed emozioni. Laura, a questo proposito, ha percepito alcune lezioni come “più accademiche” soprattutto durante i seminari (che prevedono l’accesso libero ad utenti interni alla scuola ed esterni) “per dare a tutti la possibilità di comprendere l’argomento e di acquisire le competenze di base…il relatore perde la possibilità di avere un feedback da parte della platea, in quanto è molto limitato nella possibilità di far intervenire e di vedere il comportamento non verbale”.
L’ultima domanda delle rispettive interviste ha riguardato le aspettative di un possibile rientro in presenza. Per Laura “ripercorrere i corridoi, entrare nelle stanze, sarà un’emozione paragonabile a quella provata il primo giorno di scuola del primo anno”: descrive una sensazione bellissima, fatta di ricordi, relazioni, affetti e confronti. Sara si chiede chi abbraccerà durante il primo incontro, come sarà quell’abbraccio, che “sapore” avrà. Racconta che tutti i membri del suo gruppo hanno vissuto “eventi critici” (lutti, matrimoni, gravidanze, ecc.) durante l’anno trascorso. L’incontro determinerà molti vissuti emotivi. Sarà presente l’ansia di raccontare le proprie avventure rimaste dietro ad uno schermo ed i propri cambiamenti non condivisi. Sara sottolinea l’importanza dello sguardo e dell’abbraccio “emotivo”.
La formazione online: un’esperienza di deuteroapprendimento
di Camilla Simonato, allieva IV anno, CPTF sede di Padova
Nel mese di marzo 2020 sono state emanate stringenti misure per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull’intero territorio nazionale, in cui si chiedeva alla popolazione di rimanere quanto più possibile nelle proprie abitazioni ed evitare gli spostamenti non necessari; conseguentemente le lezioni in presenza presso la sede del Centro Padovano di Terapia della Famiglia sono state sospese. Dai primi mesi dell’inizio del terzo anno fino a oggi, in prossimità della metà del quarto e ultimo anno, la formazione si è tenuta online. Inizialmente i didatti e gli allievi si sono confrontati circa le modalità e le tempistiche delle lezioni più proficue per l’insegnamento e l’apprendimento; inoltre, ricorrevano domande rivolte allo stato di salute, alle condizioni personali e professionali, ai vissuti emotivi e psicologici, che i didatti, gli allievi e i loro familiari stavano affrontando, particolari non sempre esplicitati in presenza. Emergevano titubanze, preoccupazioni, disagi e resistenze circa l’utilità e l’efficacia dei contenuti trasmessi e acquisiti attraverso uno schermo senza potersi vedere vis-à-vis in una situazione contestuale di precarietà e incertezza. Nonostante le iniziali perplessità, la scommessa della formazione online si è strutturata e si sono progressivamente riscontrate disponibilità, fiducia e aderenza a questo nuovo tipo di esperienza, in cui le lezioni sembravano dei preziosi momenti di ascolto, confronto, contatto e supporto, attesi nella noia e nelle restrizioni della quotidianità; la formazione online appariva uno strumento in grado di mettere un po’ di ordine in un momento della vita personale e professionale e della storia comunitaria, in cui il disordine sembrava padroneggiare. I mesi sono trascorsi, le lezioni hanno seguito il loro sviluppo, i docenti e gli allievi si sono adattati alla realtà virtuale. Oggi, a più di un anno di distanza dall’inizio dell’esperienza di formazione online, le preoccupazioni e le perplessità sono state superate, permettendo sia ai didatti sia agli allievi di interrogarsi e acquisire nuovi strumenti e nuovi linguaggi attraverso, per esempio, la partecipazione a innumerevoli eventi curriculari ed extra-curriculari in diverse parti d’Italia e del mondo, altrimenti difficilmente raggiungibili in presenza. Lo schermo ha permesso di osservare il non verbale facciale, visivo e vocale sia altrui sia proprio, non coperto dalla mascherina, cogliendo sia le innumerevoli espressioni e i loro possibili significati sia l’ascolto, l’interesse, la presenza e la vicinanza, tenendo più a mente gli altri e reciprocamente sentendosi più pensati. Il virtuale ha richiesto ai sistemi coinvolti flessibilità e riorganizzazione nella comunicazione e nelle relazioni; la frustrazione, il senso di impotenza e la consapevolezza di non possedere il controllo su ogni circostanza hanno trovato una risposta nelle connessioni e nelle collaborazioni, fondamentali e indispensabili soprattutto nella professione d’aiuto dello psicoterapeuta. Di fronte agli ampi e complessi mutamenti la formazione online è diventata un’esperienza di resilienza, attivazione delle risorse potenzialmente disponibili e adattamento ai nuovi scenari reali e virtuali. I cambiamenti e le limitazioni nelle relazioni, nelle modalità comunicative e nelle abitudini delle lezioni sono stati affrontati attraverso l’individuazione di scelte, soluzioni, strategie e riorganizzazioni funzionali al nuovo contesto, sfruttando la tendenza omeostatica e la capacità di trasformazione dei sistemi viventi. L’emergenza Covid-19 ha determinato una crisi personale, professionale e sociale, divenuta motivo di riflessione per trovare nuovi spazi di pensiero, azione, confronto e conforto con la forza della condivisione collettiva, della connessione supportiva e della reciprocità responsabile. In sintesi, l’esperienza della formazione online ha rappresentato l’opportunità dell’esercizio dei principi fondanti l’ottica sistemico-relazionale, quali il valore della relazione, la condivisione delle informazioni, l’allargamento delle connessioni, la flessibilità della prospettiva, la molteplicità delle mappe, l’attribuzione di significati alle esperienze e alle emozioni, la co-costruzione di storie alternative, lo sviluppo di nuove trame narrative e l’adattamento a un nuovo equilibrio, e, dunque, può essere interpretata come un deuteroapprendimento rispetto alla clinica terapeutica.
