di Beppe Pasini, Erika Roncoroni, Valentina Bandirali, Francesca Nardi, Renata Pugliese
Introduzione: la voce del didatta
Quale ruolo hanno le aspettative, i sogni, le profezie presenti nel sistema famigliare sul futuro terapeuta? Come vivono i componenti della famiglia la scelta di divenire uno/a psicoterapeuta di uno dei suoi membri? Come futuro/a terapeuta della famiglia è utile esplorare queste dimensioni simboliche e relazionali nel corso della propria formazione?
Nel percorso del training in terapia famigliare rivestono una costante attenzione riflessiva e di rielaborazione le emozioni dell’allievo e allieva così come i pregiudizi, convinzioni, idee coinvolte nel colloquio clinico. Le finalità di questo processo formativo sono molteplici. Ne individuerei alcune tra quelle che ritengo essere le principali: attingere alla propria esperienza di membro di un sistema famigliare per esplicitare teorie silenti e credenze relative sulla famiglia come sistema; riconoscere la parzialità e relatività delle proprie visioni e opinioni ricostruendone la genesi; rendersi maggiormente consapevoli delle influenze del sistema famigliare di origine sulla propria formazione e identità, trasformando vincoli e criticità in possibilità operative e creative; affinare e implementare un proprio originale stile terapeutico nella relazione terapeutica. Nel corso di un seminario esperienziale di ormai parecchio tempo fa, ricordo le parole di Alfredo Canevaro, il didatta di origini argentino che lo animò, che suadenti come un passo di tango, avvolsero di passione e turbamento quell’incontro. “Il terapeuta della famiglia” sentenziò, “è il terapeuta fallito della propria famiglia!”. Rammento che nella sala calò un partecipato silenzio misto a una commozione pensosa. Era vero quel che si proclamava in modo così apodittico? Certamente su molti di noi, quell’affermazione fece presa, invitandoci a porci molte domande scomode ma necessarie: sul senso della nostra scelta professionale, sulla storia cui sentivamo fosse connessa, sull’origine di quello strano ed eccentrico desiderio di essere d’aiuto agli altri cui ambivamo divenisse un mestiere. Certo quella era solo una possibile declinazione di una storia che collegava l’identità in formazione del terapeuta con il sistema famigliare dal quale proveniva. Molte altre versioni magari meno ingombranti e francamente liberatorie, potevano esservi affiancate. Si può parlare analogamente infatti del terapeuta ‘designato’, ‘eletto’, ‘arruolato’, ‘affidato’, ‘consacrato’, ‘celebrato’, ‘corteggiato’, ‘liberato’, ‘emancipato’, ecc. dalla famiglia. Ciononostante, il fascino esercitato da quella connessione esistenziale con la famiglia di origine, rimaneva inalterato e mi ha stimolato nel tempo, in veste di didatta a mia volta, a esplorarne le molteplici possibilità proponendo ai giovani colleghi in formazione di accedere alle proprie risonanze biografiche per farne competenze professionali. Vi è in questo fertile intreccio, tra mondo esperienziale del terapeuta e relazione clinica, un evidente isomorfismo. Allenarsi a rendere accessibile e narrabile il proprio mondo interiore, relazionale, simbolico fornisce ottimi stimoli riflessivi e spunti pratici per affinare il rapporto terapeutico. La famiglia del terapeuta con i suoi miti, credenze, modelli, linguaggi, metafore, simboli, corpi, storie, emozioni, ecc. ne costituisce senz’altro un inesauribile campo di apprendimento. Tale esplorazione coinvolge a sua volta almeno due appassionanti questioni sistemiche. La prima è rappresentata da quello che Andolfi e Cigoli chiamano: “…Il rapporto con le origini. Composte da storie intergenerazionali, trasmissioni, lealtà invisibili e visibili, capri espiatori, figure salvifiche, scambi di doni tra le generazioni, ecc.”. (Cigoli, Andolfi, 2008). L’altra più squisitamente epistemologica, che sta nel riconoscere il carattere sociale, interattivo, ecologico, partecipato di ogni conoscenza. Interagire creativamente con la complessità dei sistemi umani, implica per il terapeuta mantenere vive e mobili queste variabili attraverso le linee guida che i maestri e maestre del Milan Approach ci hanno insegnato: curiosità, bellezza, riflessività. Da questi sintetici presupposti ha preso forma l’idea di coinvolgere i famigliari degli allievi nel corso di una giornata seminariale, rivolgendo loro un invito esplicito a prendervi parte:
Cari/e allievi/e, il seminario che avrò il piacere di condurre sarà dedicato a STORIE CHE (MI)CONNETTONO. EREDITA’ SIMBOLICHE, MANDATI, LEGAMI FAMIGLIARI. Vi scrivo per chiedervi la disponibilità a coinvolgere un vostro/a congiunto (padre, madre, fratello, figlio/a, sorella, compagno/a, marito, moglie, ecc.) invitandolo/a a partecipare attivamente ad una conversazione nella prima parte della giornata seminariale, dalle 10 alle 12 presso la sede del CMTF. Si tratterà di una emozionante e mi auguro utile, occasione per esplorare dimensioni relazionali (in)visibili eppure assai concrete, apprendendo dalla nostra biografia famigliare per poi collegarci al lavoro clinico. Nella speranza che vogliate accogliere il mio invito vi do appuntamento al seminario. Ciao!
