Libro di Silvana Quadrino
Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2019
Letto da Walter Troielli
A chi non è mai capitato di sentirsi frustrato, ignorato, non capito dopo un colloquio con un medico? Alzi la mano chi non si è approcciato ad una visita o ad un incontro sfiduciato, partendo già scoraggiato perché tanto, si sa, “i medici sanno tutto loro” e “comunque tanto chissà se si spiegherà o ci ascolterà”. O al contrario, perché no, alzi la mano il medico che prima di dover incontrare un paziente non si sia sentito in difficoltà perché tanto “quel paziente non ascolta, non segue le indicazioni, ne vuole sapere più lui”.
Ecco, se vi siete trovati in una (o in altre) situazioni come quelle elencate qui sopra, allora “Il dialogo e la cura”, libro che Silvana Quadrino pubblica per Il Pensiero Scientifico Editore, potrebbe essere il libro che fa per voi e meritare il vostro interesse, visto che tratta proprio della spinosa questione della comunicazione tra curante e curato: come dice il sottotitolo stesso, si occupa de “Le parole tra medici e pazienti”.
È un libro coraggioso perché parlare di comunicazione, cura e parole e farlo collocandosi in un contesto assolutamente specifico come quello del rapporto tra medico e paziente, non è una scelta così facile o scontata, soprattutto in un momento storico in cui “dialogo” è spesso una parola drammaticamente sul baratro della vacuità e del disuso, una sorta di reperto storico buono per psicologi stregoni o nostalgici idealisti.
Silvana Quadrino, psicoterapeuta, formatrice ed esperta di medicina narrativa, (trovate qui alcuni riferimenti https://www.silvanaquadrino.it/) mette invece in questo lavoro tutta l’esperienza di chi da anni opera in questo campo, con la piena e completa consapevolezza di come la comunicazione sia mezzo e strumento che può costruire o rendere impossibile l’incontro tra un curante e il proprio assistito. Ma non solo, ci sentiamo di aggiungere.
Tutti i capitoli si aprono con una citazione introduttiva e il primo, in particolare, si apre con quella che corrisponde pienamente a una dichiarazione di intenti: “Che cos’è questa parola ambivalente, questa parola valigia che entra in gioco in ogni forma di discorso (…)?” (Eugenio Borgna, 2015). La parola in questione, che può essere di volta in volta piena, vuota o dotata di un significato mutevole a seconda delle diverse circostanze, è proprio “comunicazione”; ecco allora che viene subito tracciato il fil-rouge lungo cui si snoda tutto il volume.
Da qui in poi, in una sorta di meta-riflessione che rimanda costantemente a se stessa, come nel classico gioco delle scatole cinesi, in un continuo rimando tra livelli logici, classi ed elementi, Silvana Quadrino si dedicherà nei vari capitoli a scomporre, ricomporre, esemplificare e riflettere sulla costruzione del senso, sul significato e sulle implicazioni che “comunicazione” può assumere nel difficile, complesso (a volte complicato) rapporto che si instaura (e non instaura) tra i curanti e i pazienti.
L’autrice si concentra di volta in volta sui diversi aspetti che rendono la comunicazione e il rapporto di cura fluido o impossibile, incagliato su blocchi comunicativi, ruoli o posizioni rigide che impediscono l’accesso reciproco al mondo semantico e relazionale che paziente e medico portano inevitabilmente con sé nel loro incontro, finendo per favorire circuiti bizzarri di comunicazione che a loro volta ricadono pesantemente nel processo di cura.
Il dialogo è fatto di scambio, di conoscenza reciproca, di capacità di ascolto; comunicare e dialogare non significa semplicemente “dire” o “passare informazioni”; questo anzi può sbilanciare la relazione in una dimensione asimmetrica da cui emergono due figure: quella del medico-sapiente che passa informazioni a qualcuno che deve ascoltare e obbedire, e il ricevente che appunto occupa una posizione sostanzialmente inferiore e passiva. Questo fatto, che rimanda a una epistemologia che prevede una relazione di tipo top-down nel percorso cura, è alla base di quelle situazioni dove il medico non ascolta ciò che l’altro ha da dire e dove il paziente, a sua volta, si porta a casa un senso di vuoto e frustrazione che poi minerà tutto il percorso di cura successivo, con ricadute sull’efficacia e sulla cosiddetta compliance.
In questo senso l’autrice porta numerosi e diversi esempi di situazioni in cui, pur di fronte a evidenze cliniche inequivocabili e ineludibili, il paziente sceglie misteriosamente di non aderire alla terapia, senza tuttavia che si trovino a primo impatto spiegazioni plausibili: informazioni passate frettolosamente, con disattenzione, manualisticamente allontanano, creano distanza e disaffezione. Laddove si inneschi invece un meccanismo comunicativo virtuoso circolare che porta medico e paziente ad ascoltarsi e a riconoscersi nelle proprie unicità e specificità, allora si avvia una relazione che apre alla costruzione di percorsi efficaci perché condivisi e costruiti sulla realtà specifica di ogni singolo paziente. Sono diversi e numerosi in tutto il volume gli esempi di incontri tra paziente e medico che offrono una carrellata di momenti a volte drammatici e a volte ironici, in cui sarà facile riconoscersi o trovare richiami a situazioni professionali e personali vissute dal lettore.
