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“Caro Gianfranco ti scrivo” / 5

A vent'anni dalla morte, uno spazio per ricordare Gianfranco Cecchin.
Quinto appuntamento: Riccardo Canova e Gianluca Ganda.
Rivista Connessioni 2 Ottobre 2024 4 min read

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A cura di Gianluca Ganda e Walter Troielli

Ognuno ha la sua storia da raccontare con Gianfranco

di Riccardo Canova

Una collega olandese, anni fa, parlando di Cecchin, mi disse: “Ognuno ha la sua storia da raccontare con Gianfranco”.
Questa affermazione al momento mi lasciò perplesso ma in seguito ne capii, così almeno credo, il senso. Gianfranco era capace di stabilire con facilità relazioni con tutti, colleghi, pazienti, allievi e riusciva a far sentire tutti accolti e compresi, trasmetteva il messaggio “tu mi interessi”.
Credo che Gianfranco fosse realmente curioso e interessato all’altro, di cui aveva un profondo rispetto. Il suo era un rispetto attivo che, nell’accezione di Mordacci, significa riconoscimento delle possibilità e potenzialità.
Rispettoso e curioso delle altrui idee e contemporaneamente desideroso di confrontarle, confutarle e soprattutto di sfidarle. Difficilmente faceva proprie le idee altrui. La sua nota irriverenza riguardava più le teorie, le istituzioni non le persone. Era, probabilmente, anche una modalità per mantenere le distanze da qualsivoglia omologazione.
Il pensare sistemico sembrava essere connaturato al suo modo di funzionare. Era in grado di connettere continuamente tutti gli elementi in gioco, sia che si trattasse di una terapia o di una supervisione sia che si discutesse di politica. Poneva e invitava sempre a porre l’attenzione alle conseguenze delle proprie azioni sugli altri e sulla responsabilità che questo implica.
Del suo danzare e delle sue improvvisazioni jazz molto si è detto e molto condivido anche se sono più dell’idea che le sue modalità di conduzione fossero la manifestazione di una grande capacità di muoversi con leggerezza nella complessità.
Leggerezza nel senso calviniano di sottrazione di peso, di alleggerimento, non di faciloneria o superficialità. Nella pesantezza delle situazioni con le quali ci si confronta come terapeuti, leggerezza significa togliere peso senza mai banalizzare, significa pure utilizzare ironia e autoironia ma nel totale rispetto dell’altro, monitorando continuamente i feedback che ci vengono rimandati. Leggerezza significa anche utilizzare un linguaggio comprensibile e leggero. Per sapersi muovere con questa leggerezza bisogna avere anche una grande consapevolezza della pesantezza della vita, di quella del paziente in particolare.
Nella complessità, intesa come interconnessione e interdipendenza, si muoveva con questa leggerezza e, nella totale consapevolezza che non si può né controllare né cambiare gli altri, stimolava il sistema a trovare le proprie soluzioni.

Da lui ho appreso che poter aiutare gli altri bisogna innanzitutto rispettarli, rispettarne le idee, cercare di capire i motivi delle loro scelte, anche di quelle considerate patologiche, per stimolarli a trovare le proprie soluzioni, assumendosi le proprie responsabilità, con leggerezza…
Grazie!

“Catturare un pezzo del tuo pensiero”

di Gianluca Ganda

Cecchin, un grande maestro, dotato di acuta intelligenza e vivida ironia, ingredienti con cui ha ripensato la psicoterapia. Il suo nome risuonerà sempre con ammirazione tra gli psicoterapeuti familiari di tutto il mondo. Noi che lo abbiamo visto lavorare portiamo il ricordo del suo indelebile stile. Chi non ha avuto la fortuna di incontrarlo, si ispira ai concetti che ci ha lasciato.

Una delle qualità più distintive di Gianfranco era la sua irriverenza, che utilizzava per rompere gli schemi e stimolare il pensiero critico. Non si accontentava mai della prima risposta o del punto di vista dominante; cercava sempre una prospettiva alternativa per collegare i comportamenti di tutti i membri del sistema. E per fare questo cercava di mettersi nella posizione delle persone che aveva davanti per trasformare i fatti che sembravano insensati in comportamenti di senso. Continuo a chiedermi come facesse a trovare una armonia dove sembrava ci fosse solo dissonanza. Ora mi dico che riusciva a essere curioso e irriverente per il rispetto profondo che nutriva per ogni essere umano. Unendo irriverenza e rispetto ci ha mostrato che le vite strane e folli si possono accettare: e così diventano eccentriche.

Ricordo la fine del training quando domandasti al gruppo: “Quali sono gli aspetti importanti della sistemica che vi portate via?” Risposi che ero colpito dal rispetto che dedicavamo a ogni persona in terapia, invece che giudicarla o criticarla. Ebbi l’impressione che mi guardasti con un misto di interesse e stupore, come se volessi dirmi qualcosa di più. Poi mi invitasti a continuare a frequentare il Centro. Ho scoperto solo molto tempo dopo che il rispetto era un tema che ti interessava. E ho cercato di scriverci sopra, per cercare di catturare un pezzo del tuo pensiero. Ci sono voluti tanti anni, perché ci vuole tempo per trasformare le idee degli altri in sguardi e azioni proprie. Non sono le tue, è chiaro, ma non credo sia un problema. Tu stesso ci incoraggiavi a fare per sviluppare uno stile tutto nostro, in cui sentirci comodi. Con questo lascito di fiducia e coraggio, ora continuo a interrogarti. Spesso ti chiedo: e qui, come possiamo uscire da queste visioni rigide? In che posizione mi metto per vedere la situazione in un altro modo? E spesso mi rispondo che avere queste e altre domande mantengono viva la voglia di “incontrare” gli altri.

Leggi anche:

Epistemologia Watzlawick: l’esordio sistemico-familiare
Le scuole come comunità di riconoscimento. Una conversazione con Michael White (parte 1)
Note sul film "Coco" (Da Connessioni Nuova Serie, 2018)
Questo non è un editoriale

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