Un anno di formazione online: la mia esperienza
di Anastasia Dei Giudici, allieva III anno, CMTF sede di Torino
Dopo un anno di formazione a distanza, come stiamo?
Apparentemente è una domanda semplice perché, essendo lineare, ci permette di rispondere in maniera sbrigativa, semplicemente con “bene” o “male”. Ma se proviamo ad entrare nel significato delle singole parole, ci accorgiamo immediatamente che le questioni semplici a cui rispondere sono altre. Un anno non è solo un’indicazione temporale, ma, a parer mio, una costante imprescindibile della domanda stessa. Questo perché un conto è pensare ad una formazione a distanza per un tempo definito già in partenza, altro è farlo con la consapevolezza che la durata sarà incerta, non definibile, sicuramente non breve. Altro fattore è la motivazione alla base della distanza. La pandemia porta con sé un sottotesto che dice “attenzione, non puoi stare troppo vicino alle persone perché potreste infettarvi”. Accipicchia che paradosso! Noi ricerchiamo il contatto, la colleganza, non solo per formarci reciprocamente rispetto alla teoria e ai metodi, ma soprattutto rispetto ai nostri pensieri, cercando di collegarli, intrecciarli, formando una bella rete, sufficientemente solida. Esattamente come fa il ragno costruendo la sua ragnatela, ma con la differenza che non siamo da soli nel costruirla ed è il contributo di tutti che fa la differenza all’interno di ognuno di noi. Sarebbe quindi ben diverso se la motivazione alla base della distanza fosse un’altra, come, ad esempio, il dover seguire online per un motivo personale e non collettivo, interno a sé e non derivante dall’esterno, magari anche piacevole, come potrebbe essere una gravidanza. Possiamo, inoltre, declinare la distanza in diversi modi: un conto è parlare di distanza in senso fisico, quindi della distanza che intercorre tra noi e le altre persone in termini di metri, di luoghi abitati in un preciso momento; altro è parlare di distanza emotiva tra le persone. Ecco quindi che nasce un’ulteriore domanda: quanto e come la distanza fisica incide sulla distanza emotiva? Un dispositivo elettronico sicuramente ci avvicina perché non solo ci permette di comunicare, ma anche di guardarci mentre lo facciamo, anche se non è detto che tutti si sentano connessi e collegati allo stesso modo. I motivi possono essere diversi, partendo da quelli più pratici legati alla dimestichezza con i dispositivi a quelli più profondi e personali come potrebbe essere la percezione relativa al controllo, che può cambiare molto a distanza, anche in base alle relazioni che stiamo vivendo e ai ruoli che stiamo assumendo. Questo perché se cambia la percezione che noi abbiamo dell’ambiente che ci circonda, inevitabilmente cambia anche la percezione emotiva che abbiamo dell’altro, così come si modifica il livello di fiducia e sicurezza. Anch’esso, come una ruota che gira, inciderà sulla percezione del controllo e quindi sulla connessione emotiva che abbiamo con l’altro. Ritengo sia quindi estremamente difficile anche solo riuscire a pensare che la relazione a distanza sia uguale a quella in presenza. Non per questo, però, la definirei peggiore, ma semplicemente diversa.