All’appello di quella pionieristica proposta rispose uno sparuto, ma entusiasta, gruppetto di fratelli, mariti, figli, amiche, che fu accolto in un’ariosa mattinata di aprile negli austeri spazi di via Leopardi. In quel luogo così denso di epopee famigliari, facevano capolino in carne e ossa e per la prima volta, anche quelle degli allievi della scuola. Ci apprestammo così a celebrare un memorabile incontro in un’atmosfera di palpabile eccitazione. Il presente articolo racconta a più voci, ciò che vi accadde e soprattutto ciò che imparammo.
Tra paura e curiosità. La voce degli allievi
Quando alcuni giorni prima ricevemmo la proposta di Pasini annessa all’ invito al coinvolgimento dei nostri familiari al seminario si creò tra noi non poco sgomento. Ci confrontammo scambiandoci dubbi e perplessità sul da farsi: “Che intenzioni aveva Pasini? Cosa avrebbero dovuto fare i familiari quel giorno? Chi invitare?”. Le premesse non erano ben chiare e insieme all’effetto perturbante dell’invito inatteso, si crearono tante aspettative alle quali rispondemmo in molti modi.
Ancor prima di aver inizio, la proposta formativa, nuova e irriverente, smosse riflessioni consapevoli e/o meno sui legami famigliari, ricordandoci in qualità di allievi futuri psicoterapeuti familiari, le nostre origini. Durante questi anni di formazione, è emerso, a volte più velatamente a volte in modo più esplicito, che c’è un filo rosso comune che lega tutti quanti noi allievi (e anche i nostri didatti), che si origina dal bisogno di comprendere e a volte cambiare i sistemi da cui proveniamo. Un movimento comune e appassionato che ci ha portato ad incontrare e scegliere questo specifico percorso di vita. È fuor di dubbio, infatti che la nostra storia e il nostro modo di osservarla e viverla in qualche modo abbia contribuito alla scelta del nostro percorso formativo. Durante la formazione, ma anche dentro la stanza di terapia, continuamente facciamo i conti con questa doppia veste che ricopriamo: essere terapeuti familiari ed essere membri di una famiglia. Ci alleniamo a cogliere le risonanze delle nostre narrazioni attraverso la voce degli altri (i nostri pazienti e i nostri colleghi) con il fine ultimo di aprirci a una visione più ampia e complessa della realtà. Ciò nonostante riflettere sulla possibilità di aprire le porte del CMTF ai nostri familiari, è stata una presa di contatto incarnata di forte impatto, che ci ha riportato alle nostre vulnerabilità e narrazioni più intime.
Ci ritrovammo così a ripercorrere il rapporto con le nostre origini, riflettendo sulla nostra storia famigliare e sulla personale narrazione che ne derivava, evidenziando una stimolante analogia col training. Così come un paziente portatore di un disagio personale che intraprende un percorso terapeutico considerandolo privato ed emancipato dalla sua sfera quotidiana, per la maggior parte degli allievi il percorso formativo rappresenta uno spazio di distensione personale vitale. Una esperienza immersiva che consente di allontanarsi mentalmente dal trambusto del quotidiano faticoso, per addentrarsi nell’esplorazione preziosa del sé. Soffermandoci e interrogandoci profondamente partendo da temi e stimoli condivisi durante la lezione, creando a volte nuove connessioni e apprendimenti, vivendo una confusione generativa in cui sostare anche nei giorni successivi alla formazione.
Nel corso dei tre anni di training sono diverse le occasioni in cui agli allievi/e viene proposto un lavoro di rielaborazione sulle proprie dinamiche famigliari tramite ad esempio l’impiego del genogramma che favorisce processi introspettivi e rielaborazioni di dinamiche relazionali cogliendo specifiche caratteristiche del sistema, stimolate anche dal lavoro in gruppo che moltiplica i punti di osservazione e le letture. In questo costante processo riflessivo, sono a volte emersi personali motti emancipativi rispetto al sistema di origine così come “movimenti” centripeti in seguito ai quali il sistema tende invece a richiamare a sé il famigliare.
