di Luigi Boscolo
Introduzione e adattamento di Massimo Giuliani
Nei mesi successivi alla vicenda di Novi Ligure (ricorderete: era il febbraio del 2001 quando la sedicenne Erika e il suo — per usare l’espressione che ricorreva nelle cronache — “fidanzatino” Mauro detto Omar, uccisero la madre di lei e il fratellino di quattro anni), Luigi Boscolo fu invitato da un giornalista a commentare il fatto.
Probabilmente quella vicenda, assieme a quella altrettanto sconvolgente di Cogne che arrivò poco dopo, segnò l’esordio di alcuni personaggi che sarebbero diventati in breve piuttosto popolari, cioè psichiatri e terapeuti che nei talk show dicevano la loro sui fatti di cronaca più impressionanti, e che sull’onda di quell’attenzione mediatica si sarebbero conquistati una credibilità come fustigatori dei costumi e della perdita di “valori”.
Dall’archivio di Jacqueline Pereira Boscolo emergono ora gli appunti che Luigi Boscolo aveva raccolto, e che per quanto ne sappiamo — e per quanto ricordi la stessa Jacqueline — non ebbero seguito. Li abbiamo ripuliti e riorganizzati ed ora li offriamo alla vostra lettura.
Qual è l’interesse che riveste oggi questo testo?
È la testimonianza di qualcosa che poteva essere e non è stato, cioè l’ingresso di uno dei Maestri del Milan Approach nell’olimpo degli psicoopinionisti che scuotono gravemente il capo sui tempi che viviamo? Per carità, no.
È un oggetto che rinnova il nostro piacere di ascoltare la voce di Luigi e consola la nostra nostalgia delle giornate passate con lui ad imparare? Un pochino — abbiate comprensione — sì.
Ma soprattutto, è uno scritto che testimonia di un principio che Luigi Boscolo applicava alla sua osservazione del mondo, oltre la stanza di terapia. Cioè la cognizione che delle famiglie che studiamo non si può parlare se non al condizionale e con la consapevolezza di non avere altro che ipotesi. Questo ne fa un esempio di una via per la divulgazione che tiene presente che una disciplina scientifica – la nostra, almeno – prima ancora di essere un insieme di risposte, è un modo di scegliere le domande.
Alcuni passaggi andrebbero studiati e insegnati ai nostri allievi. Certamente quello, sul finale, in cui offre un’idea molto preziosa ai terapeuti che avessero preso in carico in carcere i due ragazzi. E poi quello in cui fa giustizia di una tentazione che da allora avrebbe riempito ogni giorno il dibattito pubblico su questi fatti di cronaca: la tentazione di trarre, da queste vicende tanto particolari ed eccezionali, indicazioni sullo stato di salute della società. Ma eventi così singolari possono essere compresi più col microscopio del terapeuta che con il telescopio del sociologo. E l’articolo di Luigi Boscolo, infatti, non intende dire qualcosa sui valori, sulla famiglia, sugli adolescenti e sul loro rapporto con i genitori: semmai, dice molto sul modo in cui un terapeuta guarda ai valori, alla famiglia, agli adolescenti e al loro rapporto coi genitori.
Lo sguardo sulla famiglia
Il delitto di Novi Ligure è avvenuto nella famiglia, ha coinvolto tutta la famiglia, e la famiglia è l’ambito di cui noi ci occupiamo da più di trent’anni.
Anche davanti a questa nuova vicenda nei media le analisi, i giudizi dei giornalisti e le interpretazioni di specialisti mi sono apparsi più o meno plausibili. Ad esempio mi è piaciuto il lavoro svolto dal settimanale l’Espresso subito dopo il fatto, e il giudizio degli esperti che sono stati interpellati. Hanno individuato alcuni punti per illustrare una delle dinamiche più probabili.
Però, per dire anch’io qualcosa sull’argomento, devo fare delle premesse.
La prima premessa: nel nostro lavoro operiamo non con il concetto di verità, ma con quello di plausibilità. Facciamo delle ipotesi che connettono i dati raccolti nel corso della seduta familiare, ipotesi che vengono continuamente testate attraverso domande seguite da risposte verbali e non verbali da parte dei membri della famiglia. Le risposte ci permettono di valutare la plausibilità delle ipotesi; ovvero, l’avvicinamento ad eventuali “realtà” − che noi mettiamo sempre tra virgolette.
La seconda premessa: qualsiasi teoria è riduzionistica in relazione ai problemi e ai sistemi di cui ci occupiamo… e noi ci occupiamo di sistemi complessi. In tali sistemi ogni comportamento è multideterminato, in diverso grado, da fattori biologici, psicologici e sociali (si veda Maturana, Varela, 1984).
All’inizio degli anni settanta, la prima equipe di ricerca sulla terapia di famiglia di cui facevo parte con Mara Selvini, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata (Selvini Palazzoli et al., 1975), adottò il modello sistemico-strategico di terapia familiare breve di Palo Alto (Watzlawick e coll., 1967; si veda anche Haley, 1974). Tre anni dopo, la lettura di Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson (1972), aprì per noi un mondo nuovo, il mondo dei sistemi e della cibernetica, i cui principi applicammo allo studio e alla terapia della famiglia. Da ciò nacque il cosiddetto “Milan Approach” o Modello di Milano che ha ottenuto notevoli apprezzamenti anche all’estero (Hoffman, 1981; Jones, 1993).
Fino agli inizi degli anni ottanta, lavoravamo con il modello della cibernetica di primo ordine, cioè con la cibernetica del sistema osservato: nel lavoro con la famiglia cercavamo di scoprirne le modalità organizzative, le alleanze le coalizioni, i segreti. Questo lavoro presupponeva la separazione del sistema osservante (terapeuta) dal sistema osservato (la famiglia), che permetteva di giungere a una conoscenza oggettiva corrispondente ad una realtà senza virgolette.
In seguito Heinz Von Foerster (1982) introdusse il concetto di cibernetica di secondo ordine o cibernetica del sistema osservante, detta anche cibernetica dell’autoriflessività, che mette in primo piano l’osservatore che, con i suoi pregiudizi, teorie, esperienze, costruisce e descrive la “realtà” osservata. L’attenzione si spostò dallo “scoprire” una realtà esterna, all’“inventare” la realtà; si passò quindi dalla visione oggettiva alla visione soggettiva, cioè alla riflessività. La realtà divenne una “realtà” con le virgolette (Boscolo, Cecchin, Hoffman e Penn, 1987; si veda anche Boscolo e Bertrando, 1996, e Boscolo et al., 1991).
L’influenza dei pregiudizi e delle teorie del – o degli – osservatori può essere illustrata da una ricerca condotta da Gregory Bateson e dai suoi collaboratori negli anni cinquanta. Una stessa famiglia fu sottoposta all’indagine e al giudizio di dieci esperti diversi, in maggioranza psichiatri, a ognuno dei quali, separatamente, fu chiesto di esprimersi sulle caratteristiche principali della famiglia e di formulare una diagnosi. Tutti gli incontri furono filmati e accuratamente analizzati. Ebbene, non solo furono fatte diagnosi molto diverse, ma la stessa famiglia sembrava diversa in rapporto all’esperto che di volta in volta la intervistava.
