di Flavia Donato e Silvia Priolo
Nel pensiero complesso non vi è spazio per l’idea
di una conoscenza perfetta, completa ed esaustiva,
in quanto esso si alimenta di incompletezza e
di incertezza.
Edgar Morin
Parlare di conflitto risulta spesso difficile e ostico, definire chi ha torto o chi ha ragione presuppone che ci sia una verità oggettiva. Quotidianamente interessi, opinioni ed esigenze divergenti possono portare al manifestarsi di questo fenomeno. Ci sono, però, svariate tipologie di conflitto: infatti, le possibilità di confliggere per gli esseri umani possono avere contenuti e forme del tutto poliedriche. Conflitti inter o intra personali, o tra gruppi, ma anche conflitti tra coniugi, organizzazioni, stati e così via.
Quando si parla di conflitto, la lente sistemica si focalizza non tanto sul contenuto quanto piuttosto sulla relazione. Il livello di relazione è superiore rispetto a quello di contenuto perché fornisce informazioni sulle informazioni: è un passaggio profondo, che implica un riconoscimento non soltanto di una comunicazione o di un’azione conflittuale, quanto piuttosto del contesto e, soprattutto, del rapporto fra le parti in un determinato contesto.
Per scrivere quest’articolo siamo partite dai numerosi spunti di riflessione emersi durante il Seminario “Conflitti nei sistemi umani”, organizzato dal CMTF e tenutosi on line il 14 maggio. Gli interventi dei relatori Enzo De Bustis, Fabio Sbattella e Sara Cobb che hanno ampiamente trattato la tematica del conflitto partendo dal versante più antropologico fino a passare in rassegna le diverse modalità di risoluzione dello stesso e sottolineando l’importanza della narrazione, ci hanno consentito di guardare al conflitto secondo l’ottica sistemica.
La parola conflitto deriva dal latino confligere ovvero litigare, discutere, lottare. Si parla di conflitto interpersonale se vi è una situazione in cui due o più persone si offendono l’un l’altro contemporaneamente, attraverso sentimenti, pensieri, valutazioni o modalità incompatibili o contraddittorie. La rigida polarizzazione delle proprie posizioni e opinioni, al fine di mantenere un’immagine positiva di sé, non facilita di certo il confronto con l’altra parte e, mantenendo una posizione simmetrica, si cerca di primeggiare sull’altro. Enzo De Bustis sottolinea che “se non ci fosse il conflitto non ci sarebbe neanche relazione” e cita Eraclito proprio perché questi afferma che il “conflitto è nella natura delle cose”.
Nei termini della teoria generale dei sistemi e della cibernetica si parla di conflitto quando a un ricevitore pervengono simultaneamente comandi da due o più trasmettitori di sistemi, allo stesso livello o a livelli diversi, i quali ordinano di eseguire due o più azioni tra loro incompatibili, vuoi perché non è possibile eseguirli allo stesso momento, vuoi perché eseguirne una renderebbe impossibile eseguire l’altra, o le altre (Miller, 1969, p.158). Se ci concentriamo sui singoli individui e sui sistemi umani, più in generale, si ha un conflitto quando due forze simili per intensità e opposte per direzione, agiscono simultaneamente su un individuo (Lewin, 1965).
Al conflitto spesso noi guardiamo con smarrimento o paura e ne osserviamo soltanto la manifestazione tangibile, ad esempio le aggressioni, la violenza ma non possiamo esimere dal considerare fondamentali anche altre componenti come l’aspetto emozionale e cognitivo, che influenzano la percezione e l’interpretazione dello stesso (Rumiati, Pietroni, 2010). Un conflitto infatti esiste se viene percepito come tale dalle parti in causa (Gray, Coleman, Putnam, 2007) e si nutre di ambiguità che lo portano a crescere piuttosto che a risolversi.
