La diagnosi in psicologia clinica tra comprensione soggettiva e oggettività riduzionista

La diagnosi in psicologia clinica tra comprensione soggettiva e oggettività riduzionista

di Marco Nicastro

Introduzione: due situazioni cliniche

Voglio aprire questo contributo con una breve presentazione di due situazioni cliniche, a cui ho assistito o partecipato personalmente, abbastanza emblematiche di un certo modo di intendere la diagnosi in psicologia clinica, per poi proseguire con una discussione teorica su quanto da esse sembra emergere. Alcuni elementi delle vicende riportate, per ovvi motivi, sono stati modificati, pur cercando di mantenere la sostanza dei fatti.

Nella prima situazione due psicoterapeuti di orientamento cognitivo-comportamentale (indicati con T1 e T2) si confrontano su una paziente adolescente:

T1: “Sai, sto seguendo da qualche settimana questa ragazza (adolescente) e mi sembra che in certi momenti il suo umore oscilli molto e anche la sua visione delle cose. Vorrei valutare meglio la sua personalità, capire meglio… anche per il passato del padre…” (lascia intendere un possibile legame o timore tra le oscillazioni della ragazza e le gravi crisi depressive del padre).

T2 (più esperta nella terapia): “Be’, per valutare meglio la personalità puoi somministrare l’MMPI-2 che ti permette di individuare la presenza di tratti nevrotici o psicotici. Poi, sulla base di ciò che viene fuori, puoi somministrarle alcune scale della SCID-II, così vai ad individuare il suo profilo di personalità, o quello più vicino”. [1]

Nella seconda situazione, che descriverò indirettamente, un terapeuta, in occasione di una riunione con altri colleghi di un servizio psichiatrico, analizzando a scopo didattico il filmato di un bambino arrivato in consultazione per ulteriori approfondimenti diagnostici – ma con una diagnosi pregressa di Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) – chiese ai presenti di provare a individuare i segni e i sintomi tipici di quel disturbo o di altri concomitanti. Nello specifico, egli suggerì di considerare la possibile comorbidità del DOP con un Disturbo dell’attenzione e iperattività (ADHD) data la costante irrequietezza motoria del paziente. Già da qualche tempo, tra l’altro, il bambino assumeva un antipsicotico a causa della sua agitazione (questa terapia aveva prodotto un lieve miglioramento sintomatico).

Nella stanza di consultazione filmata a scopi didattici e di ricerca il piccolo paziente non stava mai fermo; passava da un’attività all’altra in modo disorganizzato, a volte non rispondeva ai richiami del terapeuta, chiedeva spesso dei propri genitori, tendeva ad uscire dalla stanza per i più svariati motivi per poi rientrare e ricominciare con quei comportamenti. Un’altra abitudine sedimentatasi da un po’ era la tendenza a farsi chiamare – e a chiamarsi – con un nome diverso dal suo, senza che né i genitori né altri fossero riusciti a spiegarsi questa bizzarria. Infine, il bambino presentava anche una tendenza ad opporsi alle richieste del clinico, nonché un certo sinistro compiacimento nel farlo intuibile da certe sue espressioni del viso.

Indubbiamente nella situazione clinica esaminata alcuni sintomi riconducibili ad un quadro di disattenzione, iperattività e oppositività erano presenti, anche se c’era sempre qualcosa che non tornava nell’insieme (almeno così mi sembrava); una sorta di substrato ansioso negli atteggiamenti del paziente, tanto che il professionista che presentava il caso finì per ipotizzare anche la presenza di un ulteriore disturbo, di tipo ansioso. Ipoteticamente, quindi, secondo lui era possibile fare una diagnosi di tre disturbi in comorbidità: ADHD (Disturbo dell’attenzione e iperattività), DOP (Disturbo Oppositivo Provocatorio), Disturbo iperansioso (o d’ansia generalizzata).

