di Lynn Hoffman
dal libro “L’avventura delle differenze: sistemi di pensiero e pratiche sociali” (Liguori, 2011) a cura di Pietro Barbetta
Nell’ultimo secolo ci sono stati diversi pionieri della filosofia che hanno dedicato il lavoro di una vita a studiare come le forme del discorso occidentale ci imprigionino. I due più importanti, dal mio punto di vista, sono stati Ludwig Wittgenstein e Gregory Bateson. Nel suo confronto con se stesso che ha dato vita al famoso libro Ricerche filosofiche (1953), Wittgenstein esplora dei modi per uscire dall’invisibile trappola linguistica che denomina “fly bottle”, “la bottiglia della mosca”. Il suo lavoro ha generato un gran numero di esegeti. Gli scritti di Bateson (1972) non hanno ancora suscitato una tale attività, ma egli si è assunto un compito simile nei confronti della comunicazione. Diffidando dei trucchi che possono essere giocati dalle parole, si è impegnato a studiare ciò che ha chiamato “i sillogismi nella metafora”. Bateson sentiva che le analogie non verbali riflettevano il tipo di comunicazione messa in pratica nel e dal mondo vivente.
Il mio saggio discuterà il concetto di doppio legame di Bateson, e le sue chiarificazioni più tarde. Metterò in luce i suoi dubbi riguardo all’uso strumentale della terapia al fine di cambiare il comportamento, seguendo la sua critica ai paradigmi dominanti della logica classica e del comportamentismo. Voglio aggiungere all’immagine del Bateson che ha inventato il doppio legame, quella del Bateson che ha fatto un balzo creativo verso un campo della comunicazione basato sull’analogia. Nessuno ha fondato una scuola di terapia familiare sfruttando questo secondo ambito, ma, alla fine di questo articolo, mostrerò attraverso degli esempi tratti dal mio lavoro come l’utilizzo di questi differenti canali comunicativi possa essere applicato alla pratica.
Il doppio legame era un’interessante struttura comunicativa che Bateson e i suoi colleghi (Bateson et al., 1956) arrivarono a descrivere durante il loro progetto di ricerca a Palo Alto fra il 1950 e il 1960. Si pensò che potesse essere una possibile forma di interazione nelle famiglie in cui uno dei membri era stato etichettato come schizofrenico. La definizione di doppio legame data dal gruppo di ricerca era quella di una situazione in cui un individuo riceve messaggi che si contraddicono l’un l’altro su due livelli di tipo logico, senza escludersi vicendevolmente. Una definizione formale di questa situazione sarebbe un paradosso logico. Tradotto in termini relazionali, il gruppo ha creduto che l’essere soggetti alle forzature tipiche di simili contraddizioni avrebbe potuto avere effetti dannosi. Allo stesso tempo Bateson mostrò che molte delle attività a cui attribuiamo massimo valore hanno le stesse caratteristiche di doppio livello. La struttura presente nel discorso schizofrenico può anche essere ritrovata in fenomeni come l’ironia, l’arte, la religione, la comunicazione animale e i sogni.
Per spiegare questo concetto, devo chiamare in causa il filo di Arianna che ha condotto Bateson al cuore del mistero: la “teoria dei tipi logici” di Russell e Whitehead (1910). Stando a questo costrutto, la comunicazione è fatta di gerarchie di messaggi. Un livello rappresenta il contenuto del messaggio, e l’altro è un messaggio più importante che indica come il primo messaggio deve essere compreso. Se il messaggio al primo livello venisse simultaneamente contraddetto o squalificato dal messaggio al secondo livello, ci sarebbe una “confusione di tipi logici” – un possibile contesto per un doppio legame. Ma ricordate, non stiamo parlando di un singolo legame. Tutto va bene finché i messaggi sono come chiamate telefoniche da due persone che dicono di richiamare; si risponde innanzitutto alla prima, e poi all’altra. Sono sullo stesso livello, e non c’è problema.
Ma supponiamo che la situazione implichi legami di fiducia e aspettativa che vengono sovvertiti in un modo tale da far sì che la persona si senta tradita ma non sia nella condizione di poter protestare. Un esempio dato nell’articolo originale sul doppio legame consiste in un giovane ricoverato per un episodio psicotico acuto che abbraccia forte sua madre quando lei viene a visitarlo in ospedale. Lei si irrigidisce, e lui si allontana, mentre lei gli chiede “Non mi vuoi più bene?” Poi, quando lui rimane muto, lei dice, “Caro, non devi imbarazzarti così facilmente per i tuoi sentimenti”. In questo scambio, il figlio resta colpevole non importa quale strada prenda, dannato se fa e dannato se non fa.
Purtroppo, il doppio legame come concetto psicologico si presta ad essere facilmente reificato, trasformato in una “cosa”. C’è stato un’ulteriore pericolo di fraintendimento quando è stato visto come un tipo di comunicazione che una persona (solitamente una madre) infligge a un’altra (solitamente un bambino). In una puntualizzazione del 1962 (Sluzki, Ransom, 1976), gli autori del primo articolo affermano:
Il modo più utile per formulare una descrizione del doppio legame non è in termini di un individuo che crea il legame e una vittima ma nei termini di individui coinvolti in un sistema in continuo movimento che produce definizioni conflittuali della relazione e conseguente sofferenza soggettiva. (Sluzki, Ransom, 1976, p. 42.)