Fabio Sbattella spiega che, non solo studiosi e teorici ma a volte anche nel linguaggio comune, si usa la parola “conflitto” non per descrivere il comportamento in sé, ma le condizioni soggiacenti all’azione, cioè il fatto che c’è un conflitto di interessi, c’è una posizione di differenza che va in direzioni opposte, incompatibili tra di loro. La divergenza, che è un conflitto centrato sul futuro, e il rancore, cioè la situazione di astio basato sul passato, sono due possibili situazioni di conflitto. È fondamentale sottolineare però (e in questo siamo fortemente in sintonia con lui) che “Il conflitto è nella mente delle persone prima che nei fatti. I conflitti sono più o meno profondi in relazione alla probabilità delle interazioni future con la controparte”. A tal proposito sono stati diversi i riferimenti, durante il seminario, all’attuale guerra tra Ucraina e Russia. Pertanto, è impossibile parlare di conflitto se non definiamo gli attori coinvolti con il loro vissuto, le risorse, la relazione esistente tra le parti in causa, la struttura degli interessi, le esperienze passate, il loro modo di percepire i desideri e i progetti della controparte, la percezione del contesto. Questo ci permette di prendere in considerazione le diverse reazioni e i diversi approcci al conflitto, senza sradicarlo dal contesto in cui avviene. Quindi non basta definire il conflitto in sé, dobbiamo chiederci rispetto alla persona conflittuale dove è conflittuale, quando è conflittuale e con chi è conflittuale. Il contesto apparentemente marginale, per noi sistemici gioca un ruolo fondamentale nella nascita di un conflitto, ragion per cui quest’ultimo va osservato e narrato rispetto al contesto in cui si manifesta.
Il contesto della definizione di conflitto
La collettività pensa al conflitto come a un processo negativo, senza tener conto che spesso indica il modo in cui funzionano alcuni individui, organizzazioni, gruppi etc. in quella specifica relazione.
Quindi quanto è importante il contesto di riferimento nel quale è inserita la relazione? Ad esempio, un uomo può facilmente confliggere in famiglia ma manifestare un comportamento del tutto opposto nel contesto lavorativo. A questo punto ci chiediamo quanto è fondamentale definire e comprendere i bisogni, le punteggiature, i punti di vista di ciascuna delle parti per arrivare ad una risoluzione del conflitto?
Bisogna sottolinea come cruciale nella mediazione dei conflitti la centralità del contesto. Il contesto è un concetto chiave dell’approccio sistemico-relazionale. Bateson (1972) parla di contesto come matrice dei significati ed afferma che “il contesto lo crea chi riceve il messaggio” (Bateson, 1979, p. 69). Ed è a partire da questa visione contestualistica che un clinico familiare insieme al cliente co-costruisce una narrazione che risignifica il funzionamento delle relazioni all’interno di “quella famiglia”, anche quando queste possono apparire esclusivamente conflittuali. Induce, inoltre, alla riflessività e all’apprendimento di come certi movimenti non siano che l’esito di comportamenti appresi su un modello transgenerazionale. Forse, quindi, è proprio guardando il punto di vista dell’altro che riusciamo a risolvere alcuni conflitti, soffermandoci ad un livello di relazione, superando quello di contenuto. Spesso un conflitto pur partendo da una motivazione esterna legata ad un livello di contenuto del messaggio, può essere letto, riletto e reinterpretato in termini di relazione; l’inasprirsi del conflitto può generare una vera e propria escalation. Se due parti che confliggono per manifestare la propria posizione usano la minaccia e la squalifica come messaggio (livello di contenuto), contemporaneamente stanno mandando un messaggio preciso a livello di relazione: un ultimatum o una disconferma della relazione stessa (Arielli, Scotto, 2003). Enzo De Bustis sottolinea che
[…] i conflitti sociali hanno un andamento non lineare. Possono quindi passare da una fase fredda ad una fase calda. Un cambiamento improvviso nell’ambiente può interrompere una fase di miglioramento tendenziale. [Si parla in alcuni casi di] conflitto freddo, una situazione in cui le interazioni esplicite sono ridotte al minimo, le parti si evitano ma le cause e le motivazioni soggettive del conflitto rimangono intatte. Può ridursi l’intensità; l’avviarsi a una soluzione concordata…porta alla descalation.
