di Pietro Barbetta
Brabantio: Lasciate dunque che i turchi ci rubino Cipro,
tanto finché sapremo sorridere sarà come se
non l’avessimo persa.
(Shakespeare, Otello, atto 1, scena 3).
Abstract
In questo testo presento la formazione come un’esperienza nomade. Nella prima parte svilupperò alcune questioni sollevate da Heinz von Foerster (1972), Humberto Maturana e Francisco Varela (1985), in particolare, le idee riguardanti l’educazione e l’istruzione, che si domandano intorno alla necessità abbandonare il concetto di informazione, ricorrendo al termine perturbazione, contrapponendo un approccio denotativo-estensivo a un approccio connotativo-intensivo all’apprendimento.
Di seguito, analizzerò la famiglia Loman (nell’opera teatrale Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller), al fine di dare al lettore un’idea di ciò che intendo per analisi intensiva. Nella parte finale scriverò sul Nomadismo nel contesto abituale della formazione all’estero; quando i formatori vanno a insegnare nuove tecniche di terapia senza alcun riguardo e rispetto per il terreno su cui camminano, il contesto storico, i modi di vivere, e le competenze che scoprono lì; in altre parole, sul colonialismo.
Ex-Ducare, una provocazione
L’etimologia di educazione deriva dal verbo latino “ex-ducere”. Il prefisso ex- significa innescare, o estrarre, qualcosa da qualcos’altro, e il suffisso -ducere, da cui Duce, o Doge, indica una posizione di autorità o comando. Educare significa comandare dall’esterno. La relazione tra l’essere e l’alterità è concepita come un’estrazione governata da un Duce, un Maestro che si presume conosca gli arcani di un mondo trascendente. C’è ancora un ulteriore riferimento per la radice educare. Questa seconda radice si riferisce di solito a una seconda modalità di educazione: essere critici nello studio e sviluppare le proprie idee sulla base della Tradizione Europea. Tuttavia, in entrambi i casi, grossolanamente o dolcemente, l’educazione ha il sapore dell’istruzione, come nel volantino allegato ai mobili Ikea per aiutare a montarli, o, nel secondo caso, l’istruzione a criticare come i mobili Ikea siano tanto semplici e inadeguati ad essere accostati a uno stile Rococò tradizionale. La questione importante, qui e là, è non andare fuori strada.
La modernità, a partire almeno da Erasmo, nell’Elogio della follia (2013), ha messo in questione questi due approcci. Il passaggio dal commento alla critica è tipico dell’epoca moderna. Il passaggio da parti funzionali (organi) che devono essere combinate, o assemblate, per costruire l’armadio (organismo), ai frammenti sparsi nel giardino filosofico. Tuttavia, nell’educazione ci deve essere un terzo elemento: il Maestro, o il Doge. Il Doge è colui che garantisce la strada giusta della conoscenza – o della vita – evitando qualsiasi deviazione secondaria o marginale. Sul lato opposto di questa visione, probabilmente seguendo la tradizione di dissenso di Erasmo, c’è la prospettiva sviluppata da Heinz von Foerster nel 1972 con la stesura di un saggio su Instructional Science intitolato “Perception of the Future and the Future of Perception”. Von Foerster era piuttosto eretico, al punto di considerare illegittimo qualsiasi esame tipico, dalla scuola elementare all’università.
Le domande legittime, per von Foerster, sono quelle poste quando nessuno conosce la risposta. Che tipo di educazione viene da un approccio così strano alla lezione? In questo articolo spingo l’eresia di von Foerster un po’ più in là, per fare un passo ulteriore, da Heinz von Foerster a William Shakespeare. La mia provocazione è la seguente: l’educazione è una questione fuorviante; procede da un delirio paranoico. E la inverto in questo modo: vedi i tuoi studenti usare la tua esperienza e la tua conoscenza. Questo è il momento in cui stai imparando qualcosa. Impari dai tirocinanti un approccio dissidente nell’uso dei tuoi strumenti, uno sguardo rovesciato sul mondo.
Il ladro come figura chimerica.