Ritengo che la formazione online abbia portato con sé diversi contributi. Innanzitutto ci ha permesso di approfondire e provare con mano che cosa significhi nella pratica seguire per un anno lezioni da otto ore online, dovendo anche continuare delle terapie individuali, di coppia o famigliari. Paradossalmente a lezione spesso si parla di quante cose si sarebbero potute fare in presenza, senza soffermarci su quante cose invece ci è stato possibile conoscere e sperimentare online. Sentire la frustrazione di dover fare una simulata senza poter nemmeno decidere come posizionare le sedie, oppure, non potendo dividere il gruppo in due stanze fisiche diverse, trovarsi a vedere le facce oscurate di alcune colleghe durante un lavoro in aula virtuale. Nonostante le ore passate a studiare come poter fare al meglio terapia online, restare nell’incertezza della rete che può cadere, dei volti che non si vedono e dei corpi tagliati, del dover trovare una nuova sintonia non solo con i clienti ma anche con le colleghe. Personalmente oltre ad aver iniziato a litigare meno con la tecnologia, ho approfondito anche il tema del non verbale. Inevitabilmente ci si trova a parlare con dei quadratini, perciò l’attenzione va, in maniera abbastanza naturale, sulla mimica facciale. Ecco che quindi mi sono resa conto quanto alle volte mi manchi l’informazione che può dare il movimento del corpo. Pensiamo alla differenza che c’è tra vedere solo la mano che gesticola, senza avere una visione completa del movimento delle braccia; o ancora come sono messi i piedi e le gambe, se sono ancorati al pavimento, se sono fermi o in movimento; anche vedere come sta il corpo sulla sedia, se è più o meno inclinato verso di noi, più o meno rigido. Spesso a lezione ci viene riportato quanto sia importante la curiosità, però il sottofondo che mi è capitato di percepire, alle volte, era quello dell’online come qualcosa che spegne la curiosità, che la limita. Invece, con il tempo, ho intravisto l’opportunità di imparare, sperimentare qualcosa di nuovo e sono stata molto contenta che ci sia stato permesso di continuare le terapie, prendendoci del tempo per studiare, pensare e cercare di fare nostra anche la terapia in questa modalità. Il punto non è ciò che manca, ma è riuscire a fare quel salto che ci permetta di comprendere perché una cosa la sentiamo mancante ed eventualmente come poter compensare ciò che noi percepiamo come tale. Ciò non significa che io non pensi che ci siano a volte delle situazioni di terapia in cui la presenza sia la scelta migliore, non solo rispetto al bisogno del cliente, ma anche a quello del terapeuta. Esattamente come sento la mancanza di un caffè con le colleghe durante una pausa per poter entrare in relazione con loro ad un altro livello, anche solo per cinque minuti. Detto ciò, non sento di aver appreso meno rispetto a quanto avrei potuto fare in presenza, anzi penso sia stata una bella opportunità che ha contribuito alla mia crescita professionale. Inoltre, ora che abbiamo acquisito tutti una maggiore dimestichezza, non penso che in futuro questa modalità formativa debba essere del tutto abbandonata, ma credo che potrebbe essere prevista, come alternativa alla didattica in presenza, in alcune situazioni particolari (motivi di salute, gravidanza, etc.).
Racconto di una coterapia online in formazione
di Alessia Nastasi, allieva III anno, CMTF sede di Torino
Nel marzo 2020 la pandemia (per Covid-19) ci ha messo davanti grandi cambiamenti e sfide. Io frequentavo il secondo anno di specializzazione al CMTF per abilitarmi come psicoterapeuta e, data l’emergenza sanitaria, mi sono ritrovata obbligata a sospendere ogni attività didattica in presenza al fine di limitare i contagi.
In quel momento si è messa in discussione una parte importante del percorso formativo e anche la possibilità per le famiglie seguite dal centro clinico della mia scuola, di continuare il percorso che, spesso con grande fatica, avevano deciso di intraprendere rivolgendosi a noi.