Un’altra fonte di confusione, almeno per me, fu l’influenza dell’ipnoterapista Milton Erickson. Bateson (Berger, 1978, p. 68) riconobbe a Jay Haley di aver posto in evidenza come gli interventi di Milton Erickson spesso mettessero l’individuo all’interno di ciò che è stato chiamato un “doppio legame terapeutico”. L’idea era che se qualcuno veniva in terapia, invece di provare ad aiutarlo a superare il suo problema, poteva essere opportuno suggerirgli di intensificarlo. Nella speranza che avrebbe abbandonato il comportamento anziché obbedire alla prescrizione. Haley sentiva che questo approccio permetteva di investire sulla “battaglia per il controllo” fra cliente e terapeuta, dato che per “vincere” il cliente avrebbe dovuto abbandonare il sintomo.
L’enfasi di Haley sul potere in terapia è stata la fonte di un lungo disaccordo fra lui e Bateson. In Comments on Haley’s History (Bateson, 1976, p.106), Bateson dice che “Haley scivola con eccessiva leggerezza sulle più significative differenze epistemologiche fra me e lui”. Insiste sull’idea che il potere, visto come un nome separato dal contesto, ha conseguenze socialmente patogene. Non voglio oscurare l’enorme contributo che hanno dato Haley ed altri basando nuovi approcci alla terapia sul talento per il paradosso di Erickson, ma il risultato fu che la teoria del doppio legame venne tradotta in una prospettiva orientata al controllo che era incompatibile con il punto di vista di Bateson. Strano ma vero, mi ci sono voluti dieci anni prima di comprendere questo conflitto e iniziare a farci i conti (Hoffman, 2002).
Il problema con la logica
In principio avevo pensato che solo perché Bateson aveva letto i Principia Mathematica di Russell e Whitehead e aveva trovato utile la loro teoria dei tipi logici, si fosse unito alla felice compagnia dei positivisti logici cui questi autori appartenevano. Non è così. Dopo aver riletto Verso un’ecologia della mente (1972), Mente e natura, un’unità necessaria (1979), Dove gli angeli esitano (1987), scritto con sua figlia Catherine poco prima della sua morte, Una sacra unità (1991), una collezione di scritti non antologizzati curati da Rodney Donaldson, mi sono fatta un’idea diversa. Al contrario, Bateson sentiva che la ricerca della logica classica aveva tralasciato la maggior parte delle cose che lui voleva studiare. Scrive “Il se… allora della causalità contiene tempo, il se… allora della logica è privo di tempo. Ne discende che la logica è un modello incompleto di causalità” (Bateson, 1979, p. 58). Bateson inoltre dà il suo contributo al “fallimento categorico” del comportamentismo, raccontando una storia in cui chiedeva a un ricercatore che stava eseguendo esperimenti di apprendimento sul pesce rosso perché lo stesse facendo. Il ricercatore rispose: “Perché voglio controllare un pesce rosso” (Bateson, 1991).
Ma questo è il punto. Piuttosto che semplicemente stroncare queste due prospettive, Bateson ne evoca una terza che è molto più interessante. Occasionalmente ha usato la parola “analogica” per descriverla, ma poi perfeziona la sua idea contrapponendo il mondo delle cose materiali, che Jung ha denominato il “Pleroma”, con il mondo naturale, la “Creatura”. Pleroma, ci dice Bateson, è il mondo di forza e massa di Newton. Non ha processi mentali, nomi o classi. La Creatura, dall’altra parte, comunica attraverso struttura, similitudine e metafora. Bateson nota che “la logica della metafora è qualcosa di molto diverso dalla logica dei dati di fatto di Agostino e Pitagora”, e prosegue osservando che il processo del costruire metafore può essere una delle caratteristiche che definiscono il mondo vivente.
Sillogismi in erba
Questa proposta è stata rafforzata da Catherine Bateson in Dove gli angeli esitano(Bateson, Bateson, 1987). Racconta che durante le ultime settimane di vita, suo padre era assorbito dall’idea del “sillogismo della metafora”, e prosegue affermando:
La descrizione della mente fornì a Gregory una cornice per cominciare a definire le discipline della comunicazione nella, o come la o sulla, Creatura, discipline che la flessibilità delle lingue umane ha consentito di violare. Le componenti fondamentali del suo pensiero cominciarono a integrarsi in un sistema unico; la cibernetica e i tipi logici, la semantica di Korzybski e i tentativi dei primi psicoanalisti di descrivere l’inconscio: tutte queste componenti si fondono nel germe di una grammatica creaturale… (p. 289).
Che idea affascinante. Comunque, bisogna sapere qualcosa riguardo ai sillogismi. Segnalando una contrapposizione fra le verità della logica e le verità della metafora, Bateson ritorna a un tradizionale prodotto del mondo della logica, il “sillogismo in Barbara”. La logica classica ha identificato diversi sillogismi, o strutture di parola tautologiche, e quello in Barbara, che si basa sul nostro vecchio assunto “i livelli di tipo logico”, più o meno suona così: Gli uomini muoiono, Socrate è un uomo, [pertanto] Socrate morirà. Bateson spiega che questa sequenza si fonda sulla classificazione. Afferma: “il predicato ‘morirà’ è attribuito a Socrate identificandolo come un membro di quella classe i cui componenti condividono quel predicato”. In altre parole, Socrate è nella scatola delle cose che muoiono.