È come nelle degustazioni alla cieca: ognuno trova nel vino qualcosa di differente, o addirittura crede di bere un altro vino. Il vino cambia in base alla personalità del soggetto che lo beve e alle circostanze: se è solo o in compagnia, se è triste o allegro, se lo beve al pasto o fuori pasto… In tal senso la verità è soggettiva. Invece nella verità oggettiva è bene credere se si è ingegneri o architetti, altrimenti le macchine non funzionerebbero e i ponti e le case crollerebbero.
Nelle scienze sociali, cioè nel mondo delle idee, dei significati e dei comportamenti, l’epistemologia è diversa che nelle scienze “dure”, come nella fisica, nella chimica o nella biologia. Nel nostro lavoro con le famiglie c’è uno scambio di idee e di punti di vista all’interno dell’équipe terapeutica. L’incontro del consulente o del terapeuta con la famiglia avviene in una stanza separata per mezzo di uno specchio unidirezionale da un locale più ampio (la stanza di osservazione), dove sta il resto dell’équipe terapeutica o – in una seduta di formazione – il gruppo di allievi. Ovviamente la famiglia viene informata sul nostro modo di lavorare. Se non accetta, l’incontro con il terapeuta avviene in un’altra stanza, in assenza di osservatori.
Nel corso della seduta il terapeuta, una o due volte, si incontra con il gruppo dietro lo specchio per uno scambio di idee e di punti vista che confluiscono in ipotesi che vengono testate particolarmente con domande del terapeuta. Il lavoro in équipe e la pluralità dei punti di vista permettono di rispondere con più efficacia alla complessità del sistema familiare, specialmente nei casi gravi.
Una tragedia maturata nella normalità
In base all’esperienza maturata in simili contesti terapeutici, il caso di Novi Ligure in un certo senso si distingue per la sua unicità: o meglio, ci sono pochi casi analoghi rispetto ai milioni di famiglie esistenti. Essi provocano grande sgomento e clamore nell’opinione pubblica. Ma sono casi non comuni. Non è che si legga ogni giorno di genitori che uccidono i figli o di figli che uccidono i genitori. E quando accade ci scuote, ci mette in crisi. Tutti apparteniamo a una famiglia e ci chiediamo con angoscia: può accadere lo stesso anche a noi? Quanto diversi siamo da questa tragica famiglia?
Il massacro di una mamma e di un fratellino compiuto con il proprio “fidanzato” ne fa un caso più eccezionale degli altri, mi si passi l’espressione. Tutti i giornali e riviste, anche stranieri, hanno pubblicizzato il caso. Ma l’eccezionale c’è da aspettarselo nella complessità delle relazioni umane, c’è da aspettarselo anche secondo le teorie della probabilità.
Una critica che posso fare su certe valutazioni fatte sui giornali e alla TV è sul prendere questo caso e farne un esempio degli effetti negativi dell’attuale cultura, caratterizzata dalla caduta dei valori, dal permissivismo, dall’edonismo e dalla violenza, rappresentata diffusamente al cinema e alla TV.
Non è da qui che partono molti commentatori? Io penso che queste spiegazioni piuttosto generiche non siano sufficienti. Efferatezze simili sono accadute in altri periodi storici. Ritengo che la via che più ci può condurre alla comprensione di eventi simili è l’indagine nel contesto familiare, l’analisi delle relazioni dei membri della famiglia e le loro storie.
È interessante, a questo proposito, riportare una convinzione di Gregory Bateson: il disagio e la malattia mentale nell’individuo non sarebbero causati dalla mancanza di amore o di potere, ma, di senso nella relazione con le persone significative del proprio contesto relazionale (Bateson, 1972, 1979). Le figure più importanti, specialmente nell’infanzia, sono ovviamente i genitori e i fratelli. La ricerca di un senso nella relazione con loro può essere frustrante e impossibile come nella relazione paradossale descritta dalla teoria del doppio legame di Bateson e coll. (1956, in 1972) in cui prevale la disconferma della persona.
Credo che la radice di molte tragedie familiari abbia questa origine. In seguito avanzerò una mia ipotesi sul caso di Novi Ligure che si ispira a queste considerazioni. È un caso talmente eccezionale che le spiegazioni sociologiche sono insufficienti.
Un certo carattere di eccezionalità è dato anzitutto dalla classe sociale in cui è maturato l’episodio. Se fosse accaduto in una famiglia caotica di periferia che presenta una storia di alcolismo da parte del padre, o di droga o di violenza in una condizione di povertà, si potrebbe parlare di “ereditarietà”. Mi riferisco con questo termine alla trasmissione transgenerazionale, nelle famiglie, di specifici comportamenti come l’abuso sessuale, il bere, la violenza.
Pensiamo che i comportamenti e i modi di pensare delle persone siano – in parte – l’espressione di quella che è chiamata eredità sociale. Anche le famiglie “perbene”, le famiglie “sane” in parte ereditano comportamenti tipici di queste famiglie. Se indaghiamo nelle storie trigenerazionali, quadrigenerazionali, vediamo che in una famiglia abbastanza “sana”, con persone abbastanza mature ci sono simili comportamenti nelle generazioni precedenti.
Se pensiamo alle somiglianze dei membri della stessa famiglia, la trasmissione dei caratteri somatici avviene nel corso di diverse generazioni, attraverso i geni; mentre la trasmissione dei comportamenti e degli aspetti psicologici avviene attraverso le relazioni e i contesti relazionali che rispecchia-no i cambiamenti della cultura e della società. In altri termini, nel primo caso prevalgono gli elementi biologici, nel secondo, quelli psicosociali.
È la trasmissione transgenerazionale dei contesti.
Ma anche quando diciamo questo dobbiamo sempre tenere presente che ci stiamo riferendo ai sistemi umani, che sono sistemi complessi e super differenziati. Tanto per cominciare non c’è una persona uguale all’altra. Basta pensare all’impronta digitale che distingue un individuo tra miliardi… o la pigmentazione dell’iride, per la quale vale lo stesso discorso. Anche il nume-ro di cellule del cervello è diverso in ogni persona. Se poi ci avventuriamo nel mondo delle idee e delle parole, ancora di più possiamo immaginare la complessità e la variabilità. Nel cervello ci sono miliardi di cellule, con un’infinità di interazioni nella trasmissione di un infinito numero di messaggi verbali e non verbali. Ciò fa capire l’origine multifattoriale dei comportamenti (e dei sintomi), e la difficoltà di prevedere i comportamenti. Essi non sono solo in relazione alle caratteristiche somatiche e psicologiche, ma anche agli effetti dell’ambiente. Per esempio: se Erika non avesse incontrato Omar, il caso Novi Ligure sarebbe accaduto lo stesso?