Esiti del conflitto
Solitamente la maggior parte delle persone prende in considerazione soltanto le conseguenze negative del conflitto, perché foriero di molte distruzioni. Si tende infatti a sedare o a evitare il conflitto. La prima modalità, che va dalla negazione dell’esistenza di un problema alla sua minimizzazione o alla richiesta di acquiescenza da parte dei subordinati, porta alla riduzione della creatività e all’inibizione dell’individualità; la seconda ha conseguenze negative sulle relazioni interpersonali. Ecco perché dovremmo superare l’accezione negativa del conflitto, cercando di dare una valenza positiva e considerandolo come una opportunità per conoscere meglio se stessi e gli altri. Il conflitto può essere sollecitato promuovendo l’aperta espressione di interessi divergenti e di vissuti emotivi negativi, mettendo in luce le perdite che le parti rischierebbero di subire insabbiando il conflitto (Rumiati, Pietroni, 2010, p. 18). Inoltre, il conflitto potrebbe portare alla disgregazione del gruppo se non si arriva ad una sua risoluzione, a meno che non si risolva giungendo a dare un senso di identità al gruppo e ad avviare un processo di maturazione dello stesso. Questo fenomeno è maggiormente visibile nel confronto tra due o più gruppi. A prescindere dalla valenza positiva o negativa, affinché il conflitto non degeneri sino ad arrivare alla schismogenesi (Bateson, 1979) è quindi indispensabile attivare una sua adeguata risoluzione.
Concordi col pensiero di Fabio Sbattella, solitamente “siamo orientati alla pacificazione”. Enzo De Bustis definisce quest’ultima “come negoziazione permanente tra posizioni opposte”. In generale è possibile annoverare tre forme di gestione del conflitto che consentono di spiegare come si sono evolute le modalità di risoluzione dello stesso. Queste tre forme, come sostiene Fabio Sbattella, “diventano i criteri di giudizio che contrastano l’ambiguità che acuisce ogni conflitto”. In particolare, la lotta, in cui una delle parti, per non abbandonare la relazione, accetta la posizione down contrapposta a chi è nella posizione up, che invece determinerà come deve essere risolto il conflitto. Ciò permetterà ad individuare un vinto e un vincitore. Altra forma di gestione del conflitto è l’autorità e il suo insindacabile giudizio (es. il giudizio di un leader, un re, ecc.). In ultimo, il conflitto può essere gestito ricorrendo all’uso delle norme, ovvero le regole del gioco (Rumiati, Pietroni, 2010). Riguardo a quest’ultimo punto, ad esempio, è importante sottolineare che ogni membro della famiglia si organizza rispetto l’altro membro, sia in termini di relazione che di contenuto. Quindi possiamo definire una famiglia un sistema nel quale ci sono delle regole e delle ridondanze, cioè degli schemi che vengono ripetuti nel tempo. Si parla di regola, quando si parla di relazione, perché le regole sono stabilite e sussistono all’interno della relazione stessa. Le regole sono alla base del comportamento umano, lo determinano e lo orientano. Chi osserva i comportamenti familiari, che si presentano all’interno di interazioni ridondanti, deve riuscire a dedurre le regole che sottostanno a quel comportamento. Ma le regole sono anche il prodotto di una negoziazione fra membri. Ad esempio, Jackson (1965) studiò per molto tempo la relazione coniugale e coniò l’espressione “quid pro quo coniugale” cioè di quel contratto simbolico ed implicito che i partner stabiliscono all’inizio della loro relazione. Letteralmente quid pro quo significa “qualcosa per qualcos’altro” cioè i partner agiscono affinché l’altro emetta un comportamento da loro desiderato. Quindi nel matrimonio è come se si stabilissero diritti e doveri dei due coniugi e la capacità di riuscire a e negoziare e rinegoziare, col passare del tempo, i compiti relazionali è ciò che porta al successo o al fallimento del matrimonio. Queste regole implicite, quindi, consentono di evitare quell’ambiguità relazionale che altrimenti non permetterebbe una pronta risoluzione della divergenza di interessi.