Per avere una sorta di conferma indiretta circa la presenza di un disturbo attentivo, l’équipe che seguiva il caso decise, in accordo col neuropsichiatra inviante (e coi genitori), di somministrare una dose medio-bassa di Ritalin [2] e monitorarne l’effetto: effettivamente dopo non molto tempo il piccolo paziente appariva più tranquillo, ma anche abbastanza intontito. Questo effetto non era proprio quello auspicato e così, dati gli scopi preliminarmente conoscitivi di quella valutazione diagnostica, i clinici decisero di sospenderne l’assunzione.

Dopo la visione del filmato, si aprì la riflessione clinica di gruppo.

Dinnanzi al mio dubbio sul fatto che il problema centrale non fosse di tipo attentivo-comportamentale, quanto piuttosto dell’intera struttura di personalità (per la disorganizzazione di alcuni comportamenti, la saltuaria, mi pareva, fatuità dell’affetto, e la bizzarria di quell’inspiegata tendenza a chiamarsi e farsi chiamare in un altro modo, che ritenevo segno di un principio di alterazione dell’esame di realtà), il terapeuta scambiò inizialmente la mia ipotesi di un processo psicotico in atto per l’indicazione della presenza di un possibile quadro autistico (come se psicosi e autismo fossero la stessa cosa); poi ignorò del tutto la mia notazione, continuando a chiedere ai colleghi di proseguire piuttosto nella ricerca dei sintomi dei vari summenzionati disturbi (cioè il disturbo d’ansia generalizzato e l’ADHD), che evidentemente gli sembravano molto più pertinenti.

Io insistetti: gli chiesi se non fosse il caso di provare a sospendere temporaneamente la somministrazione del farmaco antipsicotico, assunto dal paziente in una dose che avrebbe “steso” un adulto normale (secondo le stesse parole del clinico), solo per valutare la condizione psicologica della paziente in modo più “puro”, senza cioè le modificazioni causate dall’uso degli psicofarmaci. Come poteva porsi una diagnosi precisa, mi chiedevo, se venivano somministrati fin da subito ben due farmaci diversi, di cui uno, l’antipsicotico, piuttosto pesante nei suoi effetti [3]? Se si volevano comprendere le alterazioni del quadro patologico in atto, non era forse necessario osservarle nella loro manifestazione più essenziale, tenuto conto che non si aveva ancora un’approfondita conoscenza del paziente – potremmo dire una conoscenza “sul campo” – ma solo alcune, pur importanti, informazioni indirette di come era prima (i dati anamnestici, i racconti dei genitori e le diagnosi pregresse)?

Niente da fare. Il terapeuta disse che era già stato abbastanza difficile, per lui e la sua équipe, avere a che fare con quel bambino in quelle condizioni (cioè mentre assumeva l’antipsicotico) e che non aveva quindi alcuna intenzione di interagire con lui senza il “contenimento” garantito dal farmaco.

Il nostro confronto si concluse così, mentre in silenzio riflettevo un po’ amaramente sul fatto che, se certi farmaci venivano definiti antipsicotici, doveva pur esserci un motivo.

Riflessioni teoriche

Dopo le esperienze cliniche descritte nelle vignette precedenti, non ho potuto fare a meno di interrogarmi a lungo sul senso della valutazione diagnostica in ambito psicologico e su come questa venga declinata nei vari orientamenti teorici della psicologia clinica.

Alcuni di questi orientamenti paiono non dare molta rilevanza al senso che gli atti del terapeuta possono avere per il paziente, preoccupati come sono, fin dalla fase di consultazione, a cercare il profilo giusto di personalità o la configurazione sintomatologica in cui inquadrare la condizione esistenziale di una persona sofferente. A questo scopo spesso si servono di pletore di questionari, test e interviste strutturate (ritenuti oggettivi) cui il paziente deve sottoporsi perché il clinico possa comprendere meglio la sua condizione, come avviene ad esempio nell’approccio tradizionale di stampo cognitivo-comportamentale (Sanavio, 1991).

