di Fabio Sbattella
Sofferenze personali e mindset condivisi
In un recente articolo abbiamo discusso un protocollo terapeutico sperimentato con successo in alcuni casi specifici. Si tratta di situazioni perturbate da pensieri controfattuali invadenti e confusivi, che assorbono tutte le energie mentali, in un disperato quanto inutile tentativo di riscrivere un passato finito male (Sbattella, 2021). In particolare, risultano patogeni, in situazioni di lutto e gravi danni irreversibili, pensieri controfattuali ascendenti del tipo “se avessi agito diversamente (o non agito del tutto), quella persona oggi sarebbe ancora viva”. Dopo aver discusso le molte sfumature di questi pensieri (e la loro formulazione in termini di domande, che creano in circuiti viziosi di ideazione ossessiva), abbiamo in quel lavoro argomentato i motivi per cui esse possono minare la salute mentale e abbiamo illustrato un percorso possibile per “uscire dalle sabbie mobili”. Sebbene tale percorso fosse descritto nelle forme di una psicoterapia individuale, già in quelle righe si sottolineava il fatto che il pensiero controfattuale supera la mente dei singoli, prendendo le forme di uno schema di pensiero collettivo, soprattutto in seguito ad incidenti gravi, singoli o collettivi. Anche nel caso discusso, a cui rimandiamo (Sbattella, 2021), veniva evidenziato come le domande generate dal singolo paziente, erano poste autorevolmente anche da avvocati e assicuratori, all’interno di una vicenda processuale che si svolgeva parallelamente all’intimo processo mentale del paziente. In queste pagine, dunque, desideriamo approfondire la trattazione del discorso, esplorando il ruolo e la fortuna che il pensiero controfattuale ha nella nostra cultura e fornendo alcune osservazioni critiche per un suo uso consapevole.
Controfattuali e contesto culturale
Sebbene le domande, le asserzioni e i processi di pensiero controfattuali siano assai diffusi e siano studiati da millenni, non bisogna presumere che tali fenomeni siano insensibili ai diversi contesti culturali, almeno per intensità e frequenza. Molti, tra i pazienti che abbiamo aiutato a liberarsi da queste trappole mentali pensavano che le domande controfattuali fossero universali e inevitabili, considerando il fatto che esse sembravano sorgere “spontaneamente” nella loro mente e risuonavano in modo simile anche tra le persone del loro contesto più prossimo.
Non abbiamo trovato, nelle ricerche consultate, dati sulle differenze di frequenza in diversi contesti culturali, tuttavia, possiamo portare la nostra esperienza clinica internazionale a supporto dell’ipotesi che alcune differenze esistano. Limitatamente ad accadimenti eccezionali e disastrosi (incidenti mortali ed eventi traumatici) abbiamo costatato che in culture più “fataliste” come, ad esempio, quella Tamil, le domande controfattuali “spontanee” sono assai più rare e comunque meno pregnanti (Sbattella, 2020). In contesti in cui le persone ritengono di aver minor possibilità di controllo sugli antecedenti degli eventi, minore è il senso di responsabilità e meno diffusi sono i sensi di colpa. Per altri aspetti, questa serenità è accompagnata dalla consapevolezza che il corso degli eventi di un’esistenza è solo parzialmente nelle mani dell’uomo: Dio, la natura, il destino o il caso svolgono la loro parte.
Nella cultura occidentale, questa consapevolezza è decisamente diminuita, nonostante autorevoli scienziati ricordino continuamente che esiste un’ampia quota di imprevedibilità nella vita (Taleb, 2014) e che le scienze “esatte” si basino sistematicamente sulle probabilità statistiche, a loro volta fondate sul presupposto che esista il caso e quindi i processi causali non seguano linee di necessità deterministica. Non è possibile, tuttavia, aiutare in Italia persone intrappolate nel vortice dei pensieri controfattuali, se non si considera il ruolo giocato, nell’indurre e sostenere la sua sofferenza, dal contesto culturale. Per farlo, dovremo esplorare alcune questioni in ambito giuridico e mass mediale.
Le domande che si pongono le vittime dirette e indirette di eventi potenzialmente traumatici sono molto simili a quelle che si pongono i magistrati e gli avvocati in tribunale. Con strumenti, tempi ed emozioni assai diverse, anche in contesto giuridico vengono sviluppati pensieri controfattuali e questo fatto non è di poco conto, se i pazienti sono anche implicati con qualche ruolo nel processo legale. Potremmo chiederci in che misura i dibattimenti in ambito giuridico condizionano le priorità e gli stili di ragionamento delle persone coinvolte. In modo circolare, potremmo anche chiederci se l’apparato della giustizia non faccia che assumere e trattare in modo rigoroso domande controfattuali proprie dell’animo umano, in certi contesti drammatici.
