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“Caro Gianfranco ti scrivo” / 4

A vent'anni dalla morte, uno spazio per ricordare Gianfranco Cecchin.
Quarto appuntamento: Elena Patris e Beppe Pasini.
Rivista Connessioni 1 Agosto 2024 4 min read

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(Nell’immagine di anteprima Gianfranco Cecchin con Pio Peruzzi)

A cura di Gianluca Ganda e Walter Troielli

Quanti modi di stare al mondo

di Elena Patris

Quanti modi ci sono di stare al mondo, quante versioni dello stesso tema!
Lo penso alla fine di ogni seduta, con tenerezza verso quello che ci inventiamo per barcamenarci tra le faccende della vita, e credo che abbia molto a che fare col mio modo di incarnare un’appassionata dichiarazione d’interesse di Cecchin: Ditemi come fate. Ditemi come ve la cavate con la vita.
Io non l’ho conosciuto, ahimè, l’ho solo letto, che comunque non è poco. Anche sulla carta, quelle tre parole trasmettono entusiasmo e fiducia per gli invisibili processi riparativi che si muovono dentro a ognuno e che tengono in piedi la vita, persino in mezzo ai disastri. È un’inclinazione a guardare il mondo che ha la forza di una fotografia: dice all’altro che la sua esistenza merita di essere guardata e di entrare nell’infinito catalogo dei modi di stare al mondo. Permette di stare davanti alle sofferenze degli altri, insieme alle proprie, perché aiuta a vedere che non ci sono mai solo quelle, lì davanti, ma c’è l’intera esistenza, tutta intorno, che scorre tra alti e bassi.
In un’intervista che si trova in rete Cecchin esprime soddisfazione per il fatto che la Scuola di Milano sia in grado di formare terapeuti contenti, che non cadono nella disperazione perché riescono a costruire contesti in cui trovare sempre nuove idee. Per me, attraverso queste tre parole passa la possibilità di essere terapeuti più che contenti, terapeuti proprio felici, nel senso etimologico, capaci di dare frutto.

Ricordi con le mani grosse

di Beppe Pasini

Caro Gianfranco con piacere e qualche titubanza ti scrivo fino a dove stai per dirti di quaggiù e di quel che capita. Il mio primo ricordo di te ha le mani grosse. In via Leopardi. Parlavi come un contadino, gesticolando e sorridendo sornione. Semplice, schietto, diretto. Con una cantilena che faceva musicale il tuo intercalare. Coloravi le storie che raccontavi di un gusto antico, conviviale, amichevole. Riuscivi a trovare semplicità e soprattutto ironia in vicende famigliari tormentate e drammatiche. Una piroetta del senso, uno svicolare dalle previsioni, una domanda impertinente e la storia prendeva di colpo una nuova e inattesa versione. Sapevi rimettere la giusta cornice al racconto. Quella del teatro umano e le sue innumerevoli rappresentazioni, durante le quali se il protagonista viene infilzato da una spada, nessuno si alza per chiamare l’ambulanza. Eppure si ride, si piange, si spera per davvero. Da drammi a commedie a cabaret e viceversa. La tua era la magia della vera finzione. Sei stato per me un maestro senza volerlo. Non te ne importava dei proclami, delle lezioni dalla cattedra, delle procedure. Mischiavi tutto di contagiosa sfrontatezza. Con Luigi ti eri inventato una scenografia fatta di specchi, andirivieni, pubblico, sipari, intermezzi e colpi di scena finali. Ci affascinava a tal punto che ci siamo cascati, io per primo, a fare il piccolo “vialeopardino”. Nei primi anni dopo la scuola, mi imposi per avere uno specchio “unidirezionale”, l’equipe e la videocamera. E ci riuscii. Mi sentivo un bravo allievo. Ortodosso quanto bastava. Un vero sistemico. Poi l’ho capito. Forse fu quando ti vidi per l’ultima volta. Sdraiato come se sonnecchiassi, all’obitorio di quella mattina di gennaio vicino a casa. Fui uno dei primi al tuo capezzale. Mi pareva che da un momento all’altro avresti strizzato l’occhio e che sarebbe stata tutta una burla. O forse fu dopo. Compresi improvvisamente che quel modo di fare terapia, era morto con te. Non le idee certo, quelle rimangono. Sentivo che il mio tempo era fuori squadra. Mi chiesi se davvero avevo bisogno di tutta quella messa in scena per aiutare la gente. Una muscolare esibizione di “tecnoterapia”. Proprio noi che non volevamo cambiare le persone. Ci dicevamo. Pensa che di recente ho chiesto ad un gruppo di giovani colleghi quanti utilizzassero nel loro lavoro quel bizzarro setting degli esordi. Nessuno. Chi può pagarsi due, tre terapeuti? Sento anche che la sistemica ci sta stretta negli angusti spazi della clinica e dei suoi pregiudizi. Fuori c’è il mondo reale, nel quale pensare e agire per relazioni è oggi più che mai urgente. Che bello quando invitiamo gli allievi a raccontare quei mondi, che esplosione di possibilità! Così anche io ho fatto una piroetta. Mi sono sbarazzato di tutto e ho preso a inventarmene uno io di teatro. Nel quale giocare, danzare, colorare, scrivere e far scrivere poesie, scattare foto al futuro, aggrapparsi con tutto il corpo alle metafore. Per farne cosa? Qualche protezione temporanea dai venti freddi della folle civilizzazione, qualche pianto e qualche risata insieme. E questo è quanto. Ricordava Bateson. E allora grazie ancora caro Gianfranco! Dentro di me risuonerà sempre il tuo gioioso monito a cercare il nostro originale e felice modo di stare al mondo. Una irriverente eredità.
Con affetto Beppe

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Tags: Gianfranco Cecchin

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