Il passaggio che ci si proponeva in questa occasione riguardava un ulteriore movimento: coinvolgere, in carne ed ossa, un famigliare all’interno di un setting in cui, fino a quel momento era solo una presenza narrata, presentificata dal racconto, simbolizzata. E non era un passaggio da poco!
Pasini propose a noi allievi, come del resto il terapeuta familiare fa con i suoi pazienti, una conversione della propria epistemologia, aprendo non solo lo sguardo, ma anche l’uscio, ai corpi, alle fisicità concrete di carne, ossa e storie.
La mattina del seminario la classe del terzo anno, si è riempita così di nuovi volti tra cui quelli dei nostri familiari. L’aria che si respirava era nuova, un po’ tesa, un po’ imbarazzata e anche divertita. Tra noi ci fu chi coinvolse i fratelli, chi l’intera famiglia. Altri, in tanti, preferirono non estendere l’invito ad alcun famigliare. Un’assenza che in qualche modo fu comunque partecipativa, “presentificandosi” nei pensieri, nelle riflessioni e nelle sensazioni di ognuno. Tra noi serpeggiavano una moltitudine di emozioni: il rammarico di chi, (forse impaurito dalla proposta) decise di non coinvolgere nessun familiare (“non sapevo cosa avrebbe dovuto fare”); la “gelosia” di coloro tra noi che era convinto di non aver con nessun parente un legame così forte da permettergli di invitarlo. Alcuni ancora ammisero sin da subito di temere un possibile rifiuto dai loro congiunti: “Cosa vuole dire se lo invito e non viene? Non mi vuole abbastanza bene? Non ci tiene abbastanza? Il nostro legame non è abbastanza forte?”
Il seminario prendeva forma seguendo la logica dell’agire in modo sistemico per pensare in modo sistemico. Venivamo dunque invitati dal didatta a vivere in prima persona gli effetti dell’epistemologia sistemica, dilatando le connessioni e ampliando il contesto, onorando le parole di Bateson: “La mente è immanente all’interno del più vasto sistema: uomo più ambiente” (Bateson, 1972).
All’interno di questo orientamento ci si colloca in una posizione che invita a considerare pattern comportamentali ed esperienziali, in cui l’individuo e il suo sistema significativo diventano osservatori e osservati co-costruendo il contesto relazionale in cui sono immersi (Boscolo, Bertrando, 1996). Questo implicitamente stimolò alla riflessione sui ruoli e i confini del sistema famigliare a proposito delle questioni proposteci dal didatta: quale ruolo può avere l’esplorazione delle proprie dinamiche, storie, relazioni famigliari nel percorso formativo di un futuro terapeuta della famiglia? Cosa significa comporli e farli incontrare concretamente nel training formativo? Per quali opportunità e obiettivi?
L’effetto di quell’allargamento pragmatico di prospettive, diventò così un’opportunità formativa e autoriflessiva per noi allievi. L’esperienza diretta con questo genere di (per)turbamento può diventare uno strumento di lettura di indizi intesi come “informazioni che fanno la differenza” della storia di cui sono portatori gli individui e i futuri pazienti.
Il seminario evidenziò pure un pregiudizio diffuso nei contesti della formazione: gli aspetti che riguardano la storia personale e la propria biografia sono relegati in un angolo, spesso non visti, come non facessero parte integrante e anzi vitale della propria esistenza. Ma non è proprio di famiglie in carne e ossa che ci occupiamo? La scommessa semmai allora è quella di trasformare la propria biografia esistenziale in quanto futuri terapeuti, in preziosa occasione di apprendimento e ri-connessione tra prassi e teoria, tra emozione e ragione, tra immaginario ed esperienza. Infatti nonostante l’impegno a “lasciare fuori” il familiare, quest’ultimo “è dentro”, è parte attiva della maturazione professionale. Gran parte delle competenze di cura vengono ad esempio apprese in famiglia (cfr Formenti, 2000). Per la prima volta nel nostro iter formativo, fummo nella condizione dei nostri pazienti e come loro incominciammo a porci non pochi quesiti a seguito dell’invito di Pasini: Chi porto? Verrà? Lo dirò agli altri familiari? Cosa accadrà dopo l’incontro? Come glielo chiedo?