Un ladro viene a casa tua, e lo sorprendi proprio nel momento in cui sta rubando le tue cose più preziose, e gli dici: “per favore, vai avanti, serviti pure finché vuoi”. In realtà, se reagisci così, tutti pensano che sei pazzo. In effetti, questa è un’esperienza contro-intuitiva. Cosa stai facendo se reagisci così al ladro? Stai supponendo che il ladro farà un buon uso delle cose preziose che ti ha rubato. Il ladro sta liberando il tuo denaro dalla condizione di prigioniero in una cassaforte (Bataille, 2000). Ma questa è follia! Passi gli anni della tua vita a mettere da parte del denaro, moneta dopo moneta, euro dopo euro, come nelle storie di Zio Paperone, e il ladro usa il denaro che hai risparmiato per preparare una grande festa con tanta gente, un’orchestra, tanto champagne, come in una festa zingara o nella parte finale dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij.
In poche ore, i tuoi risparmi sono finiti!
Tuttavia, quando si dice: “serviti pure”, in quello stesso momento, il ladro non ti sta più violando, sei tu che trasformi il ladro in una persona che ha bisogno di te per assecondare la sua gioia infinita. Il sorriso della tua viseità crea la singolarità di un evento che nasce dall’interazione. È troppo? Lo so, è difficile, di solito l’incontro con un ladro in casa porta un effetto inquietante di paura e angoscia, non di gioia.
Il clown come identificazione performativa.
È difficile come l’arte dei pagliacci, un altro esempio di sguardo rovesciato sul mondo. Nella clownerie, si impara a far ridere il pubblico sulle differenze del proprio corpo e di quelle che appaiono come difficoltà nei vostri movimenti e gesti. Devi presentarti come una persona non completamente normale, non devi far finta; devi mostrare in pubblico la realtà dei tuoi limiti, delle tue disabilità. Questo è il laboratorio di chi frequenta una scuola di clownerie: la tua intimità, qualunque cosa si intenda con questa parola, deve diventare esplicita, deve essere espressa. Come nell’identificazione performativa (Butler, 2010; Barbetta, Nichterlein, 2010), bisogna mostrarsi strani, bizzarri, sciocchi. Questa è la ragione dell’immagine speculare degli occhi che piangono quando il pagliaccio si toglie il trucco. Un’espressione dissidente.
L’incrocio.
La bottega del formatore è il luogo dove ogni strumento è condiviso e appartiene a chiunque lo frequenti. È una specie di utopia alla Thomas More. Il laboratorio di formazione terapeutica è un’esperienza comunitaria nei minuti particolari. Ognuno di noi è lì per imparare, compreso il Doge (per continuare l’allegoria shakespeariana) che sorride quando il Turco (lo studente) conquista Cipro (il laboratorio) e la usa, a volte meglio di quanto faccia per consuetudine il maestro stesso. Nella tragedia di Otello, la scena non si riferisce solo alla conquista di Cipro da parte del turco. La scena è anche un’allegoria di qualcos’altro: Brabantio deve rispettare il desiderio di sua figlia Desdemona di sposare Otello, un Capitano Moro. Anche questa è un’allegoria dell’allegoria: l’allegoria dell’ospitalità. La speranza dell’ibridazione.
Treno, il veicolo
Cosa hanno in comune i ladri, i clown, gli incroci e la formazione? La formazione è un tipo di ibridazione? Che tipo di prove possiamo mostrare? Sto scrivendo di quasi quarant’anni di formazione al Centro Milanese di Terapia Familiare, iniziata nei primi anni ’80, ad opera di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. Questo treno prosegue da molto tempo, da prima del tempo delle idee post-moderniste. Ciò che può apparire come astrusità parte dalla follia da Erasmo e giunge fino a Gregory Bateson, la chiamiamo complessità. Ricordo che spesso sono rimasto perplesso di fronte alla complessità: una strada che si prende o si lascia, qualcosa che non cerca una coerenza estensiva, ma una coordinazione intensiva.
La formazione ha a che fare con il “treno”. Il treno rimanda al viaggio, al nomadismo. C’è una bella immagine creata da Sigmund Freud (1913/1975, p.238), citata da Christopher Bollas (2009), un parallelo tra terapia e viaggio in treno. Bollas ci dice che:
Freud usò il viaggio in treno come modello per la sua teoria delle libere associazioni: “Agisci come se, per esempio, tu fossi un viaggiatore seduto vicino al finestrino di una carrozza ferroviaria e descrivessi a qualcuno all’interno della carrozza il panorama mutevole che vedi fuori” (p. 10).