Negoziazione e mediazione
La letteratura sistemica parla di correlazione fra difficoltà nella gestione e nella risoluzione dei conflitti e problemi clinici delle famiglie. Carl Whitaker afferma che il conflitto è l’enzima del cambiamento (Whitaker, 1980, p. 159) ed evidenzia la curiosità, evita la stagnazione, differenzia i gruppi, nell’ambito di un funzionamento familiare in cui una buona gestione dei conflitti genera il passaggio allo stadio successivo. Ovviamente questo deve avere delle caratteristiche ben precise che lo rendano costruttivo senza giungere ad un’escalation, perché altrimenti finirebbe per bloccare il passaggio ai successivi stadi e comprometterebbe il funzionamento del gruppo o dei gruppi. Quando un conflitto è ostruttivo, cronico e rigido non viene discusso e non permette scambio di informazioni. È dunque importante, per una buona gestione del conflitto che si palesa ad esempio nella relazione genitori-figli, che i primi esprimano autorevolmente il proprio punto di vista, lasciando la libertà al figlio di negoziare la propria autonomia. Infatti, quei genitori che non tollerano i contrasti o che assumono atteggiamenti rigidi non riescono a trasmettere ai figli il modo in cui poter gestire i conflitti adeguatamente; così come anche genitori iper-democratici non aiutano i figli in tal senso.
Wynne (1958) individuò nel termine pseudomutualità la poca autenticità delle alleanze e la poca genuinità delle manifestazioni di ostilità: in alcune famiglie è impossibile che un conflitto possa essere chiaramente espresso e dunque negoziato. Se il negoziato si trova in una situazione di impasse, in un vicolo cieco, dove le parti in conflitto non riescono a cogliere l’opportunità di scambiarsi informazioni riducendo così le divergenze tra le rispettive posizioni e facilitando il raggiungimento di un accordo, è necessario l’intervento di un terzo imparziale: il mediatore. Diversi sono gli approcci alla mediazione, annoverati da Enzo de Bustis: problem solving, mediazione che promuove l’empowerment, mediazione umanistica e mediazione narrativa sulle teorie del conflitto sociale. Quest’ultima trattata in particolare nel seminario da Sara Cobb, è basata sul costruttivismo sociale e permette un nuovo assetto più soddisfacente del sistema. Considerando, infatti, che gli esseri umani ordinano la propria esperienza secondo un’asse narrativo, grazie alla decostruzione e alla successiva trasformazione delle narrazioni, narrano, rinarrano e risignificano il conflitto. “Noi raccontiamo le storie e loro raccontano di noi” dice Sara Cobb e continua “quando le persone sono intrappolate nelle loro storie non riescono a rielaborarle, rinarrarle. Le persone possono essere vittime delle loro narrazioni. Noi possiamo aiutarle a prendere il controllo delle loro storie”. Solo così possono dare un senso alle loro relazioni ed interazioni sociali. Ad es. nella guerra Ucraina-Russia, molti mettono l’enfasi sull’individuo, su Putin in particolare, ma non guardano le reali dinamiche relazionali, degli ultimi anni, esistenti tra i due Paesi.
In generale, tutte le pratiche di mediazione sono risultate, in svariati ambiti, molto utili. Volendo utilizzare una metafora, esplicativa del processo di mediazione, ci viene in mente il famoso esempio dell’arancia e delle sorelle.