In tal modo il seminario ci ha investito di una doppia funzione sia formativa che esperienziale poiché come sappiamo l’osservatore è parte stessa del sistema osservato (von Foerster, 1982). È possibile dunque, in questa posizione di centralità autoriflessiva osservare la struttura del proprio sistema famigliare (p.e. la rigidità dei confini, le alleanze, i sottosistemi) e il proprio ruolo interattivo all’interno di tale struttura (Minuchin, 1974). Proprio come avviene nel processo terapeutico in una prospettiva dialogica e narrativa, questo sollecita una vitale consapevolezza: le nostre idee, convinzioni, valori, pregiudizi sulla famiglia non possono prescindere dal fatto che ne siamo parte e ne abbiamo esperienza in quanto figli, figlie, padri, madri, fratelli, ecc. È in famiglia che si impara a fare famiglia. Rendere esplicite queste interdipendenze e implicazioni mediante il coinvolgimento concreto dei famigliari degli allievi, facilita l’ibridazione virtuosa tra la biografia del terapeuta in formazione e il percorso formativo stesso (Pasini, 2017). Gli interrogativi e le riflessioni stimolate dalla proposta, sono stati propedeutici alla scelta stessa del familiare da coinvolgere.
Una volta assunte le conseguenze e colte le potenzialità di “aprire” i confini della famiglia portando concretamente i propri congiunti in un luogo che per molti di noi assume in se una molteplicità di funzioni e significati personali e oggettivi la domanda che emerse fu “Chi invitare al seminario?”
Sulla base di determinate consapevolezze, anche la scelta del familiare può aver messo in difficoltà alcuni di noi, invitandoci a confrontarci con i vissuti, emozioni, trascorsi. Lo scheletro (narrativo, simbolico, immaginato) delle proprie narrazioni biografiche influenza le modalità interattive e relazionali. La maggior parte di noi non ha trasmesso l’invito alla propria famiglia, colludendo con i propri pregiudizi, considerando l’idea che non avrebbero accettato la partecipazione o addirittura ammettendo di non ritenerli idonei a un contesto simile. Esattamente come i pazienti richiedenti un percorso di cura, ci siamo ritrovati coinvolti e vincolati da una premessa più grande e complessa.
La scelta di avviare un percorso terapeutico/formativo implica un’adesione ad un processo di cambiamento epistemologico. A prescindere dal consenso dato, la richiesta di coinvolgere un familiare o l’intera famiglia in terapia implica un insieme di variabili e circostanze emotive, relazionali, di opportunità, affettive, di alleanze e conflitti. Difficile se non impossibile rimanere super partes. Cosa significa dunque, come recita il mantra di tanti approcci clinici, accogliere senza giudizio la scelta dei pazienti, valorizzando qualsiasi risposta? È davvero possibile o è un comodo mito culturale? Come sostiene Keeney: “È l’epistemologia cibernetica stessa che va in cerca di schemi o modelli che connettono i vari componenti di una struttura a retroazione” (Keeney, 1983). Paziente e terapeuta sono, cosi come gli allievi in questo seminario formativo, costruttori di un modello interattivo che li connette reciprocamente. Un modello che si muove sollevandosi dalle distinzioni e dalle punteggiature di ordine causale. La famiglia convocata in terapia è l’espressione pratica della “descrizione doppia” Batesoniana, in cui grazie all’arte della conversazione sistemica la molteplicità delle punteggiature date dai membri del sistema famiglia-più-terapeuta, possono potenzialmente valorizzarsi e contribuire a trasformare storie sintomatologiche in versioni più complesse e salubri.
Molte riflessioni sollecitate dalla proposta hanno riguardato questioni quali la fiducia e l’affidabilità riposte sia nella persona significativa da invitare al seminario sia nel contesto nuovo che accoglie.
Così come dimensioni etiche legate all’opportunità del coinvolgimento della propria famiglia durante la formazione inevitabilmente connesse all’esplorazione di delicati equilibri, affetti, storie. Ad altre legate al setting: non è sufficiente infatti dichiarare a priori la bontà o l’utilità di questo allargamento, obbedendo all’ortodossia cui aderiamo in quanto sistemici. Spesso infatti capita che il terapeuta si confronti con pazienti che si oppongono o comunque nutrono perplessità a tale ampliamento. Pazienti che con tenacia proteggono i confini del proprio spazio di terapia considerandolo esclusivo e speciale. Fino a quando è lecito e opportuno prescrivere il coinvolgimento di altri membri della famiglia? Come i maestri del Milan Approach ci hanno insegnato infatti, si può benissimo condurre una seduta individuale con la medesima cornice epistemologica e pragmatica di una affollata presentificando in seduta, terze persone significative, appartenenti al mondo esterno o a quello interno (“voci”), “creando una “comunità” che concorre allo sviluppo di diversi punti di vista. Fra gli altri effetti, questa modalità può sfidare l’egocentrismo del cliente, posto nella condizione di riflettere o fare ipotesi su pensieri ed emozioni di altre persone nei suoi confronti, e non soltanto propri.” (Boscolo, Bertrando, 1996, p. 106). Nonostante l’impegno del terapeuta alla costruzione di un contesto protetto e accogliente, le difficoltà del paziente ad aprire le porte della stanza di terapia ad altri membri del suo clan, possono essere diverse.