Fatto sta che, nell’ordinamento giuridico italiano, l’uso del pensiero controfattuale è consentito ed utilizzato per giungere ad attribuzioni di responsabilità ed eventualmente di dolo o colpa. Conoscere questi aspetti, ed i limiti che la stessa filosofia del diritto riconosce a queste prassi, è importante, anche per poter sostenere chi si senta stritolato da una macchina istituzionale complessa e per alcuni aspetti misteriosa.
Va dunque ricordato che l’articolo 40 del Codice Penale Italiano, Comma 1 afferma che “una persona non può essere ritenuta colpevole per un reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”. Una persona non può dunque essere ritenuta responsabile per eventi che non ha causato con le sue azioni o omissioni, o che non era in suo potere evitare.
Frequentemente, dunque, l’analisi della causalità, in ambito giuridico, si fonda sul ragionamento controfattuale, che cerca di stabilire il tipo di nesso causale che lega azioni personali ed eventi (Santoro, 2015). Una prima ricostruzione narrativa di come si siano svolti i fatti permette di avanzare ipotesi su diverse linee di concatenazioni causali lineari e sviluppare poi un ventaglio di ipotesi plausibili differenti, da confrontare. Si cerca infine di capire se l’evento causato sia una conseguenza intenzionale o almeno prevedibile della condotta delle persone coinvolte.
Classicamente, un nesso causale è stabilito se la condotta messa in atto era una condizione necessaria, senza la quale l’evento dannoso non sarebbe accaduto. Si tratta evidentemente di un criterio di tipo controfattuale. Il criterio di causalità necessaria stabilisce un parametro assai stringente per tali giudizi e viene applicato tramite un processo di eliminazione: “un’azione è condizione necessaria per un evento, se non può essere mentalmente sottratta senza che l’evento cessi di esistere” (Santoro, 2015).
Formulare un verdetto non è però così semplice e non a caso richiede l’integrazione di molte analisi e punti di vista: l’esito di un processo è sempre frutto di un graduale e reciproco aggiustamento tra diverse narrazioni, plurime spiegazioni causali e differenti attribuzioni di responsabilità. Anche gli studiosi di diritto riconoscono alcuni limiti di questo modo di ragionare. Un più ampio criterio, di causalità necessaria e sufficiente dovrebbe essere in grado di giustificare l’imputazione di responsabilità anche in casi in cui si rilevano conseguenze non intenzionali delle azioni. Ad esempio, nei casi di omicidio colposo, in cui la colpevolezza non dipende da un intento doloso (Wright, 1991). Sono questi i casi risultanti da una condotta negligente, imprudente o agita senza perizia. I casi di negligenza e imprudenza sono situazioni tipiche in cui questo tipo di ragionamento viene utilizzato. In questi casi, la domanda non riguarda tanto quale elemento causale avrebbe fatto la differenza se le cose fossero andate diversamente. Non ci si domanda neppure se l’autore avesse un motivo per agire come ha agito, ma piuttosto se l’agente avesse una comprensione di ciò che è accaduto come qualcosa che era in suo potere evitare e se era in grado di concepire una ragione per non compiere quell’atto.
In questo senso, è illuminante una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha rigettato un verdetto che era stato emesso a carico di due medici accusati di aver omesso una diagnosi, che avrebbe forse permesso di salvare la vita ad una paziente. I periti avevano stabilito che una diagnosi corretta avrebbe avuto una probabilità superiore al 59% di impedire la morte del paziente. I legali dei due sanitari contestavano il fatto che una tale probabilità fosse sufficiente ad escludere il dubbio ragionevole che la morte sarebbe giunta lo stesso, visto che c’erano almeno il 41% di probabilità di morte. La Corte di Cassazione ha concordato sull’ipotesi che non si potesse affermare con certezza la presenza di un nesso causale tra omissione e morte della paziente. Ha colto l’occasione per precisare che per effettuare un giudizio controfattuale è necessario ricostruire con precisione la sequenza fattuale che ha condotto all’evento e chiedersi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato. Vanno anche escluse l’interferenza di fattori intervenienti alternativi. Non è inoltre possibile dedurre da una stima di probabilità la conferma dell’esistenza di un nesso causale.