Questa affermazione non vale solo per il paziente sul lettino dello psicoanalista freudiano, ma è valida anche per la relazione tra tirocinanti e formatori. Bollas chiama la coppia paziente/terapeuta “coppia freudiana”: il momento stesso in cui l’inconscio del terapeuta si incontra con l’inconscio del cliente, il transfert. Dovremmo pensare alle relazioni multiple in un laboratorio di formazione come un luogo in cui tutti, formatori e tirocinanti, risuonano insieme: risonanza, “moltitudine di Elkaïm” (Elkaïm, 1992). È come un concerto barocco, dove diverse dissonanze creano l’accordo. Dalla musica barocca al jazz la dissonanza è contenuta nella performance, questa è modernità, non c’è bisogno della post-modernità, anzi, meglio evitarla.
Nomadismo
Attualmente, i terapeuti familiari del Centro Milanese di Terapia Familiare incontrano famiglie in condizione di povertà, famiglie europee e migranti, persone post-Covid-19, devastate da ciò che sta accadendo nel mondo, familiari che hanno perso amici e parenti. È una matrice all’interno della quale affrontare le questioni sociali che producono patologia, non solo famiglie, ma famiglie all’interno di un contesto sociale, una comunità inconfessabile (Blanchot, 2002). Per fare un altro esempio pratico: quando attraversiamo l’oceano, abbiamo a che fare con gruppi di anziani “schizofrenici” a Santiago del Cile, ognuno dei quali ha avuto a che fare con la dittatura. Spesso realizziamo interventi etno-clinici con richiedenti asilo Igbo Ogbanje, questi sono solo alcuni dei nostri esempi. Sono molti anni che i terapeuti di tutto il mondo arrivano a vedere il lavoro di Milano. Niente numeri, niente cervelli, o cervelli che producono neurotrasmettitori in relazione alla questione sociale, che affrontano durante la loro vita quotidiana di oppressione in molteplici forme. Non soggetti “fissati”, ma mutevoli espressioni facciali che preformano diverse identità; diversi tipi di soggettivazione.
I tirocinanti e i formatori devono viaggiare, essere curiosi di tutto ciò che incontrano nei loro viaggi, leggere autori nomadi, andare a teatro, cinema, musei, mostre temporanee e, inoltre, creare schemi di connessione tra la teoria matematica dei numeri e la poesia femminile del Sedicesimo secolo, il riscaldamento globale e il popolo Guaranì, le donne anoressiche e i bambini africani. È astruso?
Apparentemente sì, viene dalla teoria del caos, dove un volo di farfalla a Tokyo diffonde un uragano in Arizona. Una visita al Museo Ebraico di Berlino, per esempio, o al Museo de la Memoria y de los Derechos Humanos di Santiago del Cile, è importante per un terapeuta sistemico? Dovremmo fare una connessione tra le persone anziane “schizofreniche” che ho incontrato a Santiago e le immagini/suoni provenienti dalla mostra al Museo della Memoria? Sono tutte esperienze di singolarità, eterotopie: luoghi diversi per esperienze connettive.
Il problema è come mettere questa eterotopia, tutto questo mondo reale che viene dall’esterno, all’interno del processo terapeutico. Come renderci, come terapeuti, capaci di parlare di questa realtà, non evitare di parlare di razzismo, religione, colonialismo, oppressione delle donne, discriminazione, omofobia. Formatori e tirocinanti dovrebbero essere capaci di fare ipotesi temporanee all’interno dell’interazione tra terapeuti e persone che frequentano la terapia, incrociando gli affetti degli altri con i loro affetti.
Le domande circolari e riflessive sono gli strumenti per creare risonanza intorno alla stanza della terapia. C’è bisogno di curiosità, tenerezza e telestesia, che significa: capacità di sentire – in greco aisthesis: sentimento o percezione – a distanza (telos). In altre parole, la terapia deve essere pensata come una trasmissione estetica, una singolarità sociale che si allontana dalla strada principale. Attraverso la famiglia, la terapia incontra la preistoria, la storia, le guerre, le migrazioni, le religioni, le razze, i continenti, i mondi multipli.