A volte l’incontro terapeutico è vissuto come momento di protagonismo personale, luogo riservato ove deporre segreti, silenzi e sofferenze intime. Altre volte la scelta di una terapia individuale può essere indizio di una particolare dinamica foriera di indizi sul problema. Così isomorficamente a quanto avvenuto al seminario, il movimento dei pazienti, sia che assecondino la richiesta di coinvolgimento dei familiari sia che la ostacolino, diventa una finestra di riflessione e di arricchimento per l’ipotesi terapeutica. Come il maiale, nulla si butta! Pensare e soprattutto agire sistemico non è per niente scontato. Successe la stessa cosa anche a molti di noi quando per salvaguardare l’esclusività dello spazio della scuola vissuto come altro dal proprio sé famigliare, declinammo quel provocatorio invito? Questo “gioco interattivo” che il terapeuta sistemico propone può infatti essere vissuto come invasivo, urtando i confini arbitrariamente difesi della sfera intima delle persone che non sempre (anzi raramente) condividono i pregiudizi sistemici sul significato relazionale del sintomo o del problema, e conseguentemente sull’importanza di esplorare le relazioni famigliari per perturbare cambiamenti. L’agire del terapeuta necessariamente si muove perciò a partire da premesse di rispetto e salvaguardia delle emozioni e sentimenti di ognuno, tenendo conto della risposta individuale dei pazienti, altalenante tra desideri e resistenze al cambiamento.
Questa dimensione ha pure a che fare con il “tempo terapeutico” specifico per ogni situazione e tematica. La cosiddetta “danza terapeutica” (Boscolo, Bertrando, 1993). Affinché si crei fiducia e collaborazione è essenziale che il terapeuta accolga e colga, con sensibilità e con sincronia rispetto ai tempi del paziente, la possibilità di affrontare determinate tematiche. Essere circolari dunque significa porre attenzione ai feedback della relazione.
Come avviene nei casi in cui vengono proposti durante il training strumenti autoriflessivi e terapeutici, come il genogramma. In questi casi vi è la consapevolezza che non ci si limiti alla narrazione del proprio passato familiare, ma pure alla rappresentazione “in vivo” delle relazioni familiari. “In vivo” perché l’atto stesso della narrazione in questi casi, si connota di ingredienti emozionali e affettivi peculiari, esito della relazione e dal coinvolgimento empatico del terapeuta/didatta, ulteriormente amplificati dalla presenza di un “pubblico”. Quali sono le variabili personali e contestuali propedeutiche alla disponibilità a condividere la propria storia con un altro diverso da sé? Quale è l’apprendimento e la finalità di questo processo autoriflessivo messo in moto da una richiesta simile? Il percorso formativo si rivela allora come una palestra per allenarsi a prendere contatto con i molteplici punti di vista e pregiudizi riscrivendone altre versioni. O perlomeno riconoscendoli.
Tra coloro che fra noi hanno coinvolto i familiari durante il seminario, è spiccata la tendenza a scegliere in base ad un criterio di vicinanza e di somiglianza insiti al legame con la persona significativa. Si potrebbe ipotizzare che la complicità e la fiducia implicate in una simile richiesta siano più facili all’interno di un sottosistema familiare come quello della fratria. Il timore che il proprio invito non fosse accolto dal proprio famigliare, si è piacevolmente intrecciato alla sorpresa di quanti invece fra di loro lo accolsero. Indossare i panni del paziente ci ha permesso di sperimentare con empatia, quali possono essere le paure e le difficoltà di fronte ad una richiesta simile. Allo stesso tempo, abbiamo assaggiato il punto di vista del terapeuta che, in quanto promotore di un cambiamento, può agire in modo perturbante. Tale reciprocità di punti di vista è stato un intermezzo formativo che ci ha spinto a riflettere sulla specificità delle persone e delle relazioni. La relazione delicata tra paziente e terapeuta pertanto, si sviluppa in una danza collaborativa e dinamica, in cui non è sempre scontato il movimento armonioso e reciproco delle parti. All’interno del processo terapeutico possono esserci momenti di attesa, di silenzio, e allo stesso tempo spinte incoraggianti e irriverenti ove non sempre è possibile prevedere in anticipo il passo giusto da fare. Si tratta allora piuttosto, di ascoltare il riverbero della propria intuizione di fiducia, rinnovando e praticando un patto reciproco di collaborazione con il paziente.