Ricordo una vecchia ricerca fatta negli USA sui neonati per rilevare eventuali diversità di comportamento alla nascita. Dei sensori furono posizionati sul corpo di un centinaio di bambini appena nati al fine di registrare le loro risposte fisiologiche (battito cardiaco, pressione arteriosa, ecc.) e comporta-mentali (videoregistrate) prodotte dalla puntura di un ago. Fu verificato che le reazioni, molto diverse, si distribuivano secondo una curva di Gauss – una curva “a campana”, usata nella descrizione statistica di molti fenomeni. Il plateau centrale raggruppava il maggior numero di soggetti che più o meno avevano reagito allo stesso modo. I dati degli altri soggetti si distribuivano agli estremi della curva: a un estremo i bambini iperreattivi, e all’altro i bambini iporeattivi.
Questo dimostra che c’è una distribuzione non univoca delle reazioni ad uno stimolo. Non è possibile predire esattamente cosa accadrà. Possiamo, nella nostra esperienza di terapeuti, per approssimazione, prevedere entro certi limiti comportamenti in base alla nostra esperienza e conoscenza del caso; possiamo individuare il rischio che si verifichi un certo evento… che so, avanzare l’ipotesi che il figlio sia in procinto di andarsene di casa o di combinare dei gravi guai, possiamo ipotizzare l’eventuale risposta dei familiari. Però non saremo mai sicuri.
Dobbiamo sempre tener presente che ogni persona è unica e diversa dalle altre, così come ogni famiglia è diversa dalle altre. Ed è la probabilità che ci guida. Nel lavoro con le famiglie, facciamo sempre ipotesi su come si organizzano e si strutturano nel tempo e sul perché e sul come le persone si comportano in un certo modo. E quando percepiamo che l’ipotesi trova un certo riscontro nelle parole e nelle emozioni dei membri della famiglia allora diciamo che l’ipotesi è plausibile. In tal caso, abbiamo la sensazione che quello che stiamo pensando noi ha un senso per loro; e in questo momento, a volte, si creano delle aperture significative, un modo diverso di vedere la loro situazione. Un modo di descrivere ciò dal punto di vista della “narrativa” è che i clienti escono dalla loro storia che provoca a loro sofferenza, per “entrare” in storie alternative.
Alcune ipotesi
Tornando alle dinamiche che stanno dietro alla vicenda di Novi, accanto al rapporto tra genitori e figli non trascurerei il rapporto tra fratelli. Nella famiglia nucleare il sistema delle relazioni comprende quelle tra i genitori, quelle tra genitori e figli e quelle tra i fratelli (si veda Minuchin, 1974). Il caso di Novi è illustrativo dell’importanza del contesto familiare di tutte queste relazioni. Infatti sono stati uccisi un genitore e un fratello.
Erika aveva sedici anni al momento della tragedia, il fratello dodici: lui è nato quando lei aveva quattro anni. Freud e la psicoanalisi hanno descritto ampiamente le vicissitudini delle rivalità fra fratelli… La rivalità del fratello maggiore nei riguardi del neonato che gode delle continue attenzioni della madre, può nella maggioranza dei casi attenuarsi fino a trasformarsi in completa accettazione del nuovo arrivato. Perché ciò avvenga, è importante l’atteggiamento e la sensibilità dei genitori nel coinvolgere il fratello maggiore nell’aiutare ad occuparsi del più piccolo. Ciò lo fa uscire dall’isolamento. Però ci sono altre due strade che possono condurre a soluzioni patologiche: una è la regressione, che capita frequentemente. Quando la mamma aspetta un bimbo, ha la pancia, il fratellino o la sorellina si incuriosisce per la sua gravidanza, le sta spesso vicino e le fa molte domande sul nascituro. Quando finalmente nasce è un po’ uno shock, perché la nascita determina un cambiamento drastico di comportamento da parte della madre: la madre allatta il nuovo arrivato, sta spesso vicino a lui, la culla è nella stanza dei genitori. Lo shock è dovuto alla sensazione di aver perso l’amore soprattutto della mamma, perché a quell’età il padre è un po’ staccato. A questo punto, che cosa fa il bambino? Comincia a regredire. A cinque o sei anni, nei casi di maggior regressione, mette di nuovo il dito in bocca, frigna, non mangia più cibi solidi, vuole le pappette. Le madri intelligenti e sensibili che hanno più calore, capiscono quello che sta succedendo e rendono meno difficile il distacco, così i bambini possono superare il momento critico e riprendere a crescere.
L’altra strada è la non accettazione, il rifiuto dell’intruso. Allora ci può addirittura essere violenza nei confronti del bambino che deve essere sorvegliato. C’è una bellissima scena del film Amarcord, di Fellini, in cui si vede una festa campestre; molte persone sono a tavola che mangiano. Un bambino di quattro o cinque anni prende un masso e va dietro la casa, va e non si sa che cos’abbia esattamente intenzione di fare con quel masso… poi all’improvviso si ferma e l’immagine si ingrandisce comprendendo anche quello che c’è al di sotto del masso: c’è un bambino in culla!
E in quel momento si vede il genio di Fellini. Ha voluto dimostrare la rivalità con il nuovo nato, poi cambia scena improvvisamente: lo butta o non lo butta il masso?
Penso a una famiglia che ho in cura attualmente. C’è da far accapponare la pelle! Un ragazzo di diciassette anni non vuole riconoscere la sorella di dodici; il suo ostracismo è sempre andato peggiorando: la rifiuta, la disconosce dalla nascita, è diventato quasi psicotico, e la sorella di riflesso è più disturbata di lui. Il ragazzo è convinto che un giorno la ucciderà. È uno dei casi più gravi che abbia visto, si parla sempre di morte, di suicidio. I genitori sono impotenti, incapaci di gestire la relazione tra i figli.
Colpisce la loro assuefazione al caso e, soprattutto, la rassegnazione. La madre che continua ad oscillare di volta in volta dalla figlia quando vede che si chiude e soffre troppo, al figlio che si arrabbia e, a volte, picchia la madre accusandola di preferire la sorella. Il padre tende a tenersi distante.
Erika e la madre
Ho letto, a proposito di Novi Ligure, che Erika diceva sempre che questo fratello era il più amato, il preferito: “Gianluca è bravo!” esclamava, con un tono di rabbia; criticava la madre per essere sempre per Gianluca, quindi erano evidenti i segni dell’odio che lei aveva verso il fratello. Ma quella era una famiglia “normale”, il prete aveva detto che era normale, un bravo padre, una brava mamma, un quadretto perfetto: è questo che crea lo shock per i media, per la gente.