Ci si può chiedere intanto se il terapeuta non possa fare una diagnosi semplicemente parlando col paziente, piuttosto che costringerlo a passare del tempo a compilare dei questionari, spesso lunghi e noiosi. Per i sostenitori dell’utilità dei test questi dovrebbero servire a rendere più oggettivo il compito al terapeuta, a dare a quest’ultimo informazioni più affidabili, meno distorte dalle oscillazioni della sua memoria o dalle reazioni emotive più o meno forti che si verificano in qualunque colloquio oltre che capaci di semplificare la complessità di un colloquio (McWilliams, 1999; Casement 1985). E tuttavia, se un paziente non ha voglia o non riesce a dire certe cose (spesso nemmeno a se stesso), come potrà dirle in brevissimo tempo al terapeuta, in una fase ancora iniziale di conoscenza e senza che si sia stabilita una solida fiducia, attraverso le domande molto sintetiche di un questionario? E che reazione può avere un paziente dinnanzi ad un terapeuta che cerca fin dall’inizio di ottenere determinate informazioni sulla sua esperienza di sofferenza tramite un questionario (informazioni spesso piuttosto intime e delicate) invece che parlare direttamente con lui e guardarlo negli occhi, ascoltandolo attentamente e provando a interagire con lui, oltre che ascoltando attentamente le proprie emozioni durante l’incontro?

Il risultato di tutto ciò sarà che il paziente risponderà distrattamente o disordinatamente alle domande, oppure eviterà di dire la verità. E anche se alcuni questionari dispongono al loro interno di cosiddette “scale di controllo” per verificare queste tendenze falsificanti nelle risposte (ad esempio l’MMPI-2), sapere che il paziente si è difeso o ha mentito volontariamente non aiuterà il clinico nell’arduo compito di capire come fare a parlare col paziente di certe esperienze per lui difficili, o forse anche impossibili da verbalizzare. Inoltre, si sarà persa un’occasione per costruire un rapporto di fiducia mostrando delicatezza e rispetto delle ritrosie del paziente piuttosto che spingerlo a rivelarsi prematuramente. È probabile infatti che il paziente percepirà il terapeuta come più preoccupato di ottenere su di lui alcune informazioni piuttosto che di condividere attraverso un dialogo rispettoso la sua sofferenza attuale e quanto lui ha da dire – o vuole evitare di dire – su di essa. Nessun questionario infatti può scandagliare con la sua lunga sfilza di domande (sempre piuttosto riduttive, del tipo “sì / no”, “vero / falso / non so” e simili) le molteplici sfumature dei vissuti emotivi, delle intenzioni e dei comportamenti umani più o meno consapevoli.