Una danza tra emozioni, memoria e autoriflessività: la voce dei famigliari
L’idea di raccogliere la voce e la versione dei nostri famigliari intervenuti in quella giornata in un articolo, ha sicuramente stimolato in noi una forte curiosità. In particolare quella di ascoltare il racconto del gruppo dei fratelli, il loro vissuto, le emozioni provate. Facemmo passare diversi giorni prima di rilanciare loro con alcune domande e raccoglierne i feedback. Forse perché ci sembrava di aver già chiesto (e ricevuto) tanto da parte loro durante il seminario. Molti di noi ebbero invece un confronto immediato “a caldo” con i familiari. Diversi di loro commentarono positivamente l’incontro avvenuto. In alcuni addirittura si accese un forte interesse verso il mondo del CMTF tanto da desiderare un’altra occasione. Altri ancora rivelarono che a seguito di quell’esperienza, iniziarono ad osservare in modo diverso la relazione con il proprio familiare, scoprendo e valorizzando aspetti che prima venivano dati per scontato. Così accadde anche nel nostro caso: le emozioni e i pensieri emersi risuonarono tra noi e nelle relazioni con i nostri famigliari per diversi giorni.
A lungo ci interrogammo su quale fosse il mezzo più congeniale per raccogliere in modo più approfondito le loro testimonianze. Secondo alcuni un confronto vis-à-vis avrebbe riempito lo scambio di imbarazzi e silenzi e per tale motivo inviarono un messaggio Whatsapp con alcune domande, intuendo anticipatamente che avrebbero avuto bisogno sia di tempo che di spazio per riflettere sui quesiti e sull’esperienza. Anche in quest’ultimo atto partecipativo, siamo stati piacevolmente sorpresi dalle loro risposte. Eccone alcuni estratti:
Nessuno di noi aveva idea di come sarebbe stata articolata la lezione. Il nostro gruppo di famigliari era composto dai fratelli minori di tre allieve, i due figli e il marito di un’altra. Dopo una breve presentazione dell’organizzazione della giornata, svoltasi in plenaria, siamo stati invitati nella stanza di terapia, consapevoli che saremmo stati visti e ascoltati.
A turno ci è stato chiesto di descrivere il nostro congiunto. Siamo stati poi invitati a riflettere su quali caratteristiche, inclinazioni e interessi possano aver spinto il nostro parente a intraprendere un percorso di formazione come psicoterapeuti.
Ho provato emozioni contrastanti: entusiasmo per la possibilità di entrare in uno spazio riservato della vita di mia sorella, portare lì degli aspetti di lei che reputo intimi e personali, e poterli condividere con persone che la conoscono un modo diverso da me.
Allo stesso tempo timidezza e imbarazzo suscitati proprio da questa condivisione intima, in uno spazio non “familiare”.
L’incontro credo che mi abbia messa più in connessione con l’affetto che provo per lei, con ricordi che avevo accantonato, e mi ha fatto rinascere un piacevole senso di voler stare insieme e condividere, che purtroppo nella vita quotidiana spesso tralasciamo.
Siamo entrate nell’aula come due adulte riservate e (purtroppo) spesso un po’ fredde, e ne siamo uscite con la serenità e il bene che provavamo quando eravamo più piccole.
Ho apprezzato di aver avuto un momento per riflettere su chi mia sorella sia, su ciò che apprezzo di lei, e penso che sia stato utile anche a lei per renderla consapevole di qualità che a volte dimentica di avere.
Mi sarebbe piaciuto avere più tempo a disposizione, o fare qualche incontro in più, per poter andare un po’ più in profondità e conoscere anche qualcosa in più degli altri suoi colleghi.
Ho provato curiosità e imbarazzo. Curiosità per i sentimenti che comunicavano le altre persone nella stanza, imbarazzo quando toccava a me perché dovevo aprirmi davanti a persone mai viste
Ho scoperto che le persone colgono i lati positivi dei rapporti concentrandosi su aspetti diversi
Perché l’analisi delle mie parole sarebbe utile per il percorso di mia sorella?
Ho provato un’emozione di tranquillità e una sensazione di sicurezza tale dal poter parlare di qualunque cosa il flusso di pensieri portasse senza preoccuparmi dell’essere davanti a tante persone. Ho scoperto quanto ascoltare le persone parlare ti possa portare nel loro mondo e ti possa far capire che carattere abbiano, che cosa reputino importante e come reagiscono agli avvenimenti di tutti i giorni. Ciò è possibile facendo attenzione a tono usato, alla scelta di parole, alla gestualità
Come è possibile che le persone possano chiudersi e trovare difficile o strano parlare con uno psicologo? Questa era la mia prima esperienza ma il clima creatosi ha reso tutto così naturale tanto che sono arrivato a dimenticarmi il motivo stesso per cui mi trovavo in quella stanza
Il terapeuta ha infine ringraziato congedandoci proponendoci di concludere con una scultura simbolica beneaugurante. Ognuno è stato invitato a pensarsi come parte di un grande albero (genealogico), a comporlo con i propri corpi scrivendo un breve augurio rivolto al proprio congiunto come futuro terapeuta.