In casi simili, una diagnosi psichiatrica di famiglia psicotica, folle, caotica, paradossalmente tranquillizzerebbe la gente facendole pensare che la loro famiglia è così diversa… E invece si spaventa: “allora può capitare anche a noi, allora devo capire di più su mio figlio, bisogna assolutamente prevenire una cosa del genere…”
L’effetto traumatico sui mass media e sulla società è proprio dovuto alla normalità borghese di questa famiglia che non aveva dato nessun segno di nessun conflitto e che a un certo punto viene fatta esplodere dalla figlia. Se fosse stata una famiglia delle periferie, delle minoranze, una famiglia di immigrati, si sarebbe detto che tali famiglie non sanno educare, perché i genitori sono scissi, o perché bevono o perché sono violenti… ed ecco pronta la spiegazione. Ma qui lo shock è dovuto al fatto che non c’è una spiegazione pronta; i media non sono riusciti a dare delle ragioni, allora si sono rivolti agli esperti. Ho visto le loro spiegazioni: alcune sono interessanti, le condivido, altre no.
A questo riguardo io vorrei esprimere due o tre opinioni su questa famiglia. È una famiglia “normale”, si vogliono bene, e paradossalmente proprio qui c’è il seme della violenza. Da quanto ho letto, pare ci fossero due genitori perfetti, o meglio, che si ritenevano ed erano ritenuti perfetti. La perfezione produce l’aspettativa che i figli siano alla loro altezza, non siano da meno. In particolare, c’è la madre che fa la disciplinarian, come si dice in inglese, il soggetto che impartisce la disciplina; è lei che si mette in mezzo, che ha addirittura lasciato il lavoro per stare in casa con Erika. Questa donna da una parte sembra avvicinarsi al punto da tornare adolescente anche lei, ma contemporaneamente comincia a esercitare il controllo. È una madre brava, buona, ma che controlla.
Da qualche tempo Erika, nel diario, sottolineava i contrasti con la madre che idealizzava. Pare che le liti fossero frequenti. Tuttavia all’esterno queste difficoltà non trapelavano, la madre parlava bene di entrambi i figli, entrambi dovevano figurare come buoni e bravi. La madre non diceva la verità, cercava di nascondere i problemi dietro la facciata del perbenismo. Di solito questo è un atteggiamento che non piace ai giovani: sembra loro che i genitori non siano sinceri, o che non riescano a dire le cose come stanno. E invece in una famiglia perfetta anche la madre dovrebbe essere perfetta.
C’è un aspetto della relazione fra Erika e la mamma… erano tutte e due belle “come due sorelle”, il che faceva piacere a entrambe. Erika si identificava prepotentemente con la madre, una madre realizzata, brava, bella, perfetta, e così via. Questa identificazione con un modello di perfezione l’ha portata specularmente ad avere di sé un ideale molto alto. Da sé e dalla vita si aspettava cose che poi ha avuto la sensazione non arrivassero o non andassero per il verso giusto a causa di una sua inadeguatezza.
Probabilmente Erika non era soddisfatta di quello che faceva: per esempio a scuola non aveva tanta voglia di studiare; aveva rischiato di essere bocciata al liceo scientifico, così i genitori l’hanno trasferita all’istituto tecnico per geometri. Lei nel diario scrive “m’hanno messa in un istituto tecnico con i preti…”. Lo aveva vissuto come un affronto. Del resto la decisione era stata presa perché nell’altra scuola non ce la faceva. Questa sensazione di non farcela non era accettabile, non era sopportabile.
Poi arriva un momento decisivo, quando Erika conosce Omar, perché è da lì che inizia il dramma finito in tragedia. Madre e padre erano genitori accettanti, non si sono opposti alla relazione fra i due ragazzi, ma non gradivano. E anche la famiglia di Omar era accettante. I due si vedevano a casa di Omar, lui aveva la sua stanza e lì facevano l’amore. C’è scritta anche l’ora, dalle tre alle sei, tre ore di sesso continuo, un rapporto orgiastico che non è infrequente negli adolescenti… ci tornerò tra poco. La madre aveva fatto qualche leggera critica, ma poi si era accorta che bisognava stare attenti con Erika, perché non aveva le stesse reazioni del padre e del fratello. Nella ribellione adolescenziale la ragazza aveva comportamenti che non erano prescritti nelle premesse della famiglia, non si poteva disubbidire come disubbidiva lei… fino alla rotta di collisione, descritta nel diario: “ogni tanto la odio quella donna”.
Ha cominciato a parlare di odio, e poi di odio verso il fratello e la mamma insieme. Ma quest’odio che a poco a poco si è formato, doveva fare i conti sempre con l’ideale di sé. Per questo alcuni, come il perito del tribunale Charmet, hanno fatto diagnosi di disturbo narcisistico di personalità. Perché c’era un elemento di narcisismo: lei con i ragazzi era leader, era affascinante, molti ragazzi erano affascinati da lei, e infatti Omar ha perso la testa per lei, ha ucciso per lei. Ma l’ideale familiare di perfezione cozzava con la percezione che non si può essere perfetti, non si può incarnare l’ideale.
Un episodio di tanti anni fa è legato a un processo simile. Un giovane seminarista che desiderava farsi prete fu scartato, perché ritenuto poco idoneo al sacerdozio. Il priore gli disse che quella vita non era fatta per lui, meglio seguire corsi universitari normali: “Ti aiutiamo noi a finire gli studi, paghiamo tutto noi”. Così il giovane andò a studiare in una città del nord e diventò medico condotto in un piccolo paese di campagna. Era molto religioso e di un altruismo esagerato. Andava a visitare i pazienti e spesso non si faceva nemmeno pagare. Se incontrava un povero per strada gli offriva da mangiare e ogni tanto, quando sulla via c’era una cappella, si fermava per dire una preghiera… Un uomo più pio di così non si poteva immaginare.
Un giorno deve recarsi in città per fare dei documenti. Mentre cammina nella via principale, tutt’a un tratto gli esce dalla bocca, a voce altissima, una bestemmia contro la Madonna. La gente si volta, lui si spaventa e non riesce a trattenersi dal “vomitare” una serie di bestemmie che gli escono dal profondo, come un torrente in piena. E si mette a correre, scappa, cerca una chiesa, la trova, entra, si inginocchia di fronte al primo tabernacolo che trova… ma subito ricomincia a urlare e bestemmiare come un ossesso. Il prete chiama la polizia e lo portano in ambulanza all’ospedale psichiatrico, dove viene sottoposto alla cura del sonno e viene addormentato per cinque giorni.
Fu inviato a me per una terapia. I risultati sono stati molto positivi: ha ripreso il lavoro, si è sposato, ha avuto figli e ha condotto una vita normale.