Informazione contro perturbazione: il caso della famiglia Loman
L’eredità teorica della Scuola di Milano è il costruttivismo. Per noi il costruttivismo deriva dall’osservazione fatta, in Autopoiesi e cognizione, da Humberto Maturana e Francisco Varela (1985). Essi propongono la parola “perturbazione” – invece di “informazione” – per descrivere ciò che accade quando esseri viventi di qualsiasi tipo si connettono tra loro:
Quando si riconosce che il linguaggio è connotativo e non denotativo, e che la sua funzione è quella di orientare l’orientato all’interno del suo dominio cognitivo, senza considerare il dominio cognitivo dell’orientatore, diventa evidente che non c’è trasmissione di informazioni attraverso il linguaggio (Maturana, Varela, 1985, p.32)
L’affermazione di Maturana e Varela sottolinea l’espressione intensiva della connotazione (Deleuze, 1975). Piuttosto che dilungarci in una spiegazione di ciò che ho capito da questa affermazione, prendiamo un esempio da Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller – la famiglia Loman che va in terapia – per il seguente esercizio pratico.
Esercizio sulla famiglia Loman
Prima facie si disegna il genogramma familiare (informazione denotativa, estesa, lineare). Padre, Willy, circa 65 anni, madre, Linda, 63 e due figli: il maggiore, Biff, di circa 30 anni; il minore, Happy, 28. La famiglia Loman sembra una normale “famiglia minima”: nessun divorzio, o relazioni extraconiugali dichiarate, una coppia che non litigava troppo, composta da un capofamiglia e una casalinga (Dizard, Gadlin, 1992). Apparentemente, l’unica cosa che potrebbe turbare il terapeuta è l’età dei due ragazzi. Sono ancora a casa, un po’ troppo oltre l’età. Tuttavia Happy lavora e non ha “nessun problema con le donne”; sta solo decidendo quale delle “ragazze” che incontra è quella da sposare. Biff, il primo figlio, è tornato temporaneamente a casa dopo un lungo periodo di lavoro come allevatore di cavalli e bestiame nella campagna americana, il lavoro che ha sempre considerato suo preferito, il suo sogno.
Prima ipotesi (denotativa estesiva). Il terapeuta deve capire come aiutare la famiglia, o anche se questa famiglia ha bisogno di terapia. L’idea primaria di un classico terapeuta familiare “ben addestrato” potrebbe essere quella di aiutare i bambini a lasciare il nido. La prima ipotesi è quella di una madre depressa che “ingoia” i due bambini, e manifesta il suo dolore. Questa ipotesi abbastanza semplice viene da un manuale di psicoanalisi lacaniana: la madre coccodrillo.
Durante la seduta il padre Willy si presenta come un uomo che ha lavorato duramente durante tutta la sua vita come agente di commercio, dichiara di essere orgoglioso di se stesso e della sua famiglia, di non aver bisogno di alcuna terapia, e che tutto va, ed è sempre andato, molto bene. Willy continua così: siamo una famiglia molto speciale, io sono Willy Loman, un self-made man che piace a tutti, e Biff è il mio eroe, un ragazzo fantastico. Tuttavia, dietro le sue spalle, Biff mostra un’espressione scontenta. Biff appare arrabbiato e fortemente in disaccordo con quello che dice il padre.
Seconda ipotesi (denotativa estensiva). Il padre è un “mitomane”, la (in)fame diagnosi. A quel punto Biff comincia ad accusare Willy di essere mitomane: “Noi non siamo quello che dici! Non siamo speciali! Siamo come tutti gli altri là fuori! Ho perso tutti i miei lavori perché non sono capace di avere a che fare con gli uomini!” dice Biff.
Questo intervento innesca una terza ipotesi (denotativa estensiva). L’ipotesi riguardante i “sintomi borderline” di Biff, altra diagnosi. Tuttavia, al di là dell’immagine diagnostica estensiva dei singoli membri della famiglia, al di là della diagnosi relazionale riguardante i sintomi di chiunque in interconnessione l’uno con un altro (certi terapeuti familiari sistemici incontrano sintomi, non persone, è questa la “diagnosi relazionale”?), c’è l’intensità di un dramma, lo sforzo del terapeuta di innescare la singolarità di una storia così particolare come quella della famiglia Loman, parte della storia degli Stati Uniti d’America.
Un sistema più complesso di ipotesi (intensità connotativa).