L’orientamento clinico che privilegia la somministrazione di materiale testistico (o di interviste semistrutturate come la SCID) per elaborare una diagnosi sulla condizione del paziente in fase di consultazione – che potremmo definire “approccio clinico-obiettivo” – è un orientamento che mira alla raccolta di informazioni utili a orientare il terapeuta nella scelta di categorizzazioni diagnostiche predefinite in cui inserire il paziente, categorie sulla base delle quali spesso quegli stessi test sono stati realizzati, secondo un ragionamento di base in certo qual modo tautologico, simile a quello di alcuni teorici dell’intelligenze che, in mancanza di meglio, definiscono la stessa come “ciò che un test di intelligenza misura” (cit. in Cornoldi, 2007). In sostanza, il clinico cerca di rilevare nel paziente gli aspetti che quel test/intervista di personalità riesce a rilevare, cioè aspetti che sono stati condivisi senza grossi dubbi all’interno della comunità scientifica perché corrispondenti a insiemi di segni e sintomi facilmente osservabili, secondo la classica ottica scientista-positivista (Castiglioni, Corradini, 2011). Questi sintomi corrispondono cioè alla fenomenologia eclatante del fenomeno, all’insieme di elementi presenti nella coscienza del soggetto e nei suoi quotidiani comportamenti, e che hanno per questo il vantaggio di poter essere osservati e descritti da altri soggetti esterni al paziente e poi da loro condivisi. Si tratta di un modus operandi basato su quella divisione netta soggetto/oggetto della conoscenza tipica del paradigma di alcune discipline scientifiche e in generale di un’idea specifica di conoscenza cui, nel corso della sua storia, anche la psicologia clinica e la psichiatria (con alcune eccezioni al loro interno) hanno cercato di adeguarsi per motivi di credibilità e accreditamento sociale e istituzionale (Rossi Monti, Stanghellini, 2009). Tale idea della conoscenza prevede la possibilità di ricondurre il fenomeno osservato a uno schema teorico di esso, e di poter spiegare poi altri fenomeni osservati sulla base delle somiglianze con esso, e ritenendo il soggetto che conosce ed elabora quello schema separato e neutrale rispetto all’oggetto che vuole conoscere (Galimberti, 1979). Ovviamente, se si segue tale paradigma, il quale cerca di ricondurre l’oggetto della conoscenza agli schemi già posseduti dal soggetto conoscente, si perde sia la complessità dell’oggetto, perché in esso non verranno considerati importanti aspetti che non si integrano bene all’interno degli schemi conoscitivi di partenza, sia la complessità del processo stesso del conoscere, inteso in senso unidirezionale (dal soggetto all’oggetto). Ad esempio, la qualità e le specifiche dinamiche della relazione clinico-paziente al momento della consultazione, le impressioni-intuizioni del primo, il passaggio di informazioni che in essa può avvenire attraverso disparati canali (anche corporei e non verbali), nonché tutto ciò che il paziente non sa sul proprio disagio o sa solo confusamente – e che per questo non può essere verbalizzato chiaramente – passano in secondo piano, non essendo questi elementi facilmente oggettivabili tramite i tradizionali strumenti testistici standardizzati. Oltre a ciò, è da notare poi come la somministrazione di questi test, su cui spesso chi li usa ripone una grande fiducia diagnostica per le loro proprietà statistiche, avviene nella sottovalutazione dell’impatto che il loro utilizzo ha sia su ciò che il clinico vorrebbe conoscere (il paziente), ridotto a mero oggetto da valutare, sia sulla relazione tra il clinico e il paziente, in vista ad esempio di un possibile prosieguo degli incontri in un’ottica terapeutica. Nessun atto infatti del curante è neutro per il paziente, perché non ci si trova mai dinnanzi ad un oggetto inerte (come in altre discipline) né ad un corpo (come in medicina) dinnanzi al quale il clinico può attuare la sua osservazione in modo controllato e neutrale, o in cui (è il caso della medicina) più facilmente medico e paziente possono parlare del corpo in modo distaccato e sufficientemente condiviso, cioè oggettivo (Rossi Monti, Stanghellini 2009; Stanghellini, 2017). In psichiatria, in psicologia clinica ci si trova invece dinnanzi ad una mente, che reagisce con la sua intenzionalità, i suoi desideri, le sue paure e i suoi meccanismi difensivi dinnanzi a ciò che fa il clinico, cioè dinnanzi ad un oggetto di studio che reagisce (Jaspers, 1913-1959). Non ci si trova in un setting analogo ad un laboratorio di biologia in cui attraverso un microscopio è possibile osservare l’oggetto di studio senza che questo reagisca o susciti reazioni emotive in chi osserva, ma dinnanzi ad un essere umano che pensa, sente ed interagisce continuamente con chi lo osserva, interpretando soggettivamente le azioni conoscitive che chi osserva mette in atto (Lombardo, Malagoli Togliatti, 1995).