Per tornare all’analogia con il caso di Erika: quel giovane prete mancato, poi diventato medico, aveva represso continuativamente la parte di sé che non corrispondeva al suo ideale di perfezione; aveva represso ogni possibile debolezza, ogni pensiero cattivo (non puoi averne perché devi essere perfetto). Così è aumentata la pressione interna finché a un certo punto è scoppiato. Se fosse stato un violento avrebbe potuto uccidere o uccidersi…
Erika e il padre
Poi, tornando al caso di Erika, c’è la relazione con il padre, che aveva una speciale predilezione per Erika. Le comprava i vestiti griffati, era molto legato a lei ma anche alla mamma e al figlio, e la madre a sua volta era molto legata a lui, entrambi avevano un ottimo rapporto con il figlio. Quindi sembra che il fattore principale che ha innescato il detonatore e fatto scoppiare la furia in Erika sia dipeso dal fatto di non essersi sentita veramente amata e accettata dalla madre nell’adolescenza. La conferma che ha avuto a poco a poco è che la madre nei suoi confronti è diventata un’educatrice che non l’amava incondizionatamente, a differenza di come era col padre e col fratello. Pare però che la sua furia omicida fosse anche diretta verso il padre che al momento della tragedia non era in casa.
L’odio ha cominciato a traboccare come una marea quando lei ha conosciuto Omar. La relazione con lui è durata tre mesi. Facevano l’amore continuamente, e quando lei aveva l’orgasmo ripeteva in continuazione “ammazziamoli, ammazziamoli”. Quando Omar è stato interrogato su questo punto, ha detto che credeva fosse un modo di parlare per eccitarsi, lì per lì non gli era neanche passato per il cervello che Erika lo pensasse davvero.
Poi poco a poco la ragazza ha cominciato a fare dei lugubri discorsi: “Quella donna è da uccidere…”; “e anche mio fratello”. La situazione si è fatta seria. È possibile che Omar un po’ abbia creduto alla storia della madre ingiusta. In fondo era plagiato da Erika, ne era succube, e il suo essere succube rendeva la coppia rigidamente complementare. Lei, soffrendo di un disturbo narcisistico, doveva essere la più bella, la più adulata, a scuola e fuori, e gli uomini dovevano seguirla. Omar, di un anno più grande di lei, era stato vezzeggiato e allevato dalla mamma e dalla nonna, era piuttosto introverso, e aveva sviluppato una personalità dipendente, immatura. Aveva bisogno di persone su cui appoggiarsi, persone che gli dessero affetto. E l’affetto di Erika gli ha riempito la vita, è diventato un fanatico di lei, continuavano a telefonarsi, a cercarsi… Con il loro incontro si è innescato un processo che è sfociato in tragedia. Erano sempre insieme, si isolavano dagli amici. Sempre insieme, come fanno gli adolescenti innamorati. Questa simbiosi è stata per Erika un surrogato dell’amore che le mancava. L’amore incondizionato da parte di Omar l’ha compensata e ha riempito il suo vuoto affettivo. Da lì è scaturita la vendetta.
L’indizio più importante a favore di questa ipotesi sta nel fatto che lei confidasse al ragazzo: “Non so perché sono diventata indifferente verso i miei, mia madre, mio fratello”. Le erano diventati indifferenti perché aveva trovato questa nuova passione e perché non si era accorta che era soltanto un surrogato. Comunque questo sentimento in qualche modo le ha dato l’idea di liberarsi (lei l’ha anche detto), di liberarsi della famiglia per potere finalmente essere libera. In un certo senso puniva tutta la famiglia, anche se l’elemento principale resta il rapporto tra lei e la madre. Se la madre fosse stata più calda e il padre meno caldo, più disciplinarian (andiamo avanti con i se, con le ipotesi nel passato) e magari se si fosse sciolto un po’ il ghiaccio, ed Erika avesse cominciato a sentirsi accettata nonostante i suoi limiti, le sue imperfezioni… magari tutto sarebbe stato diverso.
Per quanto riguarda il ruolo del padre nella storia di questa famiglia, si possono fare due letture, verificabili nel caso di una consulenza con tutta la famiglia, prima della tragedia e, attualmente con colloqui individuali con il padre e con la figlia; e possibilmente con un colloquio con entrambi.
Una prima lettura: il padre è coerente con l’idea di perfezione, con l’immagine di padre sempre bravo e buono con tutti. Anche dopo la tragedia non viene fuori, nemmeno per un momento, la sua rabbia (per lo meno da fuori non si è vista) nei riguardi della figlia. Una rabbia che eventualmente lo avrebbe portato almeno per un po’ di tempo a staccarsi da lei. Invece cosa fa? La protegge, le sta vicino, vuole vederla.
Certo, è una persona leale, che vuole bene alla figlia come vuole bene agli altri, e questo bene è rimasto. Dopo l’evento luttuoso c’è il problema difficile di ritrovare un nuovo equilibrio… Ma prima di pensare razionalmente al recupero di Erika lui è entrato in lutto trovandosi senza famiglia: se avesse avuto una reazione di rifiuto, di rigetto della figlia avrebbe perso anche lei e sarebbe rimasto veramente solo. Lui è il classico family man amante della famiglia: questo lo ha portato a rimanere vicino alla figlia, perdonandola per ciò che ha fatto. Stare vicino e rimanere fedele, tra l’altro, gli dà qualcosa anche su un altro livello. Nei riguardi della gente, egli acquista grandi meriti sul piano del sacrificio e dell’oblatività. Infatti in paese tutti lo rispettano e viene considerato un modello di lealtà e rettitudine.
Una seconda lettura: c’è un problema nella coppia dei genitori che non si manifesta apertamente. Formalmente è una coppia che ci appare unita, collaborante, che si vuol bene. Ad un altro livello la loro relazione può essere molto diversa da come appare. Nella nostra esperienza, in certi casi, i coniugi evitano di esprimere apertamente i loro conflitti, le loro frustrazioni reciproche, per evitare un’escalation che può mettere a repentaglio l’unità familiare e il rapporto con i figli. Si creano delle situazioni in cui è difficile separare la famiglia come appare, da quella “nascosta”. Viene qui alla mente il titolo di un’opera di Pirandello: “Così è se vi pare”. Seguendo questa lettura si può ipotizzare che, nel tempo, l’affettività fra i coniugi si sia inaridita, mentre, in compenso, si sia accentuata nei riguardi dei figli. Si sono formate due coppie: madre-figlio e padre-figlia. Dalla storia della loro famiglia, sembra che la figlia sia stata da molto tempo un caso “a rischio” per il tipo di rapporto che ha avuto con il padre che – è stato scritto – era molto legato alla figlia (forse troppo?) con lei era gentile e condiscendente e spesso le faceva dei regali costosi. Erika contraccambiava abbondantemente il suo affetto. Da questo quadro familiare osserviamo le due diverse posizioni di Erika e Gianluca nei riguardi dei genitori. La posizione di Gianluca è chiara: ha un buon rapporto con entrambi i genitori, anche se più vicino alla madre. Erika, al contrario, ha sempre aspirato ad avere un rapporto stretto con la madre e ad essere amata incondizionatamente da lei; ma ciò non è avvenuto. La sua rivalità con il fratello ci dice che non è mai riuscita a sentirsi la prima nel cuore della mamma. Con il passare degli anni si è rivolta al padre per sentirsi confermata.