In questo contesto l’unica soluzione pensabile per garantire continuità ai clienti ci è sembrata essere la terapia online, il che ha comportato però una serie di perplessità che, prima di cominciare, abbiamo dovuto sviscerare. Infatti, avendo ogni terapia in quel contesto un obiettivo “anche” formativo e di apprendimento, abbiamo innanzitutto dovuto riflettere sulla potenziale qualità̀ di tale prospettiva. Inizialmente sono state raccolte le idee e le impressioni per individuare vantaggi e svantaggi, possibilità e ostacoli di una formazione in psicoterapia a distanza. In questa fase ci hanno aiutato molto le parole di Massimo Giuliani: “non fissiamoci sull’idea del “se è possibile”, ma sul “come è possibile” la costruzione di un rapporto di fiducia virtuale che faccia da innesco per la relazione terapeutica. Dobbiamo continuare ad apprendere ad apprendere, lavorando con un approccio flessibile che ci permetta di farci delle domande su questo tipo di contesto nuovo”. Un paio di mesi prima, con una collega del mio stesso anno, sotto la supervisione di una didatta e di un’allieva didatta, avevo cominciato a seguire una famiglia durante le ore di formazione. Dopo aver rimandato una seduta, in attesa anche che si chiarisse la situazione emergenziale ancora incerta e spiazzante, abbiamo deciso di confrontarci con la famiglia in questione per valutare insieme se l’online potesse essere una possibilità adatta a loro in quel momento e in quel contesto. Così, dopo due mesi, si è svolta la prima seduta online con la famiglia composta da madre, padre e due figli adolescenti. Ci siamo interrogate sul come e se fosse possibile continuare a seguire questa famiglia in online preservando il setting della terapia vis a vis. Abbiamo riflettuto su aspetti più pratici: si è deciso di utilizzare la piattaforma Zoom per la gestione della videochiamata; ci siamo premurate di aggiornare il consenso informato con nuove clausole; per garantire maggiore privacy abbiamo concordato di non registrare le sedute (come invece avveniva in presenza, a scopo formativo). Abbiamo dovuto riflettere anche sulla gestione dell’équipe “dietro lo schermo”, decidendo che durante la seduta stesse con audio e video spenti, ma che, come in presenza, la famiglia potesse chiedere di conoscerla e vederla. Altri aspetti importanti sono stati quelli relativi al processo terapeutico, infatti ci siamo chieste quanto fosse importante aver visto questa famiglia in presenza “soltanto o già” due volte, prima del passaggio all’online e quanto potesse essere impegnativo o rischioso gestire delle sedute online per noi allieve terapeute al secondo anno di formazione e alla prima esperienza di coterapia. Una coterapia didattica infatti, secondo il modello di Whitaker “non corrisponde ad insegnare/imparare dal vivo tecniche e modalità di intervento specifiche e indipendenti dal sistema terapeutico, ma piuttosto insegnare/imparare a riconoscere e ad utilizzare ciò che accade in seduta, sia riguardo alla famiglia, sia e soprattutto riguardo a noi stessi e alla relazione tra i terapeuti”. Da subito mi sono resa conto di quanto fosse diverso il rapporto con la collega in online rispetto alla presenza: una delle cose belle della coterapia in presenza è la possibilità di cogliere lo sguardo dell’altro, coglierne la comunicazione non verbale, percepirne lo stato emotivo, il rossore, l’imbarazzo, le difficoltà, sentire la temperatura della stanza aumentare quando si toccano argomenti caldi, sentir rabbrividire l’altro in certi passaggi delicati. Intendersi attraverso uno schermo invece non è così semplice. “Tu” cerchi di guardare tutti, seppure ciascuno si trovi in un diverso quadratino, ma non sai mai da chi sei guardato. Se pensiamo al potere dello sguardo come feedback relazionale si intuisce la complessità già solo di questo aspetto. Abbiamo poi riflettuto sulla gestione degli spazi: infatti, svolgendosi ogni passaggio della seduta nello stesso ambiente, la stanza di casa propria, questo porta con sé diversi nodi. Ci si sente un po’ soli dietro a quegli schermi, si ha la preoccupazione di non riuscire a contenere ed essere contenuti, si fa fatica ad “uscire davvero” dalla stanza di terapia quando si mette in pausa la seduta per dedicarsi alla discussione l’equipe o quando si conclude la seduta. Abbiamo sentito anche la mancanza di un “terzo ambiente”, in presenza rappresentato dal corridoio che collega la stanza dove c’è l’equipe e la stanza di terapia – luogo dove ci si rende conto che siamo di nuovo “io e te” che stiamo entrando in stanza di terapia – ci si accorda con l’altro terapeuta, a volte anche solo con un sorriso. Ad esempio, durante la prima seduta in online ci è capitato che il figlio dodicenne della famiglia in questione si sia presentato a torso nudo. Ci siamo subito dette che probabilmente doveva sentirsi molto a suo agio e che si era creata una buona alleanza terapeutica nelle sedute precedenti. Questa esperienza ci ha dato l’opportunità̀ di crescere professionalmente, di comprendere gradualmente il nostro stile terapeutico, di confrontarci con équipe e docenti su queste nuove modalità. Per esempio, abbiamo imparato l’importanza del parlare tra terapeuti durante la terapia. Infatti, online, se non parlando apertamente tra di noi davanti alla famiglia, non ci sono altri modi per manifestare una necessità di qualsivoglia genere all’altro terapeuta. Ricordo una seduta durante la quale, dopo una pausa in cui ci siamo confrontate con l’équipe, al nostro “rientro” non abbiamo trovato più un membro della famiglia che si era dovuto allontanare per un’emergenza di lavoro. Lì per lì siamo rimaste spiazzate – in presenza ci avrebbe almeno salutato – invece in quel caso era fuori dalla chiamata, a casa propria libero di andare senza dare troppe spiegazioni. Io e la mia collega, dopo un primo momento di smarrimento, abbiamo deciso di confrontarci apertamente. Azione apparentemente molto logica e semplice, ma non così immediata in online, proprio perché non si coglie appieno lo sguardo dell’altro e ci si può sentire più facilmente spaesati. Ad oggi abbiamo fatto circa otto sedute online con questa famiglia. Nel frattempo nella nostra classe sono state avviate altre due terapie, sempre online. Seppure questa esperienza sia stata fin da principio carica di dubbi e perplessità, possiamo al tempo stesso dire che queste abbiano funzionato da motore creativo per la scoperta di un approccio sistemico rivelatosi più flessibile di quanto immaginassimo. Infatti, pur non negando che la possibilità di incontrare le persone vis a vis possa essere la soluzione ottimale nella maggior parte delle situazioni, siamo rimasti piacevolmente sorpresi dal fatto che in online, non venga intaccata l’efficacia della terapia.