Un approccio diagnostico alternativo a quello oggettivante di tipo psichiatrico, che potremmo definire più propriamente “clinico-soggettivo”, si affida invece alla conoscenza teorica, all’esperienza concreta, alla competenza relazionale, all’analisi attenta delle dinamiche di ogni incontro clinico e anche all’intuizione del terapeuta per raggiungere una comprensione specifica del singolo paziente, al di là di quanto rilevabile dall’uso delle categorie diagnostiche più condivise. Secondo questa prospettiva, la possibilità di inquadrare in categorie diagnostiche predefinite l’esperienza soggettiva del paziente potrà certo essere considerata e ritenuta importante, dato che essa garantisce di comunicare e intendersi velocemente con altri colleghi anche di differenti orientamenti teorici; tuttavia tale via conoscitiva non costituirà mai la modalità d’azione privilegiata per comprendere il paziente, intendendo qui per comprensione un processo sia di descrizione che di interpretazione dei nessi di coerenza e di significato interni per come il clinico li comprende dall’interazione prolungata e significativa col  paziente (Jaspers, 1913-1959; Von Wirght, 1971; Stanghellini, 2017).

In questo approccio alla diagnosi, la specifica relazione che si instaura tra il terapeuta e il paziente, le informazioni che questi spontaneamente riferisce e quelle che invece non riferisce, le sue resistenze a parlare di alcuni aspetti della sua vita, la sua storia specifica, la modalità di organizzare i suoi pensieri, la possibilità di concedere fiducia all’altro, il modo di descriversi e di percepire gli altri, il modo di rapportarsi con la propria condizione mentale, gli affetti che prova, nonché le reazioni che tende a generare nel clinico durante i colloqui costituiranno tutti elementi importanti per effettuare una diagnosi (Gabbard, 2000; McWilliams, 1994). Secondo questo approccio inoltre, alla fine del percorso di consultazione, che di solito consta di alcuni incontri, il clinico potrebbe anche non avere in mente una diagnosi completa o precisa del paziente. Certo, sarà sempre possibile dare un’indicazione di massima sulla sua condizione, magari facendo riferimento proprio ai sistemi di classificazione internazionali dei disturbi mentali; ma ciò deriverà più da un’esigenza comunicativa pratica che da un’effettiva oggettivazione della sofferenza del paziente. Infatti l’obiettivo principale della consultazione sarà soprattutto quello di creare una relazione sufficientemente solida col paziente per poter affrontare gradualmente aspetti più centrali e delicati della sua esperienza soggettiva e magari per individuare alcuni aspetti meno consapevoli del suo malessere, non di rado rilevanti come tutti gli elementi nascosti o difficili da definire di un’esperienza vissuta (Bion, 1983). La diagnosi allora come possibile punto di arrivo di un percorso di cura più o meno lungo del paziente, o comunque come processo da svolgersi in itinere, più che come risultato definito da conseguire nel ristretto giro dei primi incontri di consultazione (Rossi Monti, Stanghellini 2009).