L’amore condiviso con il padre può aver prodotto una corrente sotterranea di gelosia e competizione tra la madre e la figlia, rinforzata dall’atteggiamento del padre che ha dato ad Erika l’illusione di essere migliore della madre. Questo può aver messo Erika in una situazione paradossale accompagnata da grande vulnerabilità, sensi di colpa, confusione, disorientamento. Tutto ciò può aver prodotto nel tempo un accumulo di frustrazione e poi di rabbia che è diventata una rabbia omicida nei riguardi di tutta la famiglia, dalla quale ha cercato di liberarsi con l’aiuto di Omar.
Nella stanza di terapia: la prevenzione possibile
Immaginiamo di incontrare questa famiglia prima che si consumi il delitto.
Avremmo cominciato con l’esplorazione delle modalità di invio della famiglia a noi, e i problemi descritti dalla famiglia. Supponiamo che nel corso dell’indagine si fosse osservata una certa rivalità di Erika per il fratello e una mancanza di sintonia fra madre e figlia, l’estensione dell’indagine alle famiglie d’origine sarebbe stata necessaria. Interesserebbe comprendere la relazione della madre di Erika con la propria madre, con i propri genitori, in particolare quando aveva l’età della figlia. Quindi Erika avrebbe potuto ascoltare la madre raccontare la propria vita in famiglia, con i suoi genitori, con i fratelli e sorelle. Potrebbero essere emersi dei pattern, dei tipi di relazione tra genitori e figli che potrebbero aver rispecchiato e “illuminato” le relazioni tra Erika e la madre.
Questa sarebbe stata un’indagine utile per i terapeuti, ma molto di più per loro, specialmente per la figlia. Che avrebbe potuto vedere che anche la madre ha avuto esperienze simili alle sue con la propria madre o con i genitori, e di conseguenza i sentimenti negativi nei suoi confronti avrebbero potuto trasformarsi in sentimenti empatici, che avrebbero potuto portare a una nuova visione della loro relazione. Il circolo vizioso che le separa si trasformerebbe in un circolo virtuoso e così possono cominciare a comprendersi e ad accettarsi.
L’inizio di un cambiamento simile può ripercuotersi ricorsivamente all’intero sistema familiare, influenzando positivamente le relazioni.
Si è parlato di crisi di valori. Ritengo che alla famiglia di Erika non sono mancati i valori, anzi. Si tratta di una famiglia “per bene”, cattolica, di tipo borghese. Semmai c’era un problema di rigidità nelle premesse della famiglia che erano del tipo dicotomico o/o, bianco o nero, invece di e/e. In questi casi si può essere o perfetti o imperfetti, o buoni o cattivi, ecc., non ci possono essere vie di mezzo.
Semmai c’è da considerare che la famiglia, come si sa, è il luogo dove i genitori trasmettono ai loro figli le storie, i miti, le credenze ed i valori appresi dalle famiglie d’origine, dalla scuola e dalla cultura di appartenenza. Dobbiamo sempre tenere in considerazione l’importanza delle influenze esterne. Basti pensare a cosa è successo negli ultimi cinquant’anni. Nel dopoguerra e fino agli anni Sessanta il sistema famiglia era piuttosto omogeneo: c’erano delle differenze dovute alle classi sociali, ma sostanzialmente c’era un solo modello del vivere insieme, il modello della famiglia patriarcale. Il marito lavorava e prendeva le decisioni più importanti, la moglie stava a casa e si occupava dei figli, e non potevano divorziare. Quello era il modello familiare che determinava in gran parte i comportamenti dei membri della famiglia.
Poi sono arrivati il divorzio, la pillola e l’emancipazione della donna, favorita dallo sviluppo della società postindustriale e dei servizi. Questa rivoluzione è avvenuta velocemente e ha messo in crisi la famiglia. C’è un motivo se la Chiesa è molto preoccupata per la crisi della famiglia, se il papa ne parla continuamente. I modelli del vivere insieme sono cambiati, e sono diventati via via più numerosi: quando parliamo di famiglia non ci fermiamo più soltanto alla “famiglia nucleare”, tanto che usiamo più frequentemente il termine “famiglie” al plurale: per esempio: famiglie estese, ricostituite, monoparentali, ecc…
Inoltre spesso la convivenza è preferita al matrimonio. Il conseguimento della parità nel rapporto tra uomo e donna e il problema della ridistribuzione del potere hanno creato grande instabilità nella coppia e quindi nella famiglia. Un numero sempre maggiore di coppie si separano, e molto prima che nel passato. Si può vedere quanto rivoluzionari possono essere gli eventi esterni quando entrano nella catena di relazioni che vanno da una generazione all’altra. Le ultime due o tre generazioni sono molto diverse da quelle del passato.
Ma proprio per questo nell’opinione pubblica c’è stata una reazione di shock. Se il delitto si fosse consumato all’interno di una famiglia disgregata, non avrebbe creato altrettanto scandalo.
Noi – operatori, terapeuti, consulenti – dovremmo essere consapevoli delle relazioni tra individuo, famiglia e società e particolarmente sensibili ai cambiamenti sociali e ai loro effetti su di noi, sul nostro mondo interno, sulle nostre credenze e pregiudizi. Nel nostro lavoro con le famiglie è importante l’ascolto e il rispetto della persona. Esploriamo le loro storie facendo delle domande sulle loro relazioni, sui conflitti, sulle risorse e sui tentativi di risolvere i loro problemi. Aiutiamo i nostri clienti a trovare le loro soluzioni ed evitiamo per quanto possibile di influenzarli con le nostre opinioni e i nostri pregiudizi. Per esempio: sarebbe un grosso errore per un terapeuta, convinto della parità di diritti uomo-donna, colludere con una cliente, istigandola a ribellarsi al marito. Le conseguenze possono essere disastrose. Questo ha una spiegazione piuttosto complessa: ogni coppia, nel tempo, trova il proprio equilibrio attraverso continui adattamenti reciproci dettati dalle loro “mappe” personali su come dovrebbe essere un rapporto di coppia. Introdurre mappe diverse, come quelle postmoderne della parità di potere fra due partner, può fare più male che bene, rischiando di destabilizzare la coppia e di innescare una serie di conflittualità. Semmai la parità di potere nella coppia può emergere in terapia dalla reciproca consapevolezza e accettazione.
Tornando alla vicenda di Novi Ligure, la questione se sia possibile un’azione preventiva è piuttosto complessa. Di per sé, la domanda è mal posta, in quanto non è predicibile un esito catastrofico nella storia della famiglia. Infatti una famiglia come quella di Novi Ligure non arriva alla nostra attenzione, perché i problemi prima dell’evento tragico potevano sembrare “normali”, lievi o superabili. Se per caso si fossero avute informazioni su Erika che lottava per l’indipendenza, ciò sarebbe stato considerato un comportamento normale dell’adolescenza, una fase del confronto con la madre.