Due bambine si contendono l’ultima arancia rimasta nel cesto, la madre interviene cercando di sedare il conflitto dividendo l’arancia in due parti uguali e dandone una a ciascuna. Il conflitto però non si placa, a questo punto interviene la nonna che domanda: cosa devi fare con l’intera arancia? È qua che emergono i differenti bisogni e le differenti posizioni e interessi di ciascuna: infatti, una vuole spremerla per berne il succo, l’altra vuole grattugiarne la buccia da usare per una torta. La nonna a questo punto spreme l’arancia e ne grattugia la buccia in modo da soddisfare entrambe e mettendo fine al conflitto. Questa metafora sottolinea l’importanza di comprendere al di là del conflitto gli interessi sottostanti aiutando entrambe le parti a comunicare, ad ascoltarsi e a non rimanere ancorate nelle loro rigide posizioni. Entra in gioco un livello meta, nello specifico metacomunicazione che facilita l’individuazione di soluzioni alternative alla disputa e al superamento del confronto sterile. Questo processo che viene attuato nella mediazione consente di superare così il conflitto in sé e di risignificarlo attribuendogli una valenza diversa. Chi confligge spesso lo fa per un bisogno e, interrogarsi ad un livello meta, può portare non soltanto a risolvere il conflitto ma usando le parole di Bateson ad “apprendere ad apprendere” nuove strategie, riorganizzando una modalità di comunicazione funzionale anche in contesti diversi. Pertanto, adottando una diversa segmentazione della sequenza delle esperienze si può arrivare a cambiare anche il senso attribuito a quegli eventi. È il caso della percezione di comportamenti aggressivi all’interno di una interazione conflittuale che possono cambiare di senso e diventare più comprensibili (Madonna, 2013). Come la mamma nella storia dell’arancia e delle due sorelle, in genere siamo orientati alla pacificazione, cercando di annullare la contrapposizione fra opposti e non considerando che ciò che ci circonda è convivenza delle differenze. E riprendendo le parole citate da De Bustis, concordiamo col lui nell’affermare che
la realtà non è solo contrapposizione di opposti (es. odio/amore, pace/guerra, amico/nemico, bene /male) il conflitto non significa sempre e necessariamente morte e inimicizia, può anche essere fonte di amicizia e vita o amore. Ciò rende possibile concepire la società politica come convivenza delle differenze, come alternanza del potere, come controllo e rispetto reciproci.
Ammettere il rispetto delle differenze è il punto di partenza per la risoluzione dei conflitti, se rimaniamo ancorati al nostro punto di vista non riusciremo ad arricchire la nostra conoscenza. Apprendiamo per differenza e soprattutto la nostra idea di realtà è soltanto una delle tante osservazioni possibili. Un organismo vivente genera un mondo compiendo distinzioni. Infatti, sia Maturana che Bateson pongono l’accento sulle differenze che sono aspetti possibili del mondo; per Maturana le caratteristiche particolari di una differenza fanno parte del mondo che è generato dall’incontro dell’individuo col mondo esterno.
Conclusioni
Attribuire al conflitto una valenza funzionale sembra essere il miglior modo di trattarlo. Il framework di riferimento del conflitto è da leggere attraverso un’epistemologia complessa e con punteggiature diverse. Si presuppone che il conflitto sia un’espressione di punteggiature di una realtà più o meno condivisa e la terapia sistemica familiare attribuisce alla mediazione una capacità perturbatrice che si instaura nel sistema terapeutico. Negoziare è un processo interattivo fra due o più parti volto a raggiungere un accordo. Se ha un esito positivo, non soltanto è un arricchimento della relazione ma anche un apprendimento a negoziare in altri contesti. È un intervento consapevole che non costituisce un giudizio ma è un processo interattivo che dà voce alle parti considerando l’inevitabilità del conflitto stesso.
Bibliografia
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