Improvvisamente il terapeuta fa una domanda circolare rivolta a Happy, che fino ad ora sembra essere fuori dalla scena: “Cosa succede quando Willy e Biff litigano così?”. Happy crea una scena relativa a ciò che è successo la notte precedente, l’immaginazione del terapeuta crea una serie di sequenze dell’episodio raccontato da Happy, come se fosse una scena teatrale:
Prima sequenza. Happy descrive una tipica discussione in corso da quando Biff è tornato a casa. Durante l’ultima discussione che i due hanno avuto, Biff stava esponendo a Willy il senso di inferiorità che Biff prova, accusando suo padre di essere un mitomane. Dice: “Io non sono un comandante di uomini, Willy, e nemmeno tu lo sei”. Happy descrive la veemenza di Biff, il suo gesto: l’uso del dito puntato contro il padre, in segno di accusa. In sequenza, la risposta di Willy diretta a Biff: “Tu, vipera vendicativa e irrispettosa!”
Seconda sequenza. Questo così breve resoconto di Happy apre la porta a un’ampia serie di ipotesi sul rapporto tra Willy e Biff, ma anche sul tipo di coinvolgimento di Happy come “contabile” della dinamica della sequenza.
Che dire di Linda, che fino ad ora è “fuori scena”. La seconda sequenza prevede l’inclusione della madre come osservatrice del processo in corso. Linda aggiunge che, dopo la scena descritta da Happy, Biff ha pianto, e quando Willy ha chiesto perché Biff stesse piangendo, lei ha detto: “Ti ama, Willy!”
Fin qui siamo nell’ambito abituale della Terapia Familiare Sistemica di Milano. Questo è uno degli esercizi pratici che i supervisori fanno con i tirocinanti quando non c’è una vera e propria terapia familiare nella scuola. Ripercorriamo insieme una scena teatrale, poi ci sfidiamo tutti insieme, formatori e tirocinanti, a creare domande circolari che siano in grado di innescare una serie immaginaria di sequenze, come nelle sequenze riportate sopra.
Ipotesi come processi intensivi
Più tardi, in una seconda fase, si cerca di creare una complessità estetica intorno alla scena. L’informazione denotativa (cioè il genogramma) si trasforma in perturbazione connotativa (l’intreccio dei corpi all’interno di un dramma). L’estensione si trasforma in intensità. Qui l’immaginazione diventa essenziale.
Invisibilità. Cosa sta succedendo alla famiglia Loman? All’interno dell’ambientazione, appare l’invisibilità: nel caso di Loman, l’improvvisa intrusione del fantasma, Ben, alla fine della scena diventa la parte invisibile e intensa del dramma. L’ipotesi è che Ben possa essere introdotto nella conversazione solo da Willy. È la parte delirante della scena.
Chi è Ben? Ben è il presunto fratello di Willy; allo stesso tempo, Ben è un fantasma. È mai esistito? È il vero fratello di Willy che è andato in Africa e ha fatto fortuna? O è solo un personaggio del delirio di Willy? Una proiezione fantasmatica? Willy, ne è l’alter ego?
Ben diventa improvvisamente parte della conversazione. Durante la presunta conversazione, quando i figli stanno andando a letto e solo Linda e Willy rimangono in cucina. L’unico che vede e ascolta Ben è Willy; tuttavia, Lisa guarda Willy, che sta parlando con Ben, Lisa pensa che Willy stia impazzendo, ma lo tiene nascosto.
Da cui deriva:
Un’altra serie di ipotesi (processi sociali sempre più intensi).
Ben è la proiezione mitologica di Willy su Biff. Ben è andato in Africa, il continente nero, e ha fatto la gavetta, Biff è andato nella campagna americana, per allevare cavalli, e ha fatto il disastro. Quindi, gli unici due della famiglia che possono rivelare tutto questo schema nascosto sono Happy, il figlio invisibile, invisibile come Ben, anche se materialmente presente, e Linda, la donna che ha dedicato la sua vita a Willy. Ben rappresenta anche il fallimento della vita di Willy e il sogno di mantenere una narrazione gloriosa, nonostante il crollo. Prima dell’intrusione di Ben, Biff mostra un tubo che ha preso dalla cantina; rappresenta i ripetuti tentativi di Willy di uccidersi con il gas proveniente dal motore dell’auto. Linda sa tutto, tuttavia la sua abnegazione rispetto a Willy, spinge Linda a coprire tutta questa storia nascosta: il lavoro dell’inconscio che emerge dalla descrizione dell’intensa interazione della famiglia: l’Africa, l’illusione, il fratello che ha fatto fortuna, la caricatura del maschio americano, le “ragazze” di Happy, i fallimenti di Biff, ecc.