Tuttavia, c’è un momento nella triste storia di Novi Ligure in cui la sua domanda sulla prevenzione è da prendere in seria considerazione. Il momento è l’incontro tra Erika e Omar, che per tre mesi hanno trascorso i pomeriggi nella camera di lui. Tale relazione non era gradita alla madre e, probabilmente, al padre di Erika, ma non hanno potuto o voluto discuterne ed eventualmente intervenire. Dall’atteggiamento della madre e della nonna di Omar sui suoi incontri in casa con Erika, non so niente.
Se in quel periodo un terapeuta avesse avuto l’opportunità di parlare con i genitori, o con la famiglia, avrebbe avuto la possibilità di favorire una presa di posizione di entrambi i genitori nei riguardi di Erika, e una possibile riconciliazione della figlia con la madre. L’intervento terapeutico avrebbe potuto agire sulle travolgenti forze negative, l’odio e la vendetta della figlia (come ho descritto nella prima e seconda lettura, ho avanzato l’ipotesi sulle dinamiche coinvolte nel disastro).
Alla domanda se la terapia può evitare un disastro del genere, dico di sì, a patto che la famiglia tutta, o in parte, cerchi aiuto e accetti di essere aiutata. In molti casi le famiglie si adattano a comportamenti francamente patologici che, o non riconoscono come tali, o minimizzano, e quindi non si rivolgono allo specialista. Questi casi, frequentemente, vengono segnalati dalla scuola, dal medico di base, ecc., che li invia allo psichiatra o psicologo, come è avvenuto nel caso che ho descritto del ragazzo di 17 anni con tendenze omicide.
Da molti anni cresce il ricorso alla terapia di famiglia e specialmente di coppia. I casi ci sono inviati da medici di base, pediatri, parenti, psicologi e psichiatri e anche ex pazienti. Quello che posso dire è che frequentemente i nostri interventi hanno un effetto di cura e di prevenzione. Per esempio: ci chiede aiuto una coppia con dei problemi coniugali. Lavorando con loro, possiamo accorgerci che il conflitto coniugale è piuttosto “tossico” e rischioso per i figli. A questo punto, segnaliamo ai genitori la nostra preoccupazione per il loro sviluppo. Questa comunicazione può già cambiare il comportamento dei genitori. Se ciò non funziona, chiediamo di vedere anche i figli con loro.
In genere i genitori accettano questo spostamento di attenzione: erano venuti per cercare di risolvere il loro problema di coppia e adesso il problema principale diventa i figli. In questo senso il nostro intervento diventa preventivo per la vita futura della prole.
Ad esempio, c’è una coppia che ho avuto in cura recentemente. I coniugi non parlano quasi mai dei loro due figli, una figlia di 16 anni e un figlio di 14. Secondo loro stanno bene, hanno amici e vanno bene a scuola. I genitori, professori di scuola media, parlano del loro problema coniugale e di un grosso problema con due figlie gemelle di 32 anni, avute dalla moglie in un precedente matrimonio. Esse vivono da sole e, da anni, accusano violentemente la madre di averle lasciate al loro destino, di averle abbandonate. Per molte sedute questo è stato il leitmotiv. I figli del secondo matrimonio sembravano inesistenti. Dopo qualche settimana dalla fine della terapia, finita bene, mi chiama il padre dicendomi che vuol venire con il figlio quattordicenne che è in crisi. Fisso l’appuntamento. Arriva con il ragazzo visibilmente in crisi. Sta seduto con la testa bassa, rattrappito, con un’espressione di sgomento. La sua angoscia è tale che non riesce a spiccicare una parola. Il padre mi spiega che il figlio ha un serio problema scolastico. Sta facendo il ginnasio per andare al liceo classico, ma ha paura di non farcela. È duro con sé stesso, competitivo, e deve ottenere i voti più alti. A volte è oppositivo con gli insegnanti, che non l’hanno preso di buon occhio perché li sfida come uno che sa più di tutti. Anche i rapporti con i compagni di classe si sono molto diradati. Fa fatica, vuole cambiare scuola, ma se cambia cosa succede? Non andare più al classico? Anche la sorella frequenta il classico e i genitori sono orgogliosi di aver fatto quella scuola. Ovviamente anche lui “deve” fare il liceo classico. Ma sta impazzendo perché sente che potrebbe non farcela. E non farcela, in questo contesto, significa deludere i genitori e se stesso. Il suo vissuto è che i genitori pensano “se non fai il classico non sei nessuno” e al limite “se non fai il classico non sei il figlio che vorremmo”. Il risultato è un tipico caso di depressione acuta accompagnata da idee catastrofiche. I genitori da molto tempo non si erano accorti dei segnali di sofferenza e di richiesta di aiuto del figlio. Ora si potrebbe anche buttare giù dalla finestra. Ha presente quando si legge di un ragazzo buono e bravo che si butta giù dalla finestra? È proprio questo genere di caso.
Ho cercato subito di entrare in contatto con lui abbassando la mia testa alla sua altezza dicendogli empaticamente che avrei cercato di aiutarlo. A poco a poco ha cominciato a dare delle risposte brevi che testimoniavano il suo vissuto di non scorgere vie d’uscita.
Ad un certo punto gli ho fatto una domanda diretta: “È possibile che i tuoi genitori, che hanno fatto il liceo classico come tua sorella, ritengano che soltanto se si fa il classico si può essere accettabili? È possibile che abbiano una grande aspettativa e che la stessa aspettativa ora sia dentro di te?”
Improvvisamente si è sbloccato e, annuendo, ha incominciato a piangere. Il padre osservava la scena, impassibile. Sempre rivolto al ragazzo domando: “Pensi che io possa aiutarti?” Ci pensa su e dice: “Fino a un certo punto”. È una risposta intelligente!
“Credi invece che ciò che potrebbe aiutarti è che io discutessi con i tuoi genitori di queste aspettative che loro potrebbero avere, che si può essere accettabili soltanto se si fa il classico e l’università altrimenti non si è nessuno e non si ha il diritto di vivere? Pensi che questo possa aiutarti, vuoi che me la veda io con loro?” “Sì, questo sì,” ha risposto convinto e sollevato.
Non ho visto nel padre il senso di disagio e di imbarazzo che sarebbe stato lecito attendersi. Loro, i genitori, credevano di far bene, non intuivano ciò che bolliva nella mente del figlio. Ecco a cosa può portare il non vedere. I genitori creano un paradosso nell’aspettarsi dal figlio: “Tu dovresti essere come noi pensiamo dovresti essere, come siamo noi, cioè, se tu sei noi vai bene, se non sei noi, non ci sei”. Questo è il classico paradosso: non trovi soluzione se non esci dal campo, se non ti differenzi. Se non ci riesci, si chiudono tutte le porte e allora può venire l’idea di uscire dal mondo.