Sentirsi mentalmente vicini anche se fisicamente distanti
di Angela Ricco, allieva IV anno, CPTF sede di Padova
Da marzo 2020 a oggi ci sono stati notevoli cambiamenti nell’ambito della formazione dovuti alla necessità di riorganizzazione per l’impatto della diffusione del Covid-19. All’annuncio della chiusura forzata di un’intera nazione non eravamo preparati, né tantomeno pronti da subito a una ridefinizione della nostra esperienza di apprendimento. Ciò che ci si aspettava senz’altro era una prosecuzione dell’iter formativo in attesa di uno sblocco delle normative che ci permettesse appunto di riprendere le consuete lezioni. Appariva a noi tutti chiara l’impossibilità di una continuazione in modalità classica ovvero in presenza, per motivi del tutto inequivocabili e indipendenti dalla nostra volontà. L’esperienza di formazione a distanza ha messo in luce vari aspetti che vorrei analizzare. Ha prima di tutto reso necessario il dover trovare uno spazio fisico che potesse accogliere una postazione dalla quale connettersi e uno spazio mentale dove ricollocare quell’aula immaginaria, contenitore delle nostre lezioni. Spazio utile è diventato quell’angolo di casa in cui ci si può/deve disconnettere dal resto della famiglia e collegarsi alle lezioni. Alla ricerca di strategie di evitamento familiare funzionali e nuovi adattamenti al contesto, sono ricominciate le lezioni secondo il loro calendario ma con una partecipazione diversa. Scelta la piattaforma più sicura per motivi di privacy, facilità di accesso e supporto dati, abbiamo tutti imparato velocemente ad utilizzare “Zoom” per le nostre videolezioni. Nuovi gesti e altre ritualità si sono instaurate in modo da segnare il nuovo contesto nel quale si entrava: breve saluto di ingresso, giro di informazioni su contagi e nuovi cambiamenti di setting, conteggio delle presenze, passaggio host, programma della giornata. A tutto questo non eravamo abituati fino a dicembre 2020.
La routine era ben altra: esci di casa, prendi il bus, un caffè al bar, ecc… Tutto questo è diventato solo un ricordo e il tempo ad esso dedicato completamente svanito. Abolite le vecchie abitudini siamo ripartiti con nuove premesse. Non è stato possibile trasferire tutto in modalità online, ma alcune cose hanno trovato il loro corrispondente, sostituto o quanto meno il loro posto in cui stare. È difficile dire con certezza di aver trovato una pseudo normalità con rinnovate abitudini. In un tempo indefinito come quello della pandemia mi è bastato inizialmente sapere che il gruppo ci fosse, concetto non scontato in un periodo di caos, che mi permettesse di mantenere una relazione e allo stesso tempo un’appartenenza.
In precedenza, quando entravo in aula, sceglievo la sedia che mi permetteva di stare più comoda, disposta a distanza ravvicinata dalle casse per ascoltare meglio, ora non più, mi connetto dalla stanza di casa in cui ho più tranquillità e riesco a concentrarmi. Non posso vedere i miei colleghi ma sono presenti nei riquadri accanto a me e la galleria mi aiuta a rivederli tutti come quando eravamo disposti in cerchio. Non ci sono sottogruppi di discussione ma stanze che vengono assegnate per lavorare sui casi presentati. Tutti questi “non” all’inizio mi riempivano la testa, finché mi sono detta: “stai continuando a pensare di poter fare tutto come prima, il tuo qui ed ora è cambiato e quindi devi ripensarlo e aggiornarlo in base alle nuove modalità”. Questo mi ha aiutato a sintonizzarmi con il presente, cercando quelle corrispondenze ancora possibili e nuovi adattamenti.