Lo strumento privilegiato che il terapeuta userà in questo processo non saranno evidentemente test o questionari, ma la sua capacità di pensiero ed empatica, cioè l’insieme di risorse cognitive e affettive necessarie ad operare una reale accoglienza della persona del paziente nella sua globalità e complessità, nel suo modo unico di soffrire. Proprio per questi motivi, l’aspetto centrale del processo diagnostico così inteso è da un lato l’individuo-terapeuta con il suo mondo interiore, cioè la sua capacità di fantasticare, di intuire, di contenere la tensione dell’ignoto e di immedesimarsi, la sua ricchezza emotiva, la sua intelligenza, il suo bagaglio culturale e di esperienza, i suoi tratti di personalità, i suoi valori, la sua stessa storia personale, la sua curiosità verso il paziente; dall’altro il paziente, messo nelle condizioni migliori per esprimersi e co-protagonista attivo del processo di conoscenza in quanto soggetto (e non oggetto) di conoscenza dotato di intenzionalità (Casement, 1985; Gill, 1994; Storolow, Atwood, 1992). Ecco perché chi si cimenta con un tale metodo rischia, alla fine dei colloqui diagnostici, di non riuscire ad avere una concezione del paziente assimilabile a certe categorie diagnostiche rigidamente definite, di confondersi (specie con certi pazienti), di andare per un po’ alla deriva, di smarrirsi nella complessità del colloquio proprio perché privo di stringhe di domande o griglie di riferimento predefinite in cui incasellare, riducendone la complessità, le verbalizzazioni, i sintomi e l’esperienza soggettiva del paziente. In questo senso, l’apertura più ampia possibile all’altro da sé, come modo fondamentale di essere in ambito psicologico-clinico, mi pare possa essere l’atteggiamento più consono al compito di conoscere/comprendere l’esperienza di un altro essere umano, così come intesa ad esempio dalla fenomenologia (Biswanger, 1973; Galimberti, 1979; Jaspers; Stanghellini, 2017). E tuttavia, grazie a questo, contemporaneamente si aprirà la possibilità per il clinico di cogliere aspetti latenti e inattesi nell’esperienza del paziente, magari insospettabili sulla base della sintomatologia prevalente da lui mostrata se la si fosse inquadrata fin da subito in una diagnosi prestabilita. Inoltre si potranno cogliere e valorizzare più facilmente aspetti di personalità incongruenti col quadro sintomatologico inizialmente ipotizzato, considerandoli come parte integrante e significativa di un insieme dotato di senso: quella configurazione unica che è l’irriducibile soggettività del paziente. In base alla mia esperienza clinica posso affermare che tali elementi nascosti o minimizzati spesso fanno la differenza nella qualità della comprensione diagnostica di un paziente, anche in vista di una possibile presa in carico: ecco perché diagnosticare a partire da quadri standardizzati e uniformi, e in seguito lavorare sui sintomi già descritti e previsti dai vari sistemi classificatori, non ha molto senso nell’ottica che qui si cerca di delineare. Si tratta di una tendenza sempre più marcata, dovuta all’inserimento della psicologia clinica e della psichiatria all’interno di un sistema sanitario, sociale e giuridico che nel mondo occidentale diventa sempre più aziendalistico nella sua gestione, cioè basato essenzialmente sui criteri di efficacia ed efficienza e quindi sul fattore tempo. Questa tendenza pone un serio problema, a mio avviso, sulla tenuta a lungo termine del carattere autenticamente umano che è proprio di queste discipline, le quali devono confrontarsi con la complessità della psiche – attività che richiede tempi lunghi di osservazione e indagine – ma allo stesso tempo rispondere a criteri di controllo e di efficienza sempre più stringenti che mirano a semplificare e velocizzare i processi conoscitivi e i loro esiti.

Conclusioni 

Se si lavora essenzialmente sugli aspetti più evidenti del disagio psichico, su quelli più facilmente riconoscibili, descrivibili e comprensibili da parte del clinico, si rischia di colludere con la tendenza del paziente (e forse anche del suo ambiente, per non dire della società) a concentrarsi solo su certi elementi della sua sofferenza mentale – forse quelli più accettabili, o più facilmente comprensibili – evitandone altri poco chiari, non facilmente categorizzabili, a volte solo oscuramente intuibili ma altrettanto importanti. Dalla parte del clinico invece, un lavoro mirato all’individuazione di specifici sintomi rischia di incorrere facilmente nei classici processi di tendenza alla conferma che ho cercato di evidenziare nelle vignette iniziali; si tende a pensare infatti che un certo disturbo abbia sempre una specifica configurazione, così come descritta dalle categorie diagnostiche condivise, e non si tengono nel debito conto altri elementi del quadro meno congruenti con quelle categorie diagnostiche.