Ma c’è un altro sillogismo, denominato da Bateson “Sillogismo in erba”, che sembra deridere le regole della classificazione. Tale sillogismo prende questa forma: “L’erba muore, gli uomini muoiono, pertanto gli uomini sono erba”. Questo ragionamento non ha nessun senso e gli esperti di logica lo ripudiano chiamandolo “affermazione del conseguente”. Un recensore inglese una volta ha notato che questo era il modo in cui Bateson stesso produceva i suoi pensieri e richiamò l’attenzione su un libro del 1944 di un tale Eilhardt von Domarus che diceva che questo era anche il modo di pensare degli schizofrenici. Bateson fu completamente d’accordo, e da allora in poi fece del sillogismo in erba un cardine del suo pensiero, centrale nella descrizione di come la Natura comunica. In Dove gli angeli esitanolascia esplodere questa frase fragorosa: “Con buona pace dei logici, tutto il comportamento animale, tutta l’anatomia ripetitiva e tutta l’evoluzione biologica, sono, ciascuno al suo interno, tenuti insieme da sillogismi in erba”, e poi aggiunge:
In altre parole, tutto fa pensare che fino a centomila o al massimo un milione di anni fa non esistessero al mondo sillogismi in Barbara ma solo sillogismi alla Bateson, e con tutto ciò gli organismi se la cavarono benissimo. Riuscirono a organizzarsi nella loro embriologia in modo da avere due occhi, uno di qua e uno di là dal naso. Riuscirono ad organizzarsi nella loro evoluzione… Si scopre così che la metafora non è solo una belluria poetica, non è logica buona o cattiva, ma è di fatto la logica su cui è stato costruito il mondo biologico, è la principale caratteristica e la colla organizzativa di questo mondo del processo mentale che ho tentato di tratteggiare. (pp. 49-53)
Quest’affermazione mi ha elettrizzato. Appariva accurata e legittimava l’enorme importanza che ho accordato all’immagine, alla storia e al gesto nel comunicare con le persone che si sono consultate con me. Legittimava anche i tentativi di filosofi come Wittgenstein, già citati, non solo di cercare differenti strutture per la logica della comunicazione ma anche di scoprire che potrebbero essere straordinariamente diverse da quelle della logica classica che i pensatori occidentali sono giunti a vedere come la norma. La visione non verbale e analogica di Bateson risulta particolarmente significativa per la ricerca in ambito psicoterapeutico, perché indica che consiglio ed esperienza non sono abbastanza; occorre cercare un nesso a livelli che giacciono al di sotto della portata esplicita delle parole pronunciate.
Perché è così importante per un terapeuta questa attenzione a un sistema più ampio? Perché distoglie dal guardare gli individui e la loro vita interiore, che è ciò che la psicologia modernista ci insegna a osservare, e si concentra invece sui fili di connessione che collegano tutti noi al telaio. Se si adotta la prospettiva di uno psicologo modernista, si cercherà sempre di vedere il proprio lavoro come una questione di costruzione di strade di percorrenza, edificazione di ponti, e vari altri progetti di ingegneria. Se ci si sposta verso una psicologia postmoderna, si deve saltare, come Alice, nel lago di lacrime con le altre creature. Questa situazione è un grande equalizzatore e porta con sé alcuni pericoli, ma è l’unica fonte di informazione con il potere di trasformare.
Il problema dell’errore epistemologico
Nei tardi anni Settanta, quando mi stavo avvicinando a un modello postmoderno, ho iniziato a comprendere meglio l’accento che Bateson ha posto su ciò che ha chiamato gli “errori epistemologici”. Egli vide giustamente che la “reificazione dei sostantivi” era una fonte di numerosi errori grossolani e terribili e sostiene che il linguaggio, essendosi sviluppato per essere adatto al Pleroma, suggerendo che i nomi rappresentano le cose, non sempre è adatto per la comunicazione biologica, che invece privilegia il sistema e la relazione. Così parole come “crimine” e “gioco” o ancora “potere”, vengono spesso intese come termini riferiti ad entità a sé stanti. Si “punisce” un crimine, si “apprezza” il gioco, e si “prende” il potere. Un esempio attuale è la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Lo abbiamo scoperto, è impossibile intraprendere un tale tipo di guerra. Mettendoci in guardia verso tali reificazioni, Bateson ci racconta la storia del matematico Anatol Holt che auspicava si realizzasse un’etichetta adesiva che riportasse il motto “distruggi i sostantivi” (Bateson, 1972, p. 334).
Alla fine degli anni ’70, avevo a malapena compreso la corretta osservazione di Bateson riguardo all’errore dell’oggettivazione dei sostantivi, ma già stavo provando a distanziarmi dalle applicazioni reificanti su cui mi sono fatta le ossa come terapeuta. Iniziando con l’approccio strutturale di Minuchin, mi sono poi unita all’approccio strategico breve del Mental Research Institute. In seguito, sono passata all’approccio sistemico del team di Milano, che era manifestamente influenzato dalle idee di Bateson. Abbastanza ironicamente, fu negli scritti di Bateson che trovai sostegno per ciò che allora era una ribellione nascente.
I pericoli della finalità cosciente
A quel tempo, ad interessarmi in modo particolare era l’idea che troppa conoscenza, troppa “finalità cosciente”, poteva generare pericoli. Bateson (1972) sostiene:
La coscienza finalizzata estrae, dalla mente totale, sequenze che non hanno la struttura ad anello caratteristica della struttura sistemica globale. Se si seguono i dettami ‘sensati’ della coscienza, si diviene in realtà avidi e stolti: e per ‘stolto’ intendo colui che non riconosce e non si fa guidare dalla consapevolezza che la creatura globale è sistemica (p. 474).