Le buone abitudini del passato le ho raccolte nella vecchia visione della didattica in presenza e così mi sono concentrata su ciò che di utile potevo trarre dalla nuova didattica a distanza. Sicuramente all’inizio trovavo quantomeno singolare immaginare una lezione di otto ore in uno spazio diverso e unico per ciascuno, ma collegato agli altri in rete. La distanza fisica pensavo fosse tale che difficilmente saremmo riusciti a riprodurre quello che si faceva in aula.
Questo ha determinato uno sforzo da parte mia e credo di tutti per restare distanti ma uniti. Credo di aver imparato come ci si possa sentire uniti pur restando distanti. Quello che ha aiutato è stato secondo me il passaggio di emozioni che non sono rimaste bloccate nello spazio circoscritto di ciascuno, ma hanno attraversato lo schermo e sono arrivate dritte a ciascuno. Per spiegare meglio questo passaggio colgo l’occasione per esemplificare quella che è stata la mia esperienza diretta. L’anno scorso ad aprile sono stata la prima della classe a presentare il genogramma familiare in modalità online. Ricordo che all’inizio della giornata ci siamo tutti interrogati su quanto il contesto domestico nel quale mi trovavo fosse diverso da quello dell’aula e potesse in qualche modo influire sull’emergere delle memorie interne. La connessione con il mio spazio di vita quotidiano ha avuto una funzione facilitante nel rievocare i ricordi e farmi sentire più a mio agio nell’esporre gli stessi.
Inizialmente ero preoccupata del dover condividere qualcosa di personale a distanza in quanto immaginavo che la distanza fisica non avrebbe permesso al gruppo classe di entrare in connessione emotiva con gli argomenti trattati. La capacità di sintonizzarsi sulle emozioni altrui si è espressa con momenti di commozione condivisa che, durante il racconto, non sono mancati. La vicinanza che ho sentito da parte della classe ha dimostrato che le barriere sono più spesso mentali piuttosto che fisiche.
Quando mi sono trovata dalla parte di chi ascoltava la presentazione degli altri, ho colto in maniera indiretta ma con molta intensità le emozioni che loro provavano e questo ha reso diversa l’esperienza a distanza che immaginavo più asettica e distaccata. Ho imparato che nonostante ognuno fosse nella sua “bolla” è stato possibile cogliere ciò che provava e connetterlo al sentire degli altri.
Ci siamo messi alla prova in un anno in cui ognuno con le sue difficoltà e preoccupazioni ha sentito più forte le emozioni dell’altro. Credo che la vera sfida inaspettata sia stata quella del sentire amplificate le emozioni dell’altro in un contesto liquido come il web in cui le emozioni avrebbero potuto diminuire la loro intensità o sfuggire alla sensibilità altrui. Mi sono trovata anch’io molte volte in risonanza emotiva durante i racconti del genogramma dei miei colleghi. Questo lavoro di approfondimento su di sé che ognuno ha fatto durante il periodo della pandemia, quindi a distanza, credo sia stato notevolmente più intenso e partecipato da parte della classe. A volte la distanza non vuol dire automaticamente distacco emotivo, questo è solo un pregiudizio che avevo e che non ha trovato riscontro nella mia esperienza. L’opportunità di ricredermi e di cambiare punto di vista non è stata vana, mi ha arricchito.
Nel momento in cui scrivo è passato più di un anno dall’inizio della pandemia e ci stiamo avviando verso una fase di riappropriazione dei nostri spazi. Quegli spazi reali che occupavamo fino allo scorso anno e che ci manca non aver più condiviso. La possibilità di vaccinarci sta avvicinando l’idea di poter ricominciare a pianificare una didattica nuovamente in presenza. I tempi stanno maturando e le vigenti norme governative ci permettono di immaginare un ritorno in aula. Poter dire questo è un sollievo in quanto cresce la volontà di concludere un percorso potendo stringere la mano o guardare diritto negli occhi chi ti ha formato, chi ti ha accompagnato e aiutato fin qui. Alla mia classe auguro di poterci salutare, festeggiare e brindare vis à vis la conclusione della nostra esperienza formativa che quest’anno volge al termine. L’assenza prolungata di un contatto diretto con la classe ha penalizzato tutto ciò che di spontaneo succedeva nel contesto informale delle lezioni. Sul piano umano e relazionale credo di aver pagato un prezzo molto alto. Inevitabilmente ho perso il contatto umano e quei momenti di pausa che scandivano le giornate e rafforzavano i legami interni. La chiacchierata, la battuta, la risata sono stati i grandi assenti di questo periodo. Per quanto si è cercato di mantenere i rapporti con modalità alternative, l’assenza dell’altro è quello che ha fatto la differenza. Tuttavia della didattica a distanza che ho sperimentato in questi anni, mi rimarrà il ricordo dei momenti in cui ho visto i membri del gruppo a distanza ma li ho sentiti vicini, anzi più vicini di quanto pensassi posizionata dietro uno schermo ma con la mente più accesa.