L’approccio alternativo che qui si difende, centrato invece sulla singolarità del paziente e sulla sua non riducibilità a puntiformi quadri sindromici, per quanto più rispettoso della complessità umana non è però facilmente integrabile con l’orientamento sempre più medicalizzato di molte istituzioni che si occupano di benessere e salute mentale, con la loro tendenza a trasformare il lavoro clinico di consultazione in una pratica burocratica di compilazione di schede diagnostiche, perdendo di vista la persona nella sua unicità e a volte insondabile complessità.

Non si tratta qui, si badi bene, di cercare necessariamente dei moventi inconsci nella sintomatologia più evidente del paziente, abbracciando un’ottica, in senso lato, psicoanalitica (Etchegoyen, 1986; McWilliams, 1994), pur dovendo comunque dare alla psicoanalisi il merito di aver valorizzato per prima la specificità del paziente e della sua storia, approfondendo e ampliando il senso dei sintomi e della psicopatologia proprio facendo ricorso a elementi inerenti all’inconscio che erano più difficilmente definibili e osservabili al di fuori dalla relazione clinico-paziente. Né si tratta di ricorrere ad astrusi sofismi e ragionamenti, in opposizione alla chiarezza e semplificazione del linguaggio diagnostico psichiatrico, per cogliere quanto di più specifico vi è nel paziente. Si tratta più che altro di valorizzare l’esperienza interiore del paziente, la sua complessità, la descrizione soggettiva di essa, le fantasie latenti connesse ai comportamenti, la sua storia, tutti elementi che di certo giocano un ruolo nella condizione psicopatologica in atto ma che non possono essere facilmente inclusi nelle sintetiche descrizioni sintomatologiche su cui si basano questionari, interviste strutturate e manuali diagnostici vari.

Un approccio “clinico-soggettivo” non cerca solo di diagnosticare la condizione di un paziente come se scattasse una fotografia precisa del suo stato mentale, sulla falsariga di un paradigma che ritiene importante l’assunzione di un atteggiamento oggettivo e quindi tendenzialmente distaccato dalla persona in cura, considerata alla stregua del classico oggetto di studio neutro delle scienze naturali. Tale approccio invece vuole mantenersi consapevole della complessità dei fenomeni umani studiati (Ceruti, 1986) e della portata della relazione interpersonale, sia in fase di elaborazione di una diagnosi sia nell’avviare un eventuale processo psicoterapeutico-trasformativo connesso ad essa. Seguendo questo orientamento, il clinico è sempre conscio della rilevanza che ogni sua interpretazione di dati e ogni sua azione nel corso della valutazione diagnostica – poco cambia che si tratti di scambi verbali, di una prescrizione farmacologica o della somministrazione di un test – possono avere in un contesto così pregno di emozioni e di attese come quello di una consulenza psicologica richiesta da una persona sofferente o da altri attorno a lui. Infatti, a causa dell’emotività e delle aspettative/fantasie del paziente e/o del suo ambiente (specie nel caso di soggetti in età evolutiva), che permeano la fase della valutazione diagnostica, le azioni del clinico non saranno mai neutre ma si coloriranno di un senso specifico per l’altro generando a loro volta risposte ideative e comportamentali manifeste o latenti che possono avere un effetto retroattivo sull’intero processo della valutazione (Von Foester, 1981). Tali processi interattivi possono ad esempio modificare in corso d’opera l’espressione di sé del paziente, il suo modo di relazionarsi nella situazione clinica, oppure influire sull’emotività del terapeuta stesso e quindi sulla sua lucidità mentale e capacità di comprensione, dando vita a impressioni diagnostiche diverse.

