Recensione di “Lingua madre” di Maddalena Fingerle

Recensione di “Lingua madre” di Maddalena Fingerle

Italo Svevo Edizioni, 2021
Letto da Pietro Barbetta

Maddalena Fingerle ha vinto l’ultimo Premio Calvino, il suo romanzo, Lingua Madre, è stato pubblicato presso Italo Svevo edizioni. Per uno psicoterapeuta, che non vive solo di modelli e manuali, questo libro è necessario. Non voglio raccontarlo, non intendo togliere il gusto dello svolgimento della lettura, momento per momento, dell’opera. Con i romanzi che ho amato, ho avuto due reazioni opposte: Cent’anni di solitudine, di Márquez, l’ho letto in una notte, fino al giorno dopo, senza staccare lo sguardo; L’oblio, di Wiesel, non avrei mai voluto che finisse. Era come lasciare un amico con cui condividi la vita. Lingua madre è questo tipo di romanzo, lo devi centellinare, devi prendere appuntamento, sera per sera, frequentarlo spesso, saper aspettare.

Vorrei dire che è un romanzo di formazione, ma no, non lo è. È un testo che parla di una famiglia e di una città, di un amore e di un’altra città, della lingua italiana, di quella tedesca, di un dialetto incomprensibile a chiunque, italiani e tedeschi, e dell’assenza di lingua, legata a un trapianto sociale. Sullo sfondo, una memoria storica: il dramma della deportazione di migliaia di italiani, volenti o nolenti, e il dramma del cambiamento dei cognomi, il delirio fascista di imporre l’italiano, di vietare i dialetti – ossigeno della lingua italiana – di soffocare la lingua, di sporcarla, scrive Fingerle.

Sporcare la lingua. A noi psicologi anziani, questa locuzione, “sporcare la lingua”, ricorda la mente del mnemonista di Aleksandr Romanovič Lurija, oppure, a chi legge racconti belli, Funes il memorioso di Jorge Luis Borges. Le sinestesie: in letteratura, quando due parole appartenenti a due registri sensoriali diversi si associano, in psicologia, quando un percetto o un affetto si associa a un altro percetto o un altro affetto. Ma la neuropsicologia contemporanea ha dimenticato Lurija e non conosce Oliver Sacks, che appartengono alle pratiche della neurologia intesa come scienza romantica.

Vedo un colore lo associo a un episodio della mia vita, oppure a qualcos’altro, un odore, per esempio, e provo piacere, disgusto, paura, ecc. Una donna proveniente dalla Repubblica Ceca, rientra al suo paese e vive un episodio psicotico: si blocca, in una certa posizione, come una statua, e non si muove per ore. Quando descrive l’episodio dice di avere sentito l’odore dei carri armati. Nel 1968 aveva 15 anni e in Cecoslovacchia ci fu l’invasione dei carri armati sovietici: sinestesia storica.

I mnemonisti hanno queste sensibilità. Qui si tratta di sporcare, o di pulire, le parole. A Bolzano si può parlare solo il tedesco di Berlino, che non ha nulla a che fare col “patentino”; a Berlino, si parla anche l’italiano, quello che si parla a Milano, o a Napoli, l’italiano vero, non quello della televisione.

Che altro è Lingua madre? È un romanzo che parla di una famiglia, di diagnosi, di parole diagnostiche tra loro antagoniste: afasico o mutacico? Chi vincerà? Controversia interna alla psicologia, tra neuropsicologi afasici e psicoanalisti mutacici, ma la vita di un afasico/mutacico è la vita di Biagio, padre tenero, impotente, triste, con il quale Paolo sta bene. Certo Biagio le parole non le può sporcare.

È la storia di un viaggio verso Milano, una città davvero italiana, così come Berlino è davvero tedesca, dove esiste una lingua madre, che non sarà mai raggiunta.

Una storia cruda, per questo non un romanzo di formazione, oppure sì. Ricorda Il signorino, di Natsume Sōseki, oppure Il Giovane Holden, di J. D. Salinger, due storie di ragazzi sull’orlo della fine, adolescenti, che non riescono a diventare grandi. Ma le storie di Paolo, impegnato a pulir parole, quella del ragazzo che vorrebbe raccogliere i bambini che saltano nel vuoto tra i campi di segale, o del giovane insegnante Botchan, non indicano affatto inconsapevolezza, o stupidità. In tutte e tre c’è ostilità, ostinazione, rabbia, c’è la solitudine di un abbandono precoce, e di una precoce indipendenza che porta disastri e nocumenti, ma c’è anche la storia di una grande intelligenza. Il romanzo di Fingerle è più ironico e più tragico, è una sinestesia tra le parole e i colori. Nessun medico, psicologo, psicoterapeuta, insegnante lo deve perdere.

Non vi aspettate un romanzo idilliaco, tutta gioia ed esercizio letterario, chi crede nelle mindfulness, nelle psicologie positive, o in qualsiasi altra moda psi contemporanea, meglio che ci stia lontano; come scrisse Blanchot a proposito del Marchese De Sade: una giovane educanda che ne leggesse anche poche righe, rimarrebbe sconvolta per sempre. Insomma, non è una storiella che finisce bene, è un pezzo di grande letteratura.