La formazione online è come il kintsugi
di Elena Patris, allieva IV anno, CMTF sede di Torino
All’inizio del 2020, ero impegnata ad organizzare il calendario dei laboratori di Land Art e dintorni, che dall’anno precedente erano diventati una parte consistente del mio lavoro. Quelle che proponevo erano esperienze in cui esplorare la possibilità di fare con quello che c’è e di inventare un modo per dare forma a quello che potrebbe esserci, sperimentando le potenzialità trasformative del quotidiano nei luoghi in cui ci troviamo a stare, dagli ambienti naturali della Land Art, alla scrittura autobiografica intorno ai vestiti, al riuso degli oggetti dismessi. Se tutto questo, con l’avvicinarsi della pandemia, è stato immediatamente messo tra parentesi, in attesa di capire meglio cosa stesse succedendo, il resto della mia attività, il lavoro in studio e quello di formazione e supervisione con équipe dei servizi sociosanitari, è stato improvvisamente caratterizzato da giorni di incontri quasi surreali, con mascherine, guanti, gel, distanziamenti, fino a quando non è stato imposto lo stop generale, che ricordo di aver preso con sollievo. Avevo bisogno di fermarmi un momento, mi sentivo a disagio. Ripensandoci ora, forse mi sentivo come se, ingrassata, continuassi a vestirmi a tutti i costi con gli stessi vestiti che mettevo prima. Dovevamo fare i conti con le nuove misure del contatto, investito di colpo dal contagio, etimologicamente simili, nella dilagante confusione comunicativa, tra distanziamento fisico e distanziamento sociale. Lo volevo a tutti i costi, quel contatto?
Dopo lo smarrimento iniziale, tutto, o almeno tanto, si è spostato online, chissà come avremmo fatto senza? Dall’altra parte dello schermo, c’erano volti dolenti, attenti, divertiti, distratti, annoiati, stanchi, spaventati, saturati dalla luce, gente che mangiava, che fumava, che parlava con qualcuno, gatti che passavano, bambini che spuntavano, tazze, piante, incursioni sullo sfondo, muri bianchi, sfondi esotici, camere da letto, l’immancabile libreria, schermate con foto o schermate nere, solo con i nomi. Ecco, è stato da subito più semplice ricordare i nomi, anche se si è persa l’abitudine di fare le presentazioni.
Dove ci trovavamo? Era la stanza di formazione, ma non era la stanza di formazione. Era la casa, ma non era la casa. Era lo studio, ma non era lo studio. Era qualcosa che vivevo e qualcosa che guardavo, con lo sguardo del poi con cui guardiamo le fotografie, quello sguardo che ci fa scoprire cose nuove e tiene costantemente aperto il dubbio su quello che sta guardando, per il suo carattere di altrove.
Quante cose non avevo visto prima, quante cose non guardavo. Oppure era questo modo di prendere parte che mi aveva resa più attenta, nuovamente attenta?
Quel rettangolo, ogni rettangolo sullo schermo mi pareva qualcosa di simile a quelle che Wim Wenders chiama “le rovine del presente”, fotografie di luoghi che raccontano di qualcosa che è finito, ma insieme anche di qualcosa che può cominciare e di cui, quindi, bisogna prendersi cura. È così che tutto ciò che mi pareva perdita/assenza mi teneva incollata per capire in che modo avrebbe potuto farsi nuova presenza. Nei mesi successivi, poi, ho perso entrambi i miei genitori, e il mio racconto di questo tempo si intreccia anche a quelle vicende private. Lì, in mezzo a tutto quel dolore e a quella fatica, ho sentito la forza con cui l’esperienza della perdita e dell’assenza può mostrare, anche brutalmente, che la vita continua.
E allora, un po’ come il kintsugi, la pratica giapponese che ripara e impreziosisce gli oggetti tenendo insieme i cocci con l’oro, lavorare online è stato per me un modo per aggiustare lo spazio e il tempo, che sembravano rotti, e farli diventare qualcosa di pregiato, diverso da quello che erano.