I nostri parenti parlano di curiosità, senza essere mai stati all’interno del Centro Milanese, senza aver forse mai sentito parlare di terapia sistemica e di Boscolo e Cecchin (!). Uno di loro in particolare, raccontò di aver provato “curiosità per i sentimenti che provavano le altre persone” lo stesso sentimento e “motore” del resto, che aiuta il terapeuta a prendersi cura dei suoi pazienti. Un fratello fu colpito dal fatto “che le persone colgono i lati positivi dei rapporti concentrandosi su aspetti diversi”, rendendo evidente quella competenza, propria di ogni familiare, sopra descritta.
Dietro lo specchio: emozioni, scoperte, domande
Questa esperienza è stata un’occasione pratica e concreta per noi allievi in quanto osservatori e protagonisti, di partecipazione ad un processo di co-costruzione di molteplici punteggiature ed esplorare premesse personali. Una nuova voce è stata data ai familiari che hanno partecipato. È interessante riflettere sul potere che idee, costrutti personali, emozioni e ricordi sono in grado di esercitare sulle scelte comportamentali dell’individuo e al tempo stesso come questi costrutti percettivi ed esperienziali possano aprirsi a nuove letture e narrazioni quando l’individuo si apre alla complessità sistemica.
Sorprendente è stata la capacità di analisi e contributo alla conversazione dei familiari che, indipendentemente dalle loro età, sono apparsi osservatori attenti e competenti dei sistemi nei quali vivono. A tutti noi, ognuno di loro è apparso in grado di riflettere sulle alleanze, le somiglianze e differenze dei membri del loro nucleo familiare, rendendo palpabile l’idea sistemica di paziente esperto, detentore di informazioni indispensabili per promuovere il cambiamento.
Dopo aver congedato e ringraziato i famigliari intervenuti è proseguito il debriefing dietro lo specchio. Il didatta ha sollecitato questa riflessione proponendo al gruppo una scrittura riflessiva orientata a dare voce a emozioni, scoperte, domande suscitate dall’osservazione dell’incontro con i famigliari.
Le emozioni hanno preso corpo nella discussione, rubando spesso il posto alle parole e dando vita ad un momento di vicinanza tra gli allievi senza precedenti.
Il tempo della famiglia sul cammino formativo: la voce delle teorie
Questa giornata di formazione ha consentito di esercitare uno degli strumenti a disposizione del terapeuta sistemico: l’autoriflessività, intesa come pratica dell’osservare se stesso in rapporto alle sue premesse, al sistema e alla processo terapeutico. L’autoriflessione è il focus del terapeuta sistemico di oggi, come ieri lo erano le teorie sui giochi familiari, sul doppio legame e sulle lotte per il potere. L’impegno che ieri riponeva nello svelare trame nascoste delle famiglie e nel pianificare strategie per sventarle, oggi lo investe nell’osservare se stesso in rapporto col sistema e con il processo terapeutico (Giuliani, 2019).
In tale prospettiva la conoscenza non è più oggettiva e basata solo sull’organizzazione del sistema, ma si realizza attraverso l’autoriflessività e, quindi, su come ciò che il sistema porta si connette con il clinico, la sua storia e le sue narrazioni. In un’ottica costruttivista, il terapeuta non è più portato solo a chiedersi quali azioni abbiano contribuito a creare una determinata situazione nel sistema, ma come il proprio modo di pensare e osservare possa contribuire a innescare un possibile cambiamento. Implicandosi in esso. Il cuore della terapia non è costituito dal contenuto del pregiudizio, ma dalla relazione tra i pregiudizi del cliente e del terapeuta (Cecchin et al., 1997). Questa attenzione all’autoriflessività e al mondo interiore ha portato, così come emerso nel seminario, alla riscoperta delle emozioni e delle loro connessioni con i significati e con le narrazioni dei terapeuti e dei loro familiari. È apparsa, dunque, come un’opportunità di esercizio di auto-osservazione polifonica, grazie all’intreccio di punti di vista molteplici come quelli espressi da familiari e colleghi. Il gruppo ha reso possibile contemporaneamente un’esperienza di confronto tesa a decostruire le idee date per scontate per produrre narrazioni nuove, addestrandoci a “pensare per punti di vista”. Un esercizio fondamentale nella pratica clinica sistemica.
Gli allievi durante il terzo anno accademico si appropriano, in gruppo e individualmente, di un nuovo spazio di via Leopardi: la stanza di terapia; in cui con la giusta dose di timore, rispetto e voglia di fare, si iniziano a muovere i primi passi.