Si può dunque comprendere che anche in ambito giuridico, il pensiero controfattuale abbia in primo luogo una funzione euristica, nella ricerca delle cause, e non esaurisce la dinamica di valutazione dei fatti e delle responsabilità.
Queste cautele nell’utilizzo del delicato strumento controfattuale sono generalmente e volutamente ignorate dai mass media, che raramente si fanno scrupoli nel sollevare e diffondere miriadi di ripetitive domande controfattuali. Davanti a incidenti, disastri e catastrofi è facile coinvolgere il pubblico ipotizzando scenari e dubbi controfattuali in quantità spropositata. Molti processi e attribuzioni di colpe si svolgono così ora prima e fuori delle aule giudiziarie e senza le stesse garanzie di correttezza e rigore logico. Lo schema di ragionamento controfattuale è di gran moda in questi contesti, per svariati motivi. Essendo impossibile falsificarne le conclusioni, è difficile essere accusati di falsità: si tratta pur sempre di congetture fantasiose. In secondo luogo, negando i fatti e aprendo migliaia di narrazioni possibili si ottiene un ampio e prolungato coinvolgimento delle fantasie del pubblico.
Movimenti aggressivi verso chi è ipotizzato come responsabile di azioni o omissioni vengono tuttavia facilmente elicitati, facendo credere che ogni evento tragico sia sempre frutto di dolo o colpe personali e tutti i comportamenti umani siano sempre vigili, consapevoli, informati, competenti e controllabili. Tali assunti di base, diventano devastanti quando sono introiettati e le persone si trovano ad essere il peggior giudice possibile di sé stessi.
Domande controfattuali e ricerca scientifica
Per ampliare il quadro del ruolo che il pensiero controfattuale ha nella nostra cultura, non va dimenticato il fatto che esso è utilizzato anche in ambito scientifico e letterario. Metodologie controfattuali sono usate, ad esempio, per simulare processi organizzativi, interventi sociali, economici ed ecologici, dopo aver però messo a punto modelli complessi di interdipendenze causali tra le variabili in gioco (Martini, 2006). Un premio Nobel è stato addirittura attribuito nel 2019 ad alcuni economisti (Duflo e Banerjee del MIT, Kremer di Harvard), che hanno proposto il metodo controfattuale come strategia sperimentale per valutare l’efficacia degli interventi umanitari. In verità, la metodologia utilizzata da questi ricercatori prevede l’assegnazione randomizzata di alcuni soggetti confrontabili a gruppi che saranno esposti o meno ad interventi di aiuto per lo sviluppo (randomized controlled trial). I risultati conseguiti dai gruppi non esposti, vengono poi utilizzati (al termine dell’intervento) come indici di riferimento (benchmark) rispetto a cui confrontare i risultati conseguiti dai gruppi esposti (Duflo, Banerjee, 2017).
Anche a livello storiografico, è stato discusso se usare il pensiero controfattuale come metodologia di analisi storica. Black e Mac Raild (2007) hanno proposto, ad esempio, di sviluppare congetturare su ciò che non è accaduto, o cosa potrebbe essere accaduto in certi periodi storici, per capire meglio quello che è realmente successo. Il metodo storico controfattuale cerca di esplorare gli incidenti storici individuando una linea temporale in cui alcuni eventi storici chiave non si sono verificati o hanno avuto un esito diverso da quello effettivamente accaduto. Alcuni storici ritengono questa metodologia inappropriata e antistorica, perché parte dalla negazione dei fatti (Tucker, 2004). Altri evidenziano come il lavoro immaginativo permetta di creare modelli, in grado di simulare dinamiche e dunque acquisire conoscenze utili per processi simili in futuro (Ferguson, 2008). Questo approccio si avvicina al genere letterario della storia speculativa o ipotetica (basata sulla domanda “What if?”), ben conosciuto dalla storia della letteratura fantascientifica. Sulla base dell’ipotesi che la storia del mondo abbia seguito percorsi alternativi a quello reale, gli autori di questi romanzi generano narrazioni fantastiche, chiamate ucronie. Ne sono esempi la raccolta di Squire (1931), ripubblicata in Italia nel 2002 e i romanzi La svastica sul sole (Philip K. Dick, 1962) e Gli anni del riso e del sale (Stanley Robinson, 2002). O ancora, molti film come, per esempio, Delitto di stato (Menaul, 1994), 2009 Lost Memories (Si-myung, 2002), Timequest (Dyke, 2002). Questi ultimi estendono su vicende storiche le trame controfattuali utilizzate, ad esempio, anche in Sliding doors (Howitt, 1997) e Mr. Nobody (Dormael, 2009).
Letteratura e cinematografia sono dunque altre fonti che arricchiscono l’abitudine e la capacità dei singoli di immergersi nelle fantasie e nei meandri del pensiero controfattuale. Una posizione consapevole e critica verso le posizioni culturali che influenzano i modi di pensare dei singoli può dunque essere utile, per lo meno per superare l’idea che questo sia l’unico modo per ragionare su alcune sfide cruciali della vita.
Psicologia e pensiero controfattuale
Anche in ambito psicologico, il pensiero controfattuale è stato oggetto di molte ricerche sperimentali, a partire dagli anni ’80. Esse hanno cercato di comprendere quali siano le variabili che ne influenzano l’attivazione e successivamente quali funzioni svolgano nella dinamica della psiche. Riguardo il primo filone di ricerca è stato chiarito il ruolo giocato dalla dimensione di eccezionalità/normalità degli eventi e della loro controllabilità/non controllabilità; la differenza tra ipotesi controfattuali basate su antecedenti di omissioni o di azione; il ruolo delle dimensioni temporali (Rim, Summerville, 2014). Si è così compreso, ad esempio, che la frequenza di pensieri controfattuali e la numerosità degli scenari ipotetici generati è maggiore se gli antecedenti sono più facilmente modificabili e se il soggetto pensa che avrebbe avuto le competenze per farlo. Inoltre, più inaspettato è l’evento e più forte è la reazione emotiva suscitata. Spesso, poi, le persone si interrogano maggiormente su eventi rari ed estremi, piuttosto che su eventi della vita quotidiana (Kahneman, Tversky, 1982) e sulle azioni piuttosto che sulle omissioni, sugli antecedenti dell’evento più recenti, piuttosto che su quelli precedenti in una catena causale. Le persone tendono a sviluppare pensieri controfattuali quando esistono circostanze eccezionali che hanno portato all’evento critico e quando esse avrebbero potuto essere normalmente evitate. Le domande controfattuali relative al proprio comportamento sembrano essere più diffuse rispetto a quelle focalizzate su ciò che altre persone avrebbero potuto fare o non fare (Milesi, 2003). Gli psicologi sociali hanno anche studiato il ruolo delle domande e delle argomentazioni controfattuali in contesti sociali collettivi. In ambito dialettico, il pensiero controfattuale è conosciuto come un’argomentazione retorica spesso efficace, proficuamente utilizzata anche in ambito politico (Catellani, Milesi, 2011).
Per completare il quadro sulle funzioni psicologiche del pensiero controfattuale, va detto che la ricerca ha anche sottolineato le sue potenzialità positive: in quanto espressione dell’immaginazione, esso è in grado a volte di sostenere processi creativi e di regolazione comportamentale. Questo avviene, ad esempio, nel caso di fallimenti intercorsi in eventi che possono ripetersi, come gli esami universitari o le gare sportive. Il pensiero controfattuale ascendente può, in questi casi, avanzare ipotesi sui comportamenti che si sarebbero potuti mettere in campo, per ottenere risultati meno deludenti. Se gli scenari ipotetici sono formulati in modo addizionale (cioè immaginando quali azioni avrebbero potuto causare prestazioni migliori) è possibile, ad esempio, aumentare la motivazione a studiare o allenarsi di più, dopo una sconfitta (Markman, Gavanski, Sherman, McMullen, 1993). Per questo, l’analisi controfattuale è anche proposta come strumento sviluppare apprendimenti: ipotizzando azioni diverse rispetto a quelle che hanno prodotto fallimenti in passato, si può tendare di generare strategie d’azione innovative.
Anche la linguistica ha fatto alcune precisazioni: il pensiero controfattuale si esprime con frasi catalogate come periodi ipotetici del terzo tipo, cioè periodi ipotetici dell’irrealtà. Essi sono caratterizzati in italiano dall’uso del congiuntivo trapassato, seguito dal condizionale semplice: se in passato avessi (o non avessi) fatto, ora sarei (o non sarei) o dal condizionale passato: se in passato avessi (o non avessi) saputo, in seguito non avrei fatto (o non fatto). Pensieri controfattuali impliciti sono sottesi spesso anche all’uso di avverbi come quasi e per poco, ad esempio nelle affermazioni: “sono riuscito ad entrare per un pelo”, “ero quasi vicino al successo” “ho rischiato per poco di cadere”.