Nella Cibernetica dell’Io, Gregory Bateson (Bateson, 1972), mostra la caricatura del self-made man, il soggetto alcolista. Nell’opera di Arthur Miller Willy è l’Io del moderno regime americano dei mutui e delle ratei; sta finendo i pagamenti di tutti i debiti contratti per l’acquisto di casa. L’eroe che finge di essere coincide con il crollo della famiglia e il suicidio. Di fronte a questa storia, immaginando che possa essere una storia nata dalla terapia, il terapeuta deve imparare a piangere e ripetere le parole di Charley, il fratello di Linda:
Non calunniate quest’uomo. Tu non hai capito: Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra. Non sei il tipo che avvita un bullone o mi legge gli articoli del codice o mi prescrive la ricetta. Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo. Da quel momento cominci a sbrodolarti il vestito e addio, sei finito. Non calunniate quest’uomo. Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere. (Morte di un commesso viaggiatore, pp.105-109)
Cosa ci insegna la famiglia Loman nella formazione? Cosa trasmette? La passione? L’intensità? L’affetto? Tutte queste cose muovono la passione del terapeuta, una specie di Sherlock Holmes che sa che non potrà mai scoprire chi è colpevole, perché sa che la trama non riguarda soggetti individuali, ma sistemi sociali, soggetti collettivi. Il terapeuta assume una posizione, assume la vicinanza e la tenerezza; la sua posizione è sempre al fianco delle persone che frequentano la terapia. Tutte queste cose insieme e probabilmente molte di più, sono legate al vagabondare, durante la formazione. È ora di lasciarsi alle spalle la sterilità del familismo. Il minuscolo triangolo denotativo edipico mamma-papà-figlio è definitivamente tramontato, è inquadrato in un prontuario di cliché riguardanti la piccola/media borghesia. Per capire le sfumature del nostro lavoro, dobbiamo affrontare il fatto che il sistema inconscio non è dentro l’individuo, ma è fuori. Riguarda Continenti, Religioni, Razze, Mondi, Generi, Guerre.
Conclusione: Nomadismo e formazione decolonizzante
In questa conclusione fornisco alcuni esempi derivanti da esperienze terapeutiche nomadi nel Mondo, una delle pratiche più importanti del Milan Approach.
In generale, quando un terapeuta senior va in giro per il mondo, è per “supervisione”. Questo significa, più o meno, che il terapeuta supervisiona i terapeuti locali, a volte in presenza dei clienti, a volte no, e, contemporaneamente, trasmette il Verbo ai terapeuti junior. Si suppone che i terapeuti junior siano giovani in formazione, e persone locali che non conoscono le nuove tendenze, solitamente scoperte in Europa o in Nord America. Il terapeuta senior, il supervisore, viaggia da New York, Milano, Londra, Parigi, Heidelberg, ecc. e arriva a Bogotá, Santiago del Cile, Messico, Brasilia.
Nel tipico modo di lavorare del familismo in terapia, il padre è il padre, la madre è la madre, ecc. La questione di essere bianco o nero, povero o ricco, operaio o medico, non interessa o, quando interessa, è completamente scollegata dalla storia o dalle questioni sociali che riguardano la zona in cui si trova il supervisore. Lavorare a Buenos Aires con un crollo familiare avvenuto durante la crisi economica degli inizi del duemila, in Messico con un cosiddetto “ragazzo psicotico” che si presenta come Francisco Villa, o in un carcere minorile di Brasilia, con un adolescente nero devastato dal crack, consiste sempre nell’insegnare quanto siamo bravi “noi europei o nord-americani” a gestire la questione in termini familiari o istituzionali.
Il terapeuta deve solo mostrare come i suoi strumenti funzionino bene in terapia, come è in grado di fare miracoli con le sue competenze. Naturalmente, sto usando il pronome maschile “lui”, perché questo è di solito un gioco maschile, qualunque sia il sesso reale del terapeuta. Se il supervisore va a vedere le rovine di Chichén Itzà, il Cristo di Rio de Janeiro, Québec City, è solo per divertimento. Il fatto reale che, solo come esempio, a Québec City c’è una forte tensione tra la gente di lingua francese e l’area circostante più ampia di lingua inglese, non è rilevante per la terapia, e il semplice fatto che la statua del Cristo a Rio significa la colonizzazione portoghese è completamente marginale per la terapia.