I primi due anni sono ricchi di apprendimenti delle teorie alla base del Milan Approach. L’apprendimento è fortificato dal confronto con i compagni, membri dell’equipe, così come dalla conoscenza delle teorie e dell’esperienza dei maestri, onde costruire preziose pluralità di punti di vista. Tutto ciò contribuisce fortemente alla costruzione di una identità professionale.
Nel corso della formazione i famigliari occupano uno spazio fisico, psichico e fantasmatico. Incontriamo le famiglie, le coppie e gli individui, riconoscendo e sentendo parti del nostro sistema che si attivano, possibili isomorfismi, differenze e risonanze con le nostre biografie.
Sembra questo il momento temporale, con ritmi e tempi diversi, di potersi mettere in discussione; riconoscere le proprie premesse, accoglierle e sfidarle, riflettendo sulla propria storia personale, famigliare, in ottica sistemica.
Coinvolgere concretamente i nostri famigliari ad un incontro nella scuola di psicoterapia rappresenta all’interno dell’iter formativo qualcosa di inedito, in quanto consente una messa in gioco del tutto nuova che permette all’intero gruppo di esplorare connessioni con la propria storia famigliare narrata dal punto di vista dell’altro, attivando nel profondo la curiosità di sentire la punteggiatura del famigliare che perturba “idee perfette” (Cecchin, Apolloni, 2003) e genera così nuovi apprendimenti.
Un’esperienza simile permette inoltre di sperimentare ulteriori e intime connessioni: tra i membri del gruppo in formazione con cui si svelano reciprocamente parti inedite di sé stessi; col famigliare, verso il quale si nutre gratitudine per il tempo investito e l’intensità emotiva di quel momento.
Si vive dunque in prima persona cosa implichi aprire fisicamente ad una persona per sé significativa, le porte di quella dimensione intima che è la stanza di terapia. In qualità di futuri terapeuti della famiglia, questo connette e stimola consapevolezze in merito a possibili isomorfismi tra vissuto dell’allievo e l’esperienza del paziente all’interno del suo percorso di terapia, consentendo di affinare capacità riflessive e sensibilità al timing, costruire altri significati, scoprire la limitatezza del proprio punto di vista accedendo a quello dell’altro, esplorare la straordinaria complessità (e bellezza) relazionale dei sistemi interagenti “mettendo in scacco il mondo dei significati in cui il cliente di trova immerso” (Cecchin, 2003).
Questa proposta all’interno del percorso di training consente all’allievo di riconnettersi alla propria personale esperienza di membro esperto di un sistema famigliare alla ricerca di teorie, miti e leggende non soltanto in ottica conoscitiva ma anche in virtù di poter rendere accessibile e narrabile il proprio mondo interno, quello relazione e quello simbolico.
L’aver vissuto e condiviso questa esperienza con il gruppo di formazione rende inoltre più accettabili limiti e paure personali, accelera e movimenta il processo di apprendimento consentendo ad ogni membro di potersi riflettere nell’esperienza altrui, nutrendosi di essa, restituendo al sistema terapeutico una visione complessa utile nel processo di cura. Si pone così attenzione all’intera ecologia relazionale, alle strutture che connettono i diversi premesse, modi e stili di osservazione (Keeney,1983).
Sembra utile a questo punto provare a considerare la possibilità e gli effetti formativi dell’introduzione di questo momento come rituale formativo di passaggio all’interno del percorso di specializzazione anche per i successivi allievi affinché tale proposta non li colga del tutto alla sprovvista.
Le emozioni e gli apprendimenti vissuti e descritti in questo articolo possono in qualche modo offrire un rispecchiamento per i successivi allievi favorendoli maggiormente a legittimarsi nel coinvolgere i propri famigliari, percependo al medesimo tempo in conformità con stile della scuola di Milano, la libera e piena possibilità di scelta.
L’effetto attesa potrebbe inoltre stimolare gli allievi a considerare il proprio sistema di origine come caratterizzato da: confini, struttura, apertura, ruoli, miti e credenze, che possono diventare precocemente oggetto di indagine, stimolando così un’autoriflessività costante.
Un altro effetto possibile riguarda il gruppo: l’esperienza vissuta quel giorno, la condivisione e la grande apertura reciproca emotiva ed intima, mette in discussione somiglianze e differenze tra gli allievi, connettendoli in una preziosa danza, una grande polifonia armonica capace di far circolare nuove idee.
L’augurio è che questo momento possa essere vissuto aprendosi alle possibilità formative che comporta, comprendendo la preziosa offerta di lavoro sul sé personale e professionale e soprattutto sia accompagnato e accolto dalla curiosità di esplorare nuove narrazioni.
Bibliografia
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