La conoscenza di questi indicatori linguistici può facilitare, nell’ascolto, l’individuazione dei pensieri controfattuali che si sviluppano nella conversazione.
Una storia per concludere
Al fine di illustrare come le conoscenze sopra sintetizzate possano essere utili all’interno di un processo terapeutico, desideriamo concludere queste riflessioni con l’esempio di una narrazione storica, intrecciata con domande controfattuali e altre domande.
Si tratta della narrazione che spesso utilizziamo durante la terza fase del protocollo messo a punto per gli interventi clinici in questo campo (Sbattella, 2021). La sua concretezza e pregnanza emotiva facilita un forte radicamento nella memoria di immagini di riferimento, utili ad attivare domande alternative a quelle controfattuali disturbanti.
“Narrano gli storici che durante la Prima guerra mondiale, un giovane apolide e senza dimora, di nome Adolf, cercò in tutti i modi di farsi arruolare nell’esercito bavarese, ardendo di rabbia e desideri distruttivi. Il giovane riuscì alla fine a farsi accettare, come volontario. Adolf Hitler partecipò dunque alla Prima guerra mondiale come staffetta-portalettere, come è chiaramente documentato dalla la sua biografia (Weber, 2010). Il 28 settembre 1918, durante la carneficina di un assalto alla trincea di Marcoing, sul fronte francese, Hitler si trovò inaspettatamente, dentro ad una buca, davanti al fucile puntato di un soldato del plotone d’assalto del Reggimento Duca di Wellington (inglese). Il giovane inglese non fece fuoco, impietosito dall’insignificante caporale tedesco, disarmato e ferito. Fu forse per questo trauma che Hitler sviluppò ulteriori idee deliranti, credendosi immortale ed esponendo per anni, nel suo nido d’aquila, un quadro relativo a quella battaglia. Hitler, inoltre, utilizzò forse questo episodio in termini di propaganda, affermando che gli inglesi erano autori della loro stessa sventura: se l’avessero ucciso quando ne avevano l’occasione, i bombardamenti su Londra non ci sarebbero mai stati. Si narra poi che Henry Tandey, il soldato pluridecorato, protagonista dell’episodio, fu individuato su iniziativa di Chamberlain in persona e successivamente intervistato nel 1940, da un giornalista del Sunday Graphic. Dopo il devastante bombardando tedesco su Coventry, gli fu chiesto se, davanti a quella distruzione, non fosse pentito di non aver ucciso Hitler, a suo tempo. Così egli avrebbe potuto rispondere: “nel cuore di quella battaglia feci quello che è mio dovere come soldato: sparai a chi mi aggrediva, ma non tolsi la vita ad un uomo inerme, stordito, sanguinante e disarmato. Se il caporale non ha saputo trarre il giusto insegnamento da questo atto etico, la responsabilità è sua. Così come sua e solo sua è ora la responsabilità di aggredire la popolazione civile ed inerme, nelle nostre città”.
Questi episodi, verificati da autorevoli storici (Johnson, 2014), sono ritenuti in parte una leggenda metropolitana. Nella narrazione terapeutica, sicuramente non sono verificate storicamente le parti in corsivo, che costituiscono una nostra reinterpretazione originale del senso della vicenda. La vivida narrazione ad uso terapeutico prosegue poi con una postilla, finalizzata a radicare ulteriormente nella memoria dei pazienti l’invito a non frequentare troppo il pensiero controfattuale:
“Credete fosse dunque sensata la domanda “se qualcuno avesse ucciso Hitler da giovane, la Germania non avrebbe scatenato una guerra così crudele?”. Molti storici ritengono che anche senza Hitler, la guerra fosse comunque inevitabile, per molti motivi. Inoltre, se Hitler non fosse salito al potere, (grazie anche alle SS che nel 1934 realizzarono la sanguinosa purga nota come “Notte dei lunghi coltelli”, eliminando i vertici delle SA), negli anni successivi, Ernst Julius Günther Röhm, colonnello generale delle SA, forse avrebbe fatto di peggio (forse…).
Gli storici seri sottolineano, però, che con i se e con i ma non si studia la storia e del senno di poi sono piene le fosse”.
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