Questo non vuol dire che i genitori non possano anche esercitare pressioni, ma se la coercizione e la pressione non funzionano è inutile continuare, è bene cercare di comprenderne le ragioni. Ho chiesto ancora: “Ti aiuterebbe se tua madre venisse da te, ti abbracciasse forte e ti dicesse: senti, non preoccuparti, qualsiasi cosa farai ti vorrò sempre un gran bene, sarò sempre con te?” Lui per la prima volta ha alzato la testa e con un’evidente emozione e un leggero sorriso ha risposto: “Più di tutto”. Emozione, capisce? Quando si parla di liceo classico, scade tutto a livello di performance, di intelletto, non c’è emozione, non c’è eccitazione emotiva.
Ho fatto queste domande pensando che il padre è tutto emisfero sinistro, il più intellettuale della famiglia, mentre la madre è una persona emotiva ed affettiva che può avere una maggiore influenza positiva sul figlio.
E “dopo”? Una possibilità di perdono
Però non sempre questa azione, per così dire, preventiva, è possibile. Pensando alla storia di Erika e Omar, un consulente o terapeuta sistemico che intervenisse con un obiettivo di recupero, prima di tutto valuterebbe il “sistema significativo” connesso al problema presentato, e poi deciderebbe se ci sono le indicazioni, le condizioni e i nulla osta del committente e dei clienti perché lui possa operare.
Il sistema significativo in questo caso, oltre che da Erika e suo padre, da Omar e i suoi familiari, è costituito dal carcere, dal tribunale con le sue leggi e regole e dai diversi operatori coinvolti, che inevitabilmente pongono vincoli insormontabili a una terapia, con un terapeuta privato come sono io. Al massimo, con l’accordo delle parti interessate può essere fatta una consulenza che non ritengo però sufficiente per ottenere un cambiamento significativo.
Chi può agire invece sono gli psicologi e psichiatri del carcere assieme agli educatori ed assistenti sociali, che possono aiutare Erika e Omar a rendere meno pesante la loro vita ed eventualmente aiutarli, con cautela, a riflettere su ciò che hanno fatto e a prendere le loro responsabilità. L’opera di recupero può essere affiancata da attività di riabilitazione e dall’inserimento in un gruppo.
Se i vincoli legali e carcerari fossero diversi, come nei casi di arresti domiciliari, che danno la possibilità, previa autorizzazione, di fare un minimo di terapia, allora sarebbe possibile intervenire su Erika ed il padre e su Omar. Un possibile intervento efficace può essere un rituale. Vale a dire un’esperienza emotiva collettiva con elementi simbolici, che connette fra loro più persone e le pone allo stesso livello. Noi usiamo più volte i rituali in terapia; possono essere molto efficaci, molto potenti (si veda Boscolo, Bertrando, 1993, cap. 8).
Si potrebbe cominciare con il padre e ottenere il suo consenso a incontrare la figlia; poi padre e figlia dovrebbero essere visti insieme: con loro si parla di quello che è avvenuto e dopo due o tre incontri loro due, sempre insieme, si recano al cimitero, alla tomba della madre e del fratello di Erika. Il rituale può essere ripetuto un numero prescritto di volte, fissando con precisione i giorni in cui fare visita al cimitero. A questo punto lei, con il padre al fianco, chiede perdono alla madre e al fratello sulle loro tombe. Poi Erika e il papà ricordano i momenti felici che hanno avuto tutti e quattro insieme.
Svolgere un rituale con l’immaginazione a volte può innescare un cambiamento; ma andare davvero al cimitero ha un effetto molto più forte, un grande impatto emotivo.
C’è un episodio, solo apparentemente diverso da questo discorso. Io – premetto, sono laico – qualche anno fa ho avuto l’occasione di visitare il luogo dove è stato sepolto Gesù Cristo, a Gerusalemme. Nel Santo Sepolcro c’è una lastra di marmo che copre la tomba sistemata in un cunicolo scuro. Entro con un mio collega. Sono calmo e tranquillo. Ecco la lastra di marmo, appoggio il palmo di una mano e sento un calore interno che mi invade, e una specie di fremito. Mi vengono le lacrime agli occhi! Mi giro e vedo che anche il mio collega ha le lacrime agli occhi. Sono rimasto stranamente sorpreso per la forte reazione emotiva. Quando siamo usciti con gli occhi arrossati, abbiamo commentato: “Questa esperienza è come quella di un rituale”. Mettere la mano su quella lastra era come entrare in contatto con ciò che ha contenuto il corpo di Gesù Cristo. È stato sconvolgente.
Anche nella terapia certi rituali si mostrano risolutivi. L’anno scorso ho avuto dieci incontri con i giudici del Tribunale dei minori, per la mediazione penale nel campo degli abusi sessuali, e ho ribadito il concetto dell’importanza che il padre si prenda la responsabilità di ciò che ha fatto e chieda perdono. Quando nel rituale il padre chiede perdono alla figlia e a tutti gli altri membri della famiglia, certi colleghi americani si inginocchiano, quindi in un certo senso si umiliano, osservando una modalità di stampo un po’ cattolico. È una di quelle esperienze che hanno un effetto sconvolgente, che può darti la spinta a fare un salto qualitativo, di cambiamento. Sempre che dentro di te esistano le premesse… altrimenti continui a fare l’abusante.
Il rituale potrebbe essere l’intervento che mette Erika nella posizione di testimone della propria esperienza con il padre, esperienza che dovrebbe riportare al terapeuta. Questo potrebbe offrirle l’opportunità di riconnettersi con lui e con la capacità di chiedere perdono. In fondo succede la stessa cosa in chiesa, quando ti confessi e l’assoluzione è subordinata a un certo numero di preghiere da ripetere.
Certo, se è solo una messa in scena, il rituale diventa un rituale vuoto. Le nostre culture sono piene di rituali familiari: anche il matrimonio e il funerale sono rituali, anche il pranzo è un rito quotidiano; il rituale è ciò che connette, è una relazione collettiva che identifica una famiglia: i membri che partecipano al rito sono la famiglia. Una volta c’erano più rituali, erano molto più seguiti, anche i rituali di passaggio, come i rituali delle matricole, quelli che determinavano il passaggio dalla vita adolescenziale a quella adulta; il rituale del servizio militare, piuttosto duro; tutte le società hanno avuto dei riti di passaggio, si chiamano così (Van Gennep, 1909). Oggi invece i rituali sono molto diminuiti di numero e sono meno praticati. Secondo molti, questa è una delle ragioni per cui la gente si sente molto più insicura. Prima i rituali creavano gruppi che trovavano la loro identità collettiva attraverso i rituali stessi.
Sono stato in Israele diverse volte per condurre dei seminari. La società ebraica è molto ritualizzata, e i riti laggiù creano una coesione molto forte fra i cittadini. Invece i rituali da noi sono pochi e spesso poco sentiti. Per esempio, nei rituali del battesimo, della cresima, del matrimonio, