di Arianna Girard
Nella vasta letteratura disponibile il termine self disclosure si riferisce a una vasta gamma di modalità con cui l’analista o il terapeuta rivela i propri pensieri e sentimenti durante il processo terapeutico.
Pizer definisce self disclosureinevitabile quella che occorre quando nel corso di una terapia si verificano eventi nella vita del terapeuta che influenzano la sua vita e quindi la terapia — perché magari comportano un suo momentaneo allontanamento. Ad esempio una gravidanza. Di questo parla Valentina Albertini nel suo libro Lo stato interessante. La gestione del setting clinico durante la gravidanza della psicologa e della psicoterapeuta uscito nel 2022 per Alpes, in cui parte dalla propria esperienza di terapeuta in “stato interessante” per ragionare sulle implicazioni che questo momento particolare può avere nella relazione terapeutica.
Arianna Girard: Valentina, questo libro è stato pubblicato nel 2022, un anno fa e parte da te e dalle tue gravidanze. Quando è nata dentro di te l’idea di trasformare le tue riflessioni in una pubblicazione? Che ipotesi avevi rispetto alla gravidanza e alle implicazioni in terapia?
Valentina Albertini: L’idea è nata non tanto dopo la seconda gravidanza, ma durante la prima. Quando sono rimasta incinta e ho compreso che mi sarei fermata per la maternità, mi sono domandata come avrei dovuto gestire questa situazione perché di sicuro avrebbe comportato grandi cambiamenti nella mia fisicità oltre che nell’organizzazione della mia routine. Da buona ricercatrice, quando non so qualcosa sono abituata a cercare nella bibliografia e così ho fatto: mi ha colpito tantissimo la scarsità totale di materiale trovato. La maggior parte di impronta psicoanalitica parlava tendenzialmente dell’effetto della gravidanza nelle terapie individuali. La mia curiosità è cresciuta sempre di più, partivo dall’idea che un cambiamento così importante non poteva non essere rilevante anche nella stanza di terapia. In una professione esercitata quasi dal 90% da donne, sembrava quasi impossibile che nessuno si fosse fermato a sistematizzare pensieri e riflessioni.
Ho anche pensato che forse la scarsità di ricerche e riflessioni corrispondesse a una scarsità di implicazioni cliniche, ma partendo dalla mia esperienza personale mi sono resa conto che non era così. Mano a mano che la mia pancia cresceva ho visto modificarsi tantissime cose nel setting, anche in maniera a volte veramente significativa.
AG: Che idea ti sei fatta? Secondo te come mai è un argomento così poco trattato?
VA: In parte secondo me il tema della self-disclosure nel nostro mestiere è trattato in una maniera particolare, forse siamo tutti ancora un po’ condizionati dal concetto di neutralità dell’analista, tema che anche prima della psicologia del sé andava molto di moda. Siamo vittime di un retaggio, forse non ci piace parlar di noi e la gravidanza è una cosa estremamente personale. Come terapeuti siamo addestrati a non parlare di noi, ma questa è una cosa di cui non puoi non parlare. Anche se non parli di te fai un agito in seduta perché giorno dopo giorno ti trasformi.
Paradossalmente inviti i tuoi pazienti a parlare delle cose per quello che sono e poi tu diventi una balena e dici “non sta succedendo niente!”. Quindi in parte secondo me esiste ancora una specie di difficoltà teorica.
Poi c’è un tema legato al fatto che la maggior parte degli autori e insegnanti sono maschi. In un convegno, mentre presentavo i risultati della ricerca, prima dell’uscita del libro, un collega uomo è intervenuto dicendo: “che bisogno cioè di farla così lunga? Basta dire: sono incinta!”
Un terzo aspetto rilevante che porta a non trattare l’argomento in letteratura è che secondo me è davvero un momento molto particolare per una donna e forse può esistere la legittima volontà di tenerlo riservato, fuori dalle riflessioni professionali.
Queste sono un po’ le idee che mi son fatta, non per forza in ordine di importanza, diciamo da un livello macro di come funziona in generale la nostra professione a un livello più intrapsichico per cui una donna in stato interessante forse ha voglia di pensare ad altro e non a sistematizzare le riflessioni sulle implicazioni in terapia.
AG: A chi ti rivolgi nel tuo libro, cosa ci può trovare dentro il lettore?
VA: Io penso alle colleghe che stanno avendo una gravidanza, perché un po’ ho pensato che le difficoltà che ho trovato io forse potevano essere incontrate anche da altre professioniste. Le risposte delle colleghe alle interviste sono state estremamente interessanti.