Di fronte a quelle fotografie, ho cominciato a chiedermi: e io? Che faccia posso fare? Cosa mi metto? Cosa inquadro alle mie spalle? Prendermi cura di quello spazio, per quanto piccolo, rappresentava per me un modo di mettere ordine e restituire uno spazio vivibile in un momento in cui sembrava che il mondo non lo fosse. Non c’è stato giorno, in questo anno, in cui io non mi sia presentata davanti allo schermo vestita di tutto punto, con scarpe, collane, rossetto (che ormai si può mettere solo online), fasce per capelli. Se ti riparo, si diceva, ti riparo con l’oro. E poi, la pianta, l’inquadratura, la luce, gli oggetti. Poter essere corpo senza essere nella stanza insieme, poter essere gesto, come nella costruzione teatrale del personaggio, proprio per dare spessore a ciò che rischia di essere visto solo come una proiezione in due dimensioni. Ultimamente mi sono anche attrezzata di fotocamera 4k, per allargare, fare spazio e arricchire il racconto di dettagli, come fa la mia immaginazione quando si espande all’interno di ogni ambiente che mi capita sott’occhio.
Nella posizione di formatrice, ho cominciato presto ad usarlo, quell’ambiente, ad attingere alle risorse che poteva offrire: oggetti, fotografie, persone, animali… Tutto quello che entrava in scena, anche nella sua assenza, veniva investito di valore drammaturgico. Mi è capitato di chiedere alle persone di muoversi, di mostrarmi lo spazio in cui si trovavano da diverse angolature, di comporre l’ambiente alle loro spalle, di tracciare itinerari.
All’inizio era difficile parlare: non si faceva, si faceva insieme, saltava la connessione. La comunicazione era intermittente come spesso lo sono le chat di WhatsApp. E allora perché non usare anche WhatsApp? Nella formazione in psicoterapia, ad esempio, è diventato il mezzo per comunicare tra terapeuti dietro lo schermo/specchio, con qualche sbirciata anche da parte dei terapeuti in seduta, attraverso uno specchio sempre più permeato. Per me è diventato soprattutto un modo di occuparmi dell’Intanto di cui parla Paolo Jedlowski, “l’utopia di tenere tutto insieme, di non perdere nessuno, in fin dei conti di venir accettati per tutto ciò che si è – e si è molti”. Guardavo quei rettangoli, e mi sembrava che ci fosse una storia principale, e poi delle sottotrame, continue digressioni e altrettanto continui intrecci. Ogni volta che si inseriva qualcos’altro, poteva cambiare la storia principale, e sarebbe stato un peccato non tenerne conto. Tutti quanti abitavamo lo stesso momento, e lo facevamo ognuno dal proprio altrove. Ed è lì che ho cominciato a portare la mia attenzione, al tempo che è francamente altrove e che potrebbe diventare altro contatto, Intanto che dilata l’incontro aprendo la possibilità di ritornarci osservandolo da prospettive diverse. Mi sembra infatti che proprio quella paura di non entrare sufficientemente in contatto, diffidenza che accompagna spesso l’online, o che la partecipazione possa essere più dispersiva, possa rappresentare non una mancanza, ma uno spazio libero per la costruzione di nuovi significati dello stare insieme. Se qualcosa non si può fare, occorre ingegnarsi per fare altro. Nei laboratori di autobiografia, ad esempio, WhatsApp si è fatto territorio fecondo per la condivisione delle scritture, spesso dando vita a nuove rielaborazioni e tenendo il filo tra un incontro e l’altro. Come scrive Jedlowski, Intanto è avverbio e congiunzione.
Ne ho fatte tantissime di formazioni in questo anno, come allieva e come formatrice, e molte di quelle probabilmente non le avrei mai fatte se non fossero state online, perché troppo scomode da raggiungere. Essere altrove, dunque, come formidabile occasione di essere ovunque.
Una delle cose che ho sentito di più, e continuo a sentire, è stata: non è la stessa cosa. Certo che non lo è, come se io volessi mettere lo stesso vestito che mettevo qualche chilo fa e restassi a guardarmi allo specchio con rammarico. Se mi giro indietro, le perdite sono state tante, ben oltre la mia linea. Manca la socializzazione, è vero, anche a me manca, e allora ascolto il chiacchiericcio delle pause di lavoro o guardo dentro le case, e trovo un’altra forma di vicinanza, una dimensione di grande umanità con inedite proporzioni. Ho perso anche una diottria, io che ne ho già poche. Il mio ottico mi ha detto che devo guardare oltre l’infinito, a allora adesso mi fermo, mi affaccio alla finestra, e il mio lavoro mi sembra pieno di cielo.