La dimensione dialogica della cura però va anche oltre la “semplice” relazione a due curante/curato, estendendosi sistemicamente agli ambienti di vita dei pazienti, alle loro famiglie, alle storie di cui ogni individuo è portatore, matrice, narratore più o meno consapevole. Silvana Quadrino così allarga il proprio sguardo all’impatto che la malattia e la comunicazione della malattia hanno sui sistemi di vita dei pazienti, (non a caso un paragrafo si intitola “Curare con la famiglia”) per sottolineare come proprio questi stessi sistemi possano essere portatori di rimandi, idee e significati relativi alla cura (“a chi appartiene la cura?”), veicolati dalle parole che possono aiutare a creare una relazione di cura funzionante se il medico saprà coglierle, ascoltarle e ri-giocarle nella relazione con il paziente. Sul finire del libro troviamo proprio questa frase: “Le parole che utilizza il paziente sono la guida migliore per scegliere i termini e le espressioni più adeguate a quel particolare momento di comunicazione”.
Proseguendo nella lettura del libro, vengono presentati anche diversi strumenti e tecniche che possono facilitare il medico nella costruzione di una comunicazione efficace con i propri pazienti, come ad esempio la tecnica dei tre passi. Attraverso un eloquente parallelo con l’arte marziale dell’Aikido che sfrutta a proprio vantaggio la forza dell’altro, l’autrice propone questa tecnica come uno strumento per arrivare a impostare una comunicazione efficace proprio partendo dall’accettazione di base di ciò che il paziente porta nell’incontro con il medico. Più avanti si trova un riferimento al protocollo SPIKES (acronimo che significa Setting, Perception, Invitation, Knowledge, Emotions, Strategy; Buckman e Bailee, 2000), indicato come un possibile mezzo per gestire situazioni in cui ci si trovi a dover comunicare “cattive notizie” ai pazienti, attraverso una serie di passaggi che aiutano ad attivare azioni comunicative volte a creare situazioni meno traumatizzanti e più “ecologiche” possibili.
La parte centrale del volume viene dedicata al passaggio dal “dire” al “fare” (capp. 5 e 6) con un’attenzione particolare a due concetti “classici” degli studi sulla cura e sulla comunicazione: la motivazione al cambiamento e alla cura. In un paragrafo dall’eloquente titolo “I tempi della motivazione” che non può che richiamare immediatamente alla memoria “I tempi del tempo” (Boscolo, Bertrando,1993), Silvana Quadrino riprende gli studi classici di Prochaska e Di Clemente (1982) per calarli però in una dimensione narrativa e dialogica che trascende la rigida divisione in passi del classico schema tanto presente negli studi universitari, arrivando invece a delineare un processo di co-costruzione condiviso tra medico e paziente dell’alleanza terapeutica basata sul rispetto e riconoscimento dei tempi di ciascuno dei partecipanti al processo stesso.
Merita attenzione particolare la riflessione contenuta nel capitolo 8 dal titolo “Il cosa e il perché: alla ricerca della diagnosi”, in cui emerge, in modo quasi irriverente, l’importanza che può rivestire per i pazienti una diagnosi in termini di riconoscimento della propria condizione. Anche se una ampia parte della clinica e della teoria sistemica fin dalla sua stessa nascita si è dedicata a rivedere e a destrutturare il concetto di diagnosi (sul tema esiste una bibliografia pressoché sterminata: in questa sede è sufficiente richiamare l’articolo “Il problema della diagnosi da un punto di vista sistemico”, Boscolo L., Cecchin G., Psicobiettivo 3, 1988 e il divertente ed eloquente “La diagnosi di psicoterapeuta”, P. Bertrando, Connessioni, 5, 1999), in questo capitolo ci troviamo quasi di fronte a un processo “in difesa della diagnosi” in cui si riconosce come davanti all’ignoto rappresentato da una malattia “la funzione della diagnosi consiste appunto nel fornire un nome a questo misterioso (…) qualcosa (…) con cui chiamarlo” (Balint, 1990). In questo caso però la diagnosi non è “etichetta” che chiude ma un qualcosa che calato all’interno di un rapporto di ascolto e conoscenza tra medico e paziente, diventa “parola” che apre, uno strumento per ri-conoscere una condizione dell’altro dal quale partire per creare una narrazione condivisa che aiuti ad accettare la malattia e che permetta poi di accedere a un possibile percorso di cura condiviso.
Viene forse da domandarsi, in alcuni passaggi, “ma allora questo povero medico, schiacciato dalle incombenze del lavoro, dalla moltitudine di pazienti, dalle ansie e dalle difficoltà degli stessi, deve diventar anche un po’ psicologo?”, ma la risposta è assolutamente no e questo l’autrice lo sottolinea molto bene e chiaramente: “il compito del medico non è quello di (…) correggere le dinamiche (delle famiglie), ma quello di facilitare la ricerca di nuovi equilibri (…) per evitare che il terreno della cura diventi il terreno di scontro e conflitto anziché alleanza”.
In questo viaggio che passa attraverso territori diversi e differenti, ritrovando concetti e autori classici calati in contesti moderni, dove si può spaziare da Bateson a Saramago a Watzlawick, incontrando situazioni che sollevano qualche sorriso pensando a colleghi sussiegosi ma poco propensi all’ascolto, l’approdo è quello della medicina narrativa, una medicina che ha ben presente le proprie basi scientifiche ma che non abdica all’ascolto e all’incontro con il paziente. Un libro per molti (medici) ma non solo; richiamo possibile a chiunque si occupi di ascolto, cura e incontro: “una delle cose cui rinunciare è l’obiettivo impossibile di far cambiare le persone semplicemente dicendo loro di cambiare”.