Secondo questo modello, una procedura diagnostica intesa in senso tradizionale come rilevazione e puntuale descrizione di una serie di segni e sintomi presentati dal paziente non è da escludere; ma essa deve assolutamente essere corroborata da un atteggiamento di accettazione e apertura del clinico dinnanzi alla mole di comunicazioni, spesso molto contraddittorie, provenienti dal paziente, evitando ogni tendenza a descrivere e definire in modo prestabilito ciò che si vede, sulla base di categorie diagnostiche invalse. Si tratta di un processo che richiede tempo, soggetto a mutamenti, che coinvolge nella sua dimensione cognitiva-affettiva non solo il paziente ma anche il clinico – alterando profondamente il modello della conoscenza scientifica come comunemente inteso – e che spesso si pone come punto di partenza di un processo di autoconsapevolezza e di cambiamento del paziente e non come punto di arrivo e oggettivazione della condizione di una persona (Aliprandi, Pelanda, Senise, 2004).

Un processo di conoscenza così inteso, capace di sopportare anche a lungo l’attesa di arrivare a una maggiore comprensione del paziente – evitando quindi la precoce somministrazione di questionari standardizzati riduttivi della complessità in gioco – è anche espressione della volontà e capacità di contenimento psichico del clinico, cioè della sua capacità di tollerare la difficoltà e la responsabilità di non saper giungere in tempi brevi ad una conclusione definitiva e sufficientemente chiara sull’esperienza psichica del paziente. Questo sottintende come clinici il fatto di accettare per un certo tempo, a volte lungo, la propria “ignoranza” dei fenomeni umani osservati (Ceruti, 2016; Von Foester, 1981), contrariamente ai parametri di efficienza e oggettività che vengono sempre più pomposamente ribaditi anche dalle attuali istituzioni (o meglio, aziende) della salute mentale. Un processo diagnostico che si avvicini al senso etimologico della parola “diagnosi”, che indica una conoscenza fatta attraverso qualcosa. In questo caso, attraverso la mente o soggettività del terapeuta, che è della stessa natura della mente o soggettività del paziente, e quindi più consona ad essa rispetto ad un test.

Questa capacità contenitiva del terapeuta, la sua capacità di immedesimazione nei vissuti di un’altra persona, la sua sensibilità emotiva, il suo intuito, la sua ricchezza linguistico-immaginativa – aspetti che definirei, nel loro insieme, capacità elaborativa-creativa (Bion,1970) – costituiscono le condizioni fondanti di un atteggiamento diagnostico-conoscitivo realmente rispettoso della complessità dell’esperienza psichica umana. Un atteggiamento difficile da tenere, in un clima culturale dominato, come detto, dal mito istituzionale dell’efficienza e dall’ansia collettiva di trovare la risposta ad ogni quesito (anche quello diagnostico è un quesito) nel più breve tempo possibile. Un atteggiamento coraggioso quindi e aperto alla complessità e al non conosciuto, che si tiene lontano dalla propensione all’etichettamento e al riduzionismo di matrice scientista. 

Riferimenti bibliografici

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[1] MMPI-2: noto questionario di personalità costituito da 567 item di tipo vero-falso (Butcher, Williams, 1996); SCID-II: intervista diagnostica semi-strutturata (oggi SCID-5) basata sulla classificazione dei disturbi di personalità del DSM-IV (oggi DSM-5).
[2] Il più noto farmaco (uno psicostimolante della classe delle anfetamine) usato per curare i sintomi dell’ADHD. L’effetto di questo farmaco è paradossale nel senso che, pur essendo uno stimolante, nei bambini calma l’agitazione tipica del disturbo.
[3] Del resto, per quanto strano possa sembrare, non è raro che nella pratica psichiatrica si faccia diagnosi differenziale con la somministrazione di un farmaco piuttosto che di un altro. Nel senso che, se un certo farmaco, di solito usato per “curare” un certo disturbo psichiatrico, è efficace nel lenire i sintomi presenti in un quadro patologico dubbio, ciò indicherebbe la presenza di quel disturbo; se invece non è efficace, quel disturbo non sarebbe presente.