Oltre a ciò che ho riportato nella pubblicazione, con la diffusione del questionario ho raccolto molte impressioni a latere che mi hanno fatto pensare che in qualche modo si stava dando voce a qualcosa di cui aveva senso parlare. Alcune persone mi hanno ringraziato, altre hanno sentito il desiderio di aggiungere elementi soggettivi dei propri vissuti contattandomi, per dire “io ho avuto una gravidanza e l’ho vissuta male nel setting e la tua ricerca mi ha dato l’opportunità di sentirmi meno sola”.
Mi rivolgo anche alle colleghe in formazione e che stanno affrontando l’avvio della professione, intimorite dalla possibilità di perdere pazienti con l’arrivo di una gravidanza e un figlio. Vorrei inviare un messaggio in qualche modo di rassicurazione: con una gravidanza cambiano tante cose, ma non succede niente di “grave”, si può continuare a lavorare. Quindi mettendo un po’ insieme queste cose, scrivendo il libro ho pensato alla “me” in quel momento. Ho scritto quel libro che avrei voluto leggere ma che non c’era.
AG: E che non c’era durante le mie gravidanze! Oggi mio figlio maggiore ha 9 anni, la seconda 6 e entrambe le gravidanze sono avvenute durante la mia formazione al CMTF. Oggi mi sento un po’ lontana da quella dimensione, eppure ho trovato molto utile la lettura del tuo libro, perché mi capita di avere colleghe in formazione che stanno affrontando questo “periodo interessante”. Per la “me” di adesso, è stato importante rispolverare questo cambiamento, per entrare in relazione con loro e tenere in considerazione che non c’è un unico modo per affrontare questo cambiamento e che i risvolti nella relazione terapeutica possono essere molteplici. In questo mi è servita molto anche la lettura dei tuoi casi: come ci sono tanti pazienti differenti, ci sono anche tante terapeute differenti con pance differenti…
VA: Infatti è uno dei motivi per cui, quasi come battuta, dico che questo libro potrebbe essere letto anche dagli uomini! Anche un supervisore maschio è importante che si ponga alcuni interrogativi. Colleghi uomini che l’hanno letto mi hanno poi dichiarato che a fronte delle riflessioni scaturite, le pance delle terapeute hanno acquisito un valore differente all’interno della supervisione e in relazione a quello che può succedere nel setting.
AG: Nel libro dici che la ricerca che hai fatto è un punto di partenza. Quale futuro ti immagini? Stai continuando a raccogliere dati? In che modo stanno evolvendo le riflessioni che hai fatto?
VA: La mia speranza è che le terapeute portino la pancia come oggetto di attenzione e che venga accolta come tale, d’altronde si lavora sui vissuti dei pazienti, ma anche noi terapeute abbiamo un nostro background.
Il libro ha sollecitato tante richieste formative e di supervisione sulla tematica.
Mi rendo conto che io stessa nel fare supervisione ho un occhio di attenzione in più su questo tema e riesco ad utilizzarlo come moltiplicazione dei punti di vista, il che mi aiuta tantissimo. Ho imparato che chi chiede supervisione sul tema della gravidanza forse si sente un po’ come mi sentivo io all’inizio. Per chi si rivolge in supervisione per altro ma è incinta, la pancia può diventare occasione molto profonda di ragionamento e trasformazione, anche di analisi del controtransfert. Anche in situazioni in cui la terapeuta decide di non voler portare in terapia l’argomento ritenendolo privato e il paziente invece stressa questa dimensione, diventa interessante lavorare sulle resistenze sia dei pazienti sia delle terapeute.
Il futuro che vedo è oltre che nella supervisione, anche nella formazione. Per esempio sto collaborando con un ente in cui molte psicologhe lavorano nell’ambito dell’adozione. Quando hanno la pancia, questa diventa una tematica potentissima. Come racconto anche nel libro, con alcune coppie che hanno avuto difficoltà nella procreazione e che si rivolgono al terapeuta per questo, la gravidanza della terapeuta dimostra e mostra un qualcosa che implica per il paziente un potenziale fallimento. Si tratta di una sorta di presentificazione della femminilità e della fertilità.
In conclusione del libro dico che è un libro femminile ma anche femminista, nel senso più ampio del termine. Vorrei che la gravidanza nella relazione terapeutica diventasse un valore aggiunto, qualcosa di cui si possa parlare, per l’appunto uno stato interessante e che le terapeute possano viverla come una cosa in più da usare anche nel setting, che possa aiutare e non intralciare. Quindi in questo senso il futuro che immagino è che diventi uno spunto di riflessione e aiuto, per quanto mi rendo conto essere un lavoro parziale…
AG: Ecco, a tal proposito, abbiamo imparato che percepiamo sempre una parte e mai il tutto, provando ad allargare lo sguardo, andando oltre a ciò che il libro contiene, cosa pensi che non c’è e che vorresti aggiungere?
VA: Forse mi piacerebbe ampliare e lavorare di più sullo spazio del congedo per maternità: è un tema che mi rendo conto di aver trattato poco ma che rappresenta tanto. Forse mi sono soffermata poco anche perché io non l’ho avuto lungo, addirittura il secondo è stato durante il lockdown, quindi un congedo obbligato e collettivo che nella relazione terapeutica mi ha aiutato, perché le terapie erano tutte ridotte.
Confrontandomi con alcune colleghe che hanno fatto scelte di congedo molto più lungo, mi sono resa conto che hanno effetti diversi sul setting terapeutico. Andare in maternità a tre mesi è molto diverso dall’andare a 8 o 9 mesi con una pancia “evidente”.
Sempre grazie a riflessioni condivise mi è stato detto che avrei potuto fare un lavoro anche sui padri. Diventare genitori di fatto cambia la vita e quindi anche quella del terapeuta uomo, che può cambiare molto diventando papà. Si tratta di un cambiamento più intrapsichico, che però ovviamente entra nella relazione con il paziente.
Argomento molto interessante, ma la mia è stata una scelta di campo, ho voluto parlare del femminile e non del maschile, della pancia e della gravidanza.
AG: Per quanto riguarda l’epistemologia, l’approccio sistemico relazionale, in che modo ti ha aiutato a leggere il fenomeno?
VA: Nella nostra formazione lavoriamo con le coppie e con le famiglie e la gravidanza è un tema strettamente connesso con questo, mentre nella poca letteratura che ho trovato questa dimensione non era considerata, perché centrata sull’analisi delle implicazioni in casi di terapie individuali.
Lo sguardo sistemico mi ha permesso di mantenere una visione allargata anche al contesto. Un altro argomento importante che avrei potuto approfondire maggiormente è l’effetto della gravidanza nella relazione tra colleghi nel lavoro di rete: la pancia cambia le relazioni e l’approccio degli altri verso di te, non solo del paziente. A volte in un’ottica un po’ protettiva, a volte, se vuoi, anche un po’ svalutativa. E in questo l’approccio sistemico aiuta a tenere in considerazione questi aspetti, più di quanto possa fare un approccio più intrapsichico.
AG: Nel libro parli di transfert, controtransfert, concetti più psicodinamici che sistemico relazionali…
VA: La sistemica affonda le sue radici nella psicoanalisi e rispetto ad altri orientamenti strategici, cognitivo comportamentali che non tengono troppo in considerazione gli aspetti legati al transfert e controtransfert, l’approccio sistemico mi ha aiutato ad avere uno sguardo sulla dimensione intrapsichica, per quanto non tanto quanto possa fare uno psicoanalista.
Le risposte al questionario parlano chiaro: nel momento in cui ho indagato le differenze tra le risposte date da colleghe di differenti approcci ho rilevato che più del 50% delle rispondenti apparteneva ad orientamenti psicodinamico e sistemico-relazionale e forse questo non è solo un caso. Per entrambi gli orientamenti la relazione terapeutica e la gestione degli aspetti transferali hanno un peso significativo nella pratica clinica, posso quindi immaginare che l’indagine svolta sulla gravidanza possa aver catturato maggiormente la loro attenzione.
Paradossalmente colleghe di altri approcci sembrano aver posto meno attenzione sui cambiamenti che potevano avvenire nel setting terapeutico a fronte di una gravidanza in corso, cosa che ho raccolto anche in alcuni corsi di formazione. Per alcune colleghe che adottano terapie strategiche brevi di cinque sedute o altre che seguono protocolli specifici, la pancia ha avuto di fatto un impatto inferiore nella relazione terapeutica.
AG: In che modo hai adottato le lenti sistemiche nell’osservare la self disclosure in questo specifico momento di vita della terapeuta?
VA: Ovviamente noi sistemici col passaggio alla cibernetica di secondo ordine l’idea della neutralità “psicoanalitica” l’avevamo già distrutta negli anni ‘80. Nella nostra formazione ci insegnano subito che siamo parte del sistema osservato e il punto di osservazione lo modifica. Quindi questo è stato forse uno degli insegnamenti che quando ho visto che sarei cambiata ho tenuto ben in mente. Mi sono chiesta: che cosa succederà? Visto che io sono parte del sistema, che cosa accadrà a questo sistema? Mi sono sentita predeterminata ad osservare i cambiamenti. Nella letteratura che ho studiato tanti aspetti inerenti la self disclosure li ho trovati più rigidi rispetto al nostro approccio, quasi prescrittivi. La primissima psicoanalisi, la neutralità totale, lo schermo bianco, sono cose che non ci sono mai appartenute. I nostri pionieri, tanti di loro, basavano la terapia anche sulla presenza fisica e corporea. Io ho visto Minuchin a Roma, ci faceva vedere le terapie fatte il giorno prima: quando entrava nella stanza cambiava il clima. Le mie lenti sistemiche mi hanno fatto domandare: che cosa sarebbe cambiato con la mia gravidanza in terapia? Perché che qualcosa sarebbe cambiato lo davo per scontato, essendo io, con il mio corpo, parte del sistema terapeutico. E la scoperta di che cosa avveniva è stata un viaggio…
AG: In che modo lo studio per la scrittura del libro ti ha aiutato nell’affrontare la seconda gravidanza?
VA: La letteratura su alcuni temi mi ha preparato, per esempio sull’osservare emozioni forti, come la rabbia e l’aggressività dei pazienti. Socialmente non siamo abituati a pensare che l’essere incinta possa produrre aggressività nell’altro. Qualora la si provi molto spesso è un’emozione che si cela. Cosa che non accade solitamente in terapia, quando il paziente sente di potersi comportare ed esprimere i sentimenti che prova, anche quelli meno “socialmente accettati”. Studiando la letteratura mi sono preparata, ho drizzato le antenne ed ero pronta a cogliere anche questi segnali per lavorarci in terapia, cosa che è avvenuta, come riporto in alcuni casi trattati nel libro.
AG: Quanto sei cambiata nella scrittura di questo libro, come terapeuta?
VA: Più che nella scrittura, sono cambiata attraverso le gravidanze. Ho la percezione di essermi ammorbidita. Sempre Minuchin diceva che siamo tutti pro figli finché siamo figli, poi quando diventiamo genitori diventiamo pro genitori. Un po’ l’ottica mi è cambiata e alcuni interventi in cui mi sentivo di poter essere più prescrittiva, poi una volta che ci sono passata dentro anche io ho sentito di capire maggiormente alcuni vissuti dei pazienti. Succede nella vita che man mano che ti evolvi comprendi… così è accaduto anche nella mia professione.
Sono diventata molto più brava anche nella mia organizzazione e nella capacità di gestire l’agenda. Non sono più la terapeuta che ero prima, senza dire di essere migliore, ma si è trattato di un passaggio di ciclo di vita molto importante, anche perché ci sono arrivata tardi, con una serie di obiettivi già raggiunti, consapevolezze già elaborate.
AG: Se volessimo sintetizzare, qual è il messaggio che vuoi inviare alle lettrici e ai lettori?
VA: Alcuni casi che ho incontrato nella mia esperienza sono stati particolarmente complessi e hanno avuto un’onda molto lunga, penso ai pazienti con disturbi borderline di personalità attivati dalla tematica dell’abbandono. Nel libro tratto alcuni casi difficili, vorrei che fossero spunto di riflessione per le colleghe, spero che possano sentirsi quindi meno sole ad affrontare situazioni analoghe.
Ma vorrei anche inviare un messaggio di incoraggiamento, di sostegno alla femminilità. Il nostro ruolo professionale, quello di terapeuta, non ci impedisce di avere una vita. Si può fare! Come si organizzano le agende, così si può far rientrare anche una gravidanza. Anche Wonder Woman può allattare!
AG: Sono molto d’accordo con te e il fatto che sia tanto d’accordo mi fa scattare un campanello d’allarme: non stiamo rischiando di costruire un’idea perfetta — alla Cecchin — di “terapeuta in stato interessante”?
VA: Nel libro sottolineo proprio il contrario. Chiudo il libro sottolineando che nella maternità, come nel nostro lavoro, non ci sono prescrizioni. Quando si diventa mamme si cercano libri e manuali per diventare “bravi genitori”, quando alla fine, come dice Winnicott, è importante essere “sufficientemente buoni” per funzionare. E questo vale anche nella cura e nella terapia, si deve essere “sufficientemente buoni” per funzionare bene nella relazione. Se punti ad essere “ottimo” corri il rischio dello scivolamento narcisistico che è dietro l’angolo.
Il mio contributo vuole essere tutt’altro che prescrittivo, non vuole essere in nessun modo un manuale, ma un contributo supportivo: alcune mattine ti sembrerà che non ce la fai, altri giorni dirai “wow, come ce l’ho fatta bene!” e come nella maternità devi solo pensare che la terapia è un processo in cui è importante esserci in maniera più onesta possibile rispetto anche ai tuoi limiti. La direzione verso cui tendere è l’accettazione della creazione di una relazione.
Nel libro non dico cosa bisogna fare, piuttosto suggerisco spunti di riflessione, dove la parola d’ordine è il “dipende”: si può fare questo o quello a seconda di come ci si sente. Per esempio; quando dire al paziente di essere incinta? All’inizio, alla fine, meglio lasciare che lo scopra lui? Su questo la letteratura è variegata, quindi vuol dire che va bene più o meno tutto, ma è importante che la scelta emerga dalla relazione con il singolo paziente. Che sia, quindi, un invito a crederci e a provarci, che non è necessario rinunciare a nulla, né alla carriera, né alla famiglia se lo si vuole.
Foto di Heather Mount su Unsplash