Può il “supervisore senior” essere così umile da cercare di imparare qualcosa che apparentemente non è rilevante per la “psicoterapia”? Come raggiungere le parti nascoste del terreno che il terapeuta sta calpestando? I due esempi che presento qui vengono dal Brasile e dal Messico.
Brasile
L’esempio del Brasile è forse il più contrastante e paradigmatico (Ribeiro, 1995). La storia inizia diversi secoli fa, quando i colonizzatori inglesi, spagnoli, olandesi, portoghesi e francesi, principalmente criminali, iniziarono a rapire persone dall’Africa per essere schiavizzate dai colonizzatori. Una di queste storie riguarda il popolo Yoruba, che, anche oggi, è familiare ai rifugiati africani che incontro durante gli interventi etno-clinici. Una storia orale che si muove tra l’Africa e il Brasile, un legame nascosto. Dopo la colonizzazione, molti Yoruba – che è il nome di un gruppo etnico nigeriano, e anche il nome di una lingua condivisa tra il popolo Yoruba – furono deportati dalla Nigeria in Brasile come schiavi. Un particolare tipo di divinità Yoruba è chiamato Orisha. Quando, durante i secoli Diciassettesimo e Diciottesimo, gli schiavi Yoruba furono costretti a convertirsi al cristianesimo, gli Orisha divennero santi. Se si visita la chiesa di Nossa Senhora da Lampadosa, a Rio de Janeiro, si trova una Madonna nera e una statua del francescano nero São Benedito. Gli schiavi Yoruba hanno plasmato una gran parte della cultura brasiliana, così come un’altra parte fu plasmata dai popoli nativi. Entrambi (nativi e schiavi) hanno avuto conversione forzata al cristianesimo.
In uno dei suoi libri, Eduardo Viveiros de Castro (2011), cita il Sermone dello Spirito Santo, del gesuita Antônio Vieira (1657, in Castro 2011). Vieira, in tale Sermone, contrappone la conversione cristiana in Europa, paragonata a statue di marmo, alla conversione dei popoli “indiani” come statue di mirto:
La statua di marmo è abbastanza difficile da realizzare, a causa della durezza e della resistenza del materiale, ma una volta che è stata modellata, non c’è più bisogno di metterci mano. La statua di mirto è più facile da sagomare, per la facilità con cui si piegano i rami, ma bisogna sempre rimodellarla e a lavorarci di continuo perché rimanga la stessa. (Vieira, in Castro, 2011, pp. 1-2).
Per quanto riguarda gli schiavi africani, si trattava di sincretizzare il cristianesimo con le divinità yoruba, santi e orisha, invece, per il nativo, la sintesi consisteva in un supplemento di credenza sempre nuovo. Entrambe le parti, schiavi e colonizzati, erano profondamente convinti che gli europei avessero qualcosa da insegnare, ma ciò che avevano da insegnare era sbagliato, doveva essere svelato in un’altra forma. Il poeta Oswald De Andrade ha definito questa sintesi brasiliana tra le procedure della cultura nativa, africana ed europea come Antropofagia. Il Brasile è un insieme infinito, che contiene infiniti insiemi di essere (ontologie). La poesia si intitola Manifesto Antropófago (De Andrade, 1928/2007). La poesia dice che l’antropofagia (Greenblatt, 1992, Todorov, 1984) è in realtà un atto d’amore. Di nuovo, come nel ladro, nel pagliaccio, nel meticcio di cui sopra, si realizza un rovesciamento: il Brasile inghiotte, tutti insieme, il sapere dei Nativi, quello degli Schiavi e quello degli Europei, ed emana un assemblaggio differente del modo di vivere una vita, una diversa ontologia. “Tupi o non Tupi”, una nuova versione brasiliana di “To be or not to be” di Amleto. Cosa ne sa il terapeuta “senior” occidentale di tutto questo? Dovrebbe impararlo? È solo folklore, o è importante durante la consultazione consideralo come qualcosa che deve imparare?
Messico
Un altro esempio dell’America Latina che merita il nostro interesse è il Messico. Attualmente, il Messico è uno dei paesi più violenti al mondo. È interessante dal punto di vista delle storie, dei miti e delle narrazioni che hanno versioni contrastanti. C’è un’eredità di violenza nel colonialismo spagnolo e nordamericano.