Bateson citava spesso un poema di Coleridge, “La ballata del vecchio marinaio”, come un esempio particolarmente chiaro del modo in cui la situazione di un individuo si può trasformare una volta che finalmente si sia riusciti a mostrare rispetto per l’ecologia più ampia. Lo sfortunato Marinaio, bloccato e alla deriva con l’albatros appeso al collo, vede alcuni meravigliosi serpenti marini e li benedice involontariamente. Appena la finalità viene esclusa dalla sua mente l’albatros cade dal suo collo e, a questo punto, arrivano le prime gocce di pioggia vivificante. Sebbene non sia ammissibile alcuna relazione causale fra questi eventi, Bateson tuttavia credeva che questo componimento fosse un buon esempio dell’illuminazione che accompagna una comprensione della sacra unità del mondo biologico.
Questa storia mi ha convinto. L’essere finalizzati era una delle caratteristiche degli approcci che ho studiato e ammirato per primi – ora mi pongo delle domande in merito. Ho anche iniziato a comprendere come si sia sentito Bateson verso la terapia familiare che ha involontariamente contribuito a fondare. In Dove gli angeli esitano, sua figlia ha creato un “metalogo” fra lei e il fantasma del padre, proprio come lui fece con lei in Verso un’ecologia della mente. Nel capitolo “Un’ombra ostinata”, lei gli rimprovera:
Figlia: Però nei tuoi metaloghi a me non toccavano mai le battute migliori.
Padre: Per Dove gli angeli esitanoc’è poi un altro problema ancora, quello dell’uso scorretto delle idee. Se ne impadroniscono gli ingegneri. Pensa a quell’orribile faccenda che è la terapia familiare, con i terapeuti che fanno “interventi paradossali” per modificare le persone o le famiglie, o che contano “i doppi vincoli”. I doppi vincoli non si possono contare.
Figlia: No, lo so, perché i doppi vincoli hanno a che fare con la struttura contestuale totale, e quindi un certo doppio vincolo osservato in una sessione terapeutica è solo la punta di un iceberg la cui struttura fondamentale è la vita complessiva della famiglia. (p. 307)
Questo scambio mi ha spesso spinto a chiedermi che cosa penserebbe Bateson se tornasse indietro, come Rip van Winkle, ed esaminasse lo stato della terapia familiare oggi. Penso che ne sarebbe afflitto. Probabilmente sarebbe scandalizzato dagli errori epistemologici che sono proliferati da ogni parte: l’adozione di categorie diagnostiche basate su sostantivi reificati come depressione, o le pressioni per trovare risultati evidence-basedche Bateson definirebbe come tentativi di tirare fuori circuiti parziali dalla rete totale. In Dove gli angeli esitano puntualizza:
Credo invece che un’azione o la targhetta posta su un’esperienza debbano sempre essere viste, come si dice, in un contesto. E il contesto di ciascuna azione è formato dall’intera rete dell’epistemologia e dallo stato di tutti i sistemi implicati, con la storia che ha portato a questo stato. (1987, p. 266).
È significativo notare che Bateson, come unità da prendere in considerazione, era meno interessato alla famiglia e più all’insieme individuo-ambiente. Sentiva che sarebbe stato più difficile per gli ambiti della psicologia e della psicoterapia mantenere il loro ristretto interesse sulla persona quando fosse stata accettata questa visione più ampia. Per lui la differenza importante non era fra terapia individuale e familiare ma fra professionisti che pensano in modo sistemico e quelli che pensano in termini lineari di causa ed effetto. Questa visione è confermata dal fatto che la terapia familiare si sta evolvendo in una varietà di approcci ecologici o multiculturali che vedono sia il terapeuta che il cliente come inseriti nella più larga rete sociale. Perché il cliente cambi, deve cambiare anche la rete.
La mappa non è il territorio
Intorno alla metà degli anni Ottanta, ero convinta che la terapia familiare si stesse bloccando in un binario moderno, essenzialista. Penso anche che stessi seguendo il cambiamento nel modello percettuale previsto da Thomas Kuhn (1972) in La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Questo cambiamento è oggi etichettato come postmodernismo, ma è stato associato a una varietà di altri ismi come decostruzionismo, post-strutturalismo, e costruzionismo sociale, solo per menzionarne qualcuno. Inizialmente confusa, ho gradualmente compreso che tutti procedevano nella stessa direzione: verso una consapevolezza della fly bottle,dei presupposti linguistici che Wittgenstein aveva visto come una trappola e che Bateson aveva chiamato “errori epistemologici”.
Nello sviluppo del suo progetto, Bateson si indirizzò verso quella fase intermedia chiamata costruttivismo, che sostiene che il velo fornito dal nostro apparato percettivo ci trattiene dal contatto diretto con “il mondo”. Egli stesso si riferiva spesso alla frase dello studioso di semantica Korzybsky, “la mappa non è il territorio”, dicendo che non c’erano maiali e noci di cocco nel cervello, ma solo le idee di maiali e di noci di cocco (1979, p.30). Il costruttivismo si fondava sulla biologia dei processi cognitivi, e due dei suoi più famosi sostenitori erano il biologo Humberto Maturana (1977) e il matematico Francisco Varela (1976), che Bateson conosceva e ammirava.
Il costruttivismo era stato studiato anche dai terapeuti sistemici della famiglia e risultò essere un elemento teorico importante nell’allontanamento dal pensiero di sé come agenti del cambiamento e da quello delle famiglie come sistemi che necessitavano di essere cambiati. Secondo Maturana (1988), le persone sono intrappolate nei loro sistemi nervosi privati. Per questa ragione, egli sosteneva, non possono realizzarsi interazioni istruttive. Questa idea finiva per essere un binario morto per chi avesse provato a tradurla in terapia, ma nel momento in cui mi resi conto di questo, il sociologo Kenneth Gergen (1992) ci fornì una via d’uscita promuovendo un movimento chiamato Costruzionismo Sociale. Questo modello radicato nel pragmatismo Americano, si è focalizzato sulla creazione del significato nella rete della comunicazione.
Poiché Bateson sembrava sempre in anticipo sui tempi, ho spesso pensato a lui come un precursore del postmodernismo. Il cambio di paradigma di cui sto parlando si è evoluto a partire dalle elaborazioni di molte menti originali nell’arco di diversi anni, e Bateson fu certamente fra queste. Tuttavia, il termine “postmodernismo” ha finito per essere usato in modo troppo vago. È sbagliato dire che esiste qualcosa come una terapia postmoderna. Modelli che esistevano in precedenza sembrano contenere elementi tipici degli approcci postmoderni, anche se non sono stati originariamente pensati in quel modo. Del resto, i terapeuti contemporanei che si considerano postmoderni talvolta appaiono ancora intrappolati nei modi di pensare essenzialista del passato.
Nel corso delle mie quattro decadi di lavoro nel campo, diversi professionisti della relazione si sono allontanati da quello che Donald Schoen (1984) ha chiamato un approccio “tecnico-razionale” per avvicinarsi a una prospettiva che considera ed esercita la pratica terapeutica come un’arte. Olson (2004) parla della possibilità di fondare la terapia su “un processo di indagine collaborativa più che su una teoria della realtà strutturale”. Per me questo implica anche uno spostamento verso logiche alternative. Queste logiche si oppongono allo spirito riduttivo tipico dell’establishment della salute mentale in ambito nordamericano, e fa pensare a ciò che Pakman (2000) ha chiamato la “poetica” del nostro campo. Come esempi, propongo cinque ritratti di momenti, non intere terapie, che mostrano come io stessa utilizzi un linguaggio dell’immagine, della storia e della metafora nel mio lavoro.
Similitudine
Essendomi laureata in Letteratura al collegesul New Criticism, avevo una buona conoscenza delle teorie letterarie di T. S. Eliot (1920) e in particolare del “correlativo oggettivo”. Secondo la sua idea, una poesia o un romanzo di successo spesso contengono un riferimento simbolico che rappresenta il significato di fondo dell’opera. La Grande Balena Bianca di Moby Dicksembra rappresentare il carattere ossessivo della ricerca di Achab. In modo analogo, il compasso nell’opera di John Donne Gli amanti fa riferimento sia al braccio esterno che traccia l’incostante traiettoria dell’amante, sia a quello fermo che rappresenta il partner che attende fedele a casa. Nel mio lavoro, cerco sempre simili immagini concrete che possano riassumere l’essenza della situazione in oggetto.
Ad esempio, lo scorso anno, mentre stavo partecipando a una consultazione con un gruppo di formazione al suo inizio nell’ambito di un programma di terapia familiare presso un collegelocale, ho chiesto a qualcuno di essere il mio partner in una consultazione di rispecchiamento. Una giovane donna si fece avanti e, quando ho chiesto qual era l’argomento di cui voleva parlare, disse: “Sono appena stata licenziata”, intendeva dire proprio quel giorno. A quanto pare, aveva lavorato in una società di alta tecnologia per quindici anni e con buoni risultati, quando aveva avuto l’idea di tornare a scuola e prendere un master in terapia familiare. Continuava a lavorare e non aveva condiviso i suoi piani con l’azienda, così fu sorpresa quando venne licenziata senza preavviso. Disse che era stato come “cadere da una scogliera”.
Le chiesi se poteva pensare a qualche storia che potesse illuminare la sua situazione, come un racconto popolare o una fiaba. Lei disse che non le veniva in mente nessuna storia, ma poi mi raccontò che suo padre era morto due anni prima, e che quando andò al suo funerale, rimase profondamente commossa dalle testimonianze degli amici e della famiglia sulle sue qualità e la sua influenza. Disse: “Ero consapevole di un grandissimo desiderio: che anche su di me una volta morta, la gente potesse dire cose analoghe”. Questo la portò alla ricerca di un nuovo tipo di carriera e a iscriversi al corso dove io stavo insegnando.
Le chiesi poi quali problemi le aveva causato il licenziamento. Disse che era fortemente scioccata perché era avvenuto così all’improvviso, anche se aveva sufficienti risparmi per coprire le spese correnti. Allora chiesi al gruppo di condividere le loro riflessioni sulla sua situazione. Non era un gruppo sofisticato, la maggior parte di loro, semplicemente, cercò di dire cose rassicuranti. Mi aspettavo che qualcuno si riagganciasse alla storia della morte di suo padre, ma questo non avvenne. Poi una giovane donna del gruppo mi sorprese tirando fuori un’idea particolarmente singolare e inusuale. Disse: “Ho avuto l’immagine di una donna in piedi sulla cima di una scogliera e nelle sue mani c’era un meraviglioso uccello luminoso. Mentre la guardavo, ha allentato le mani e l’uccello ha aperto le ali ed è volato via”.
Tornando alla mia interlocutrice, le chiesi la sua reazione ai commenti del gruppo. Lei disse: “L’immagine di me in piedi su una scogliera con quel meraviglioso uccello luminoso è così azzeccata”. Parlammo di ciò che quell’uccello poteva rappresentare per lei, e come potesse essere legato a suo padre. Disse che aveva pensato che suo padre avrebbe approvato il suo ritorno agli studi e l’idea di prendere una specializzazione in terapia familiare. Fummo d’accordo sul fatto che la sua reazione alla perdita di suo padre conteneva il germe della decisione di iniziare una vita più significativa. Per di più, questo era un modo per tenerlo prossimo a sé.
Ciò che mi ha colpito era come quell’immagine sembrava emergere, con colori splendidi, da una mente collettiva, un cervello unico paragonabile a un alveare, di un gruppo appena iniziato. Sebbene fosse la scoperta di una sola persona, l’effetto sugli altri fu interessante. Ne ritornarono a parlare di nuovo, e questa volta i commenti inclusero ricordi di loro esperienze di trasformazione, di volgere le perdite in guadagni. Il risultato è che spesso ora evito di provare a pensare io stessa un’analogia o una storia, e semplicemente mi fido del fatto che qualcuno del gruppo tirerà fuori ciò che è necessario. Credo che immagini come quella vadano dritto all’amigdala – quella parte del cervello dove sono immagazzinate le memorie emotive (Damasio, 1994) – e finché lavorano segnalando similitudini, possono avere un impatto immediato. Cosa molto importante, sono un prodotto collettivo, non l’invenzione di un terapeuta.
Presenze
Un altro uso della grammatica creaturale consiste nelle presenze immaginate. Qualche anno fa quando ero in Italia, ho partecipato ad una seduta con Hanafe, un giovane musulmano che veniva dal Marocco. Era stato inviato a Pietro Barbetta da un giovane Wolof del Senegal che aveva studiato i sistemi di guarigione tradizionale dell’Africa sub sahariana. Oumar, questo il nome del giovane guaritore, aveva detto a Barbetta che quest’uomo soffriva di un tipo di melanconiache non si verifica fra la sua gente perché non aveva alcun tipo di manifestazione fisica, e nemmeno Hanafe la associava ad uno spirito maligno, così lo aveva mandato da lui.
Per lo più ho guardato e ascoltato, mentre il giovane spiegava a Barbetta che era diventato molto timoroso di andare al lavoro. Stava lavorando in una fabbrica, una settimana durante il giorno e la settimana successiva di notte, ed era rimasto colpito da una ragazza che lavorava in un negozio vicino. Così, lungo la strada verso il lavoro, aveva comprato una rosa per lei. Tuttavia, i suoi compagni avevano indovinato lo scopo di quella rosa e avevano cominciato a prenderlo in giro, inducendolo a buttare via la rosa. Ci disse che aveva una famiglia in Marocco e che gli mancava molto. Un suo giovane cugino era andato a vivere con lui, e sperava di iscriverlo all’università. Chiaramente, si era messo molto in gioco per riuscire bene in questo paese.
Verso la fine del colloquio, il mio collega mi chiese se avevo qualche pensiero, così parlai di quanto coraggio doveva essere stato necessario a questo giovane per venire in una terra straniera per aiutare la sua famiglia. Il giovane quindi si intromise con grande forza: “Andrò all’inferno fra un’ora, perché è questo che succede quando devo essere al lavoro”. Io mi girai verso Barbetta e dissi, “Dice che andrà all’inferno fra un’ora e dobbiamo aiutarlo”. Suggerii che Barbetta gli chiedesse chi avrebbe voluto che ci fosse nel “club della sua vita” (un’idea di Michael White), pensando che avremmo potuto suggerirgli di farsi accompagnare al lavoro da queste presenze. Ovviamente, egli non capì che cosa intendevo dire. Così continuai, “possono essere parenti o amici, non necessariamente viventi, ma presenti in forma di spiriti, come i djinn”. Egli continuò a guardarmi perplesso, ma grazie al cielo, Barbetta disse: “Noi li chiamiamo angeli, ma voi li chiamate grin”. A questo punto Hanafe si illuminò, dicendo, “Si, si, i grin!”. La parola che avevo usato, djinn, era a quanto pare il nome di spiriti cattivi, mentre I grinerano benefici. Maledissi mentalmente i diversi libri di fiabe che avevo letto da bambina, dove djinnera il nome generico di ogni spirito potente.
Questa era stata la fonte di un’interessante fraintendimento. Barbetta mi disse più tardi che nella cultura musulmana del Mahgreb ci sono spiriti che vivono nel regno fra gli esseri umani e Allah. Quelli maligni sono chiamati djinn, ma ce ne sono anche di buoni chiamati grinche sono spiriti di membri della famiglia che ti amano e ti proteggono. Barbetta gli chiese di scegliere alcuni di questi spiriti buoni da portare con sé al lavoro. Così mise suo padre, che era morto diversi anni prima, sulla sua testa, e sua madre e sua sorella sulle sue spalle. Mise me e Barbetta sulle sue braccia. Mi sembrò che questo lo calmasse ed egli continuò chiedendo consigli per iscrivere suo cugino all’università, cosa a cui Barbetta provvide con facilità.