La storia della Llorona (la donna che piange) è un esempio di questa violenza. Si tratta di un evento femminile, accaduto durante l’invasione spagnola. La narrazione della Llorona è raccontata, nel mondo coloniale, come una variazione della tragedia greca di Medea. Un uomo di rango sposa una donna che è sua pari. Ma prima, quest’uomo aveva avuto rapporti sessuali e condiviso l’amore con un’altra donna. Questi rapporti precedenti hanno generato dei figli. Il tempo passa e mentre l’uomo si prepara al matrimonio con la nuova sposa, Medea, per gelosia e vendetta, (così come la Llorona nella versione coloniale della storia) uccide i bambini. All’interno della narrazione coloniale la Llorona è il ritratto stesso della donna gelosa. Questa storia è un falso brutale, inventato dagli spagnoli e poi dai nordamericani per screditare le donne e la nobile popolazione dei nativi, che furono sterminati prima dagli spagnoli e poi dai nord-americani.
Ciononostante, i popoli nativi conoscono un’altra storia orale opposta: Chiokani è la donna che piange, la Llorona, il nome che ha in Náhuatl. Il nome di Chiokani prima del massacro era Nahui, sorella del principe Teotécpatl. Era una principessa che, nel 1571, il capitano spagnolo Jeronimo Quijano violentò durante il massacro della popolazione di Xochimilco, il popolo a cui apparteneva, come principessa.
Prima del massacro, quando l’esercito spagnolo si stava avvicinando a Xochimilco, Náhui consigliò a suo fratello Teotécpatl di accogliere lo straniero che stava arrivando. L’esercito spagnolo, nell’essere accolto con onore, ne approfittò per massacrare tutto il popolo di Xochimilco. Durante lo stupro perpetrato da Quijano, Nahui rimase incinta. Così dice la vera storia:
Forse la solitudine, la furia o la tristezza sfrenata fu l’esplosione che spinse Náhui a sacrificare ai Signori dell’Intra-Mondo il suo bambino, appena nato. Fu per non dimenticare, e rimanere per sempre a prendersi cura di loro, come Chuacóatl, la madre protettrice del popolo Xochimilca. In questo stesso momento, Nahui divenne Chokani, la madre che piange, un sussurro nel vento, o un fruscio, un ricordo che in Messico non ci sarà mai perdono, o oblio.
Questa seconda narrazione inverte quella europea, che si trasmette negli Stati Uniti, in particolare nelle aree territoriali rubate dagli Stati Uniti al Messico: California, Nuovo Messico, Texas ecc. Se, nel racconto occidentale, La Llorona è uno spirito malvagio, nel racconto dei nativi è la testimone dei massacri, del colonialismo, della pulizia etnica, della crudeltà dell’uomo e dello stupro.
Cosa hanno in comune queste storie con ciò che di solito chiamiamo “psicoterapia”? La psicoterapia è anche uno strumento per contrastare il processo istituzionale di eliminazione della connessione sommersa, e dissidente, tra il mondo sociale e la psiche, il lavoro dell’inconscio. Ascoltando le due versioni della Llorona, quella coloniale dominante e quella dissidente, il terapeuta prende posizione per la narrazione dissidente e accresce il numero dei suoi possibili interventi terapeutici.
Il supervisore dovrebbe avere il coraggio di fare un passo in più: lasciare la strada principale. Se lungo la via maestra la metafora del treno, le coppie freudiane, devono essere le ipotesi scelte, nella formazione dobbiamo far deragliare il treno e continuare lungo linee che non hanno binari.
Il Brasile inghiotte e rifiuta ciò che è stato inghiottito in modo diverso, un nuovo assemblaggio di organi all’interno di corpi diversi, corpi che dobbiamo scoprire. Il Messico è il rovesciamento della consueta narrazione dominante per vedere cosa è realmente successo. Ciò che accade realmente non è necessariamente ciò che è scritto o raccontato. Il luogo da cui stai guardando fa differenza, a volte inversione. Cosa hanno a che fare le storie, come quelle sul Brasile e sul Messico, con la formazione in Psicoterapia Sistemica?
Come nell’affermazione di Bateson: “Il mondo non è per niente così, o per essere più educati: il mondo in cui vivo non è per niente così, e dove vuoi vivere sono affari vostri” (citato in Nora Bateson, 2011). Questa affermazione di Bateson è stata raramente seguita dai terapeuti familiari, che temono sempre di vedersi rubare il loro sapere, il loro potere dai ladri in formazione.
Dio salvi il ladro!
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