Dopo che il giovane se ne fu andato, Barbetta disse che gli era piaciuta molto l’idea delle persone immaginate. Risposi che mi ero intromessa in quel modo perché il giovane sembrava sconvolto per la dura prova che si trovava a fronteggiare. Ogni volta che trovo un “punto caldo” emotivo come quello, cerco di rispondere immediatamente. Devo questo intervento a Michael White (1995), la cui abilità nell’evocare presenze per sostenere le persone è leggendaria. Ma il principio è fondato sull’insistenza di Bateson nel sottolineare che l’unità “individuo-più-ambiente” è quella centrale, e non la famiglia o il gruppo dei consanguinei. Dato che non tutte le famiglie sono d’aiuto, è importante trovare o creare una rete di sostegno. Barbetta, io, e i parenti su cui Hanafe poteva contare, ci hanno dato per lo meno un vantaggio, così come una base temporanea per fronteggiare le umiliazioni di un mondo estraneo.
Oumar disse che la melanconiadi Hanafe sembrava scomparsa. L’idea che ne ho tratto è quella che ho tradotto con l’espressione “significato in un pugno”. Il tempo era poco e io volevo qualche concetto che potesse essere rapidamente visualizzato, come tutte quelle persone appollaiate sulla testa e sulle spalle del giovane. Tuttavia, l’incomprensione che attraversammo per arrivare lì fu un promemoria per me salutare per ricordarmi che la via più breve tra due punti talvolta non è una linea dritta.
Barbetta, che si occupa di antropologia, mi spiegò perché il giovane guaritore Wolof aveva inviato Hanafe da lui. Mi scrisse più tardi: “Oumar, che è un Wolof che lavora con sistemi di guarigione tradizionali, mi ha inviato Hanafe, un musulmano del Marocco, perché non si sentiva in grado di aiutarlo. Hanafe viene dal Mahgreb e Oumar conosce i sistemi di guarigione dell’Africa sub-sahariana. Nel linguaggio della cultura filosofica araba Hanafe era in uno stato di melanconia, che è simile a ciò che noi chiamiamo depressione. Una situazione come questa, secondo Oumar, non esiste fra i Wolof. È possibile che, fra la sua gente, questo tipo di tristezza abbia sempre a che fare un particolare tipo di dolore fisico all’interno del corpo, solitamente un tremendo e insopportabile mal di testa. Ma il dolore di Hanafe era morale, senza alcuna sofferenza corporea. Allo stesso tempo, Hanafe non pensava che alcuno spirito maligno lo stesse possedendo, o che qualche misteriosa cosa esterna lo stesse minacciando o spaventando”.
Barbetta aggiunse: “Feci un follow upcon Hanafe, tre mesi dopo la nostra seduta, e lui ci era grato per avere evocato dei grin in suo aiuto. Andò in Marocco per l’estate e tornò con maggiore energia per vivere e lavorare in Italia. Recentemente ho visto Oumar, che mi ha inviato Hanafe. Mi ha detto che Hanafe stava molto meglio, si era sbarazzato della sua melanconia. La sua vita lavorativa era migliorata dal momento in cui aveva lasciato il lavoro in fabbrica, che non gli piaceva, e ne aveva trovato un altro. Suo cugino stava andando all’università , con la prospettiva di un buon risultato. Così non l’ho più visto”.
Incorporazione
Vorrei aggiungere un colloquio che esemplifica l’uso della gestualità e la presenza del corpo. Questa era una famiglia con cui ho avuto una consultazione a Porto, in Portogallo. Uno psicologo introdusse la madre e il padre di due gemelli identici di otto anni. I gemelli lottavano e litigavano al punto che la madre veniva spesso chiamata a scuola per portarli a casa. Il padre lavorava nel campo dell’alta tecnologia, e la madre era impiegata. Questo è ciò che sapevo prima che la famiglia entrasse, ma quando arrivarono fui veramente sorpresa. I due ragazzi, slanciati e un po’ timidi, indossavano occhiali identici incorniciati di nero alla Harry Potter. Immediatamente chiesi se erano dei fan di Harry Potter. Uno disse che aveva già letto uno dei romanzi, e l’altro mi mostrò un polsino con l’insegna di un fulmine. Non dovetti pensare a metafore per questa famiglia – arrivarono con loro.
Così iniziai a fare domande sul regno dei gemelli e a chiedere com’era, e ottenni alcune preziose dichiarazioni. Se sei un gemello, puoi litigare, ma non sei mai solo. Ero particolarmente colpita dal buon comportamento dei due. Risposero in modo vivace, specialmente quando gli chiesi delle partite di calcio locali, che avevano creato in città un tremendo ingorgo stradale la sera prima. Dissi loro che ne ero al corrente, perché tornando a casa da un ristorante, la mia auto era rimasta bloccata per un’ora. I ragazzi tifavano per la squadra di casa e il padre per l’altra, ma alla fine si sono goduti il gioco insieme.
Riuscii anche a raccogliere un po’ della loro storia. La famiglia aveva traslocato un anno prima da Lisbona, perché al padre avevano offerto un buon lavoro in una società di alta tecnologia. Sfortunatamente questo significò per la madre venir separata dalla sua famiglia e dalla sua ecologia, cosa che per lei era molto importante. Quando in passato i gemelli erano stati difficili, lei aveva sua madre e sua sorella a cui rivolgersi. Il padre sembrava molto assorbito dal suo lavoro, e ovviamente usciva presto e tornava a casa tardi. Non era molto comprensivo verso la nuova situazione di sua moglie; del resto non sembrava disposto a fare la parte di quello che si lagna e disse molto poco riguardo al problema che preoccupava lei.
Avevo chiesto anche a un gruppo di terapeuti di ascoltare e poi commentare, così a questo punto mi girai verso di loro e li chiesi le riflessioni in proposito. Di base essi fecero i complimenti alla famiglia per aver affrontato un nuovo ambiente; ci fu un riferimento ai poteri della stregoneria e alcune domande su chi nella famiglia fosse il più potente mago o strega. Ma quando riconvocai la famiglia e chiesi le loro impressioni, la madre scoppiò rabbiosamente, dicendo che il gruppo non aveva capito la terribile posizione in cui si trovava, le difficoltà che le davano le risse dei gemelli, il modo in cui doveva lasciare il lavoro all’improvviso e tener testa al loro comportamento. I gemelli guardarono questo sfogo un po’ spaventati, ma io fui contenta del fatto che i sentimenti della madre fossero stati finalmente messi in tavola.
Così ascoltai la sua storia, e vidi che era veramente in una brutta situazione. Ci disse che le mancavano la sua famiglia e i suoi amici, e che ai ragazzini mancavano i loro cugini. Le chiesi se di quando in quando tornava a Lisbona, e se la sua famiglia fosse venuta a trovarla a Porto, e certamente lo avevano fatto, ma non era questo il suo problema: erano questi terribili bambini litigiosi. Il padre guardava lontano mentre lei parlava. Non mi sembrava una particolare risorsa. Tutto ciò che potevo fare era parlare con lo psicologo e confermargli che, in questa famiglia, era la madre che stava male e si sentiva più sola. La madre disse che le piaceva il suo terapeuta, e aspettava con ansia gli incontri familiari. Così, non potendo farli tornare a Lisbona, sentii che il meglio che potevo fare era fare i complimenti al terapeuta per il suo buon lavoro e la sua buona relazione con la famiglia, in particolar modo con la madre.
Ma c’era ancora un aspetto da esaminare, e mi stava preoccupando: l’immagine che era stata data di quei due terribili gemelli. Sedevano lì con un aspetto piuttosto triste, due pallidi, piccoli ragazzi al centro del ciclone. Così ho chiamato quello che indossava il polsino e nel momento in cui mi fu di fronte feci con le mie dita una linea a zig zag sulla sua fronte come quella che Harry Potter ha sulla sua, e dissi, “Volevo soltanto che tu sapessi che sei molto potente, ma non danneggerai nessuno”. Poi premetti lì la mia mano come per imprimergli un marchio, lo abbracciai, e feci lo stesso con l’altro ragazzo. Sembrarono giustamente colpiti da questo rituale, e poi iniziarono a ridere; di fatto rise l’intera famiglia, e chiudemmo la seduta in un clima di benevolenza.
Dopo che la famiglia se ne fu andata, ringraziai il gruppo dei terapeuti per le loro interessanti risposte. Dissi anche allo psicologo che pensavo che lui fosse un fattore di sicurezza cruciale e un importante alleato per la madre. Quanto al segno a zig-zag, avevo sentito che dovevo far passare ai bambini il messaggio che non erano così terribili come venivano pubblicizzati. In realtà, li avevo in qualche modo degradati, dicendo loro che anche se sapevano e io sapevo che la posta in gioco era alta, loro erano solo due ragazzini che giocavano alla magia. Sento che questo tipo di rituale “mani in alto” è un modo di comunicare con chiunque subito, usando le analogie che la famiglia mi fornisce.
Abbraccio
La mia domanda finale è “Come possiamo usare il linguaggio creaturale per rivolgerci a legami multi livello?” Quando penso a un nodo emotivo di una famiglia, tendo mentalmente ad allargare le mie braccia come per circondare. Per esempio, come professionista sistemico, ogni volta che c’è un’opposizione o una dualità, è importante essere capace di richiamare un universo in cui questa dualità si completi in un tutto più grande. Un esempio di questo può essere fornito da una donna che ho visto una volta il cui fratello l’aveva molestata nell’infanzia. Il suo partner femminista era scandalizzato perché lei continuava a vederlo. Questa era una classica situazione in cui il terapeuta è portato ad entrare a livello del conflitto, correndo così il rischio di diventare un mediatore o un avvocato. Queste non sono buone posizioni perché isolano solo una piccola parte dell’intero circuito. Ma se si entra a livello della rete, è possibile chiamare la relazione fra fratello e sorella “un amore che oltrepassa ogni comprensione”. Solo dopo un tale “abbraccio”, come lo chiamo io, si sarà salvi e si potrà tornare alla donna e al suo partner e dedicarsi al loro conflitto. Questo approccio, sebbene all’inizio abbia sorpreso la donna ed irritato il suo partner, si è rivelato poi di aiuto sia a me che a loro per attraversare l’impasse. La donna era particolarmente soddisfatta del fatto che non avessi provato a farle rompere la relazione col fratello. Abbiamo cercato invece qualcosa di simile a una terra di mezzo.
Conclusioni
In questo saggio, ho provato a mettere in luce la rilevanza delle idee di Bateson per il campo della terapia relazionale, in particolar modo nella sua forma post-moderna. Credo che una “grammatica della creatura” sia un contrappunto particolarmente utile alle psicoterapie tecnico-razionali e al pensiero essenzialista che portano con sé: aiuta a rimanere diffidenti verso il potere professionale, mette in dubbio l’idea che i problemi emotivi abbiano semplici cause lineari, inoltre ci dice che il linguaggio della creatura può funzionare per sgretolare le mura che circondano le persone che non possono parlare, o sono barricate nei loro codici segreti personali. Anche il terapeuta è barricato all’interno di un codice, che sia professionale o morale, e questo linguaggio spesso aiuta a liberare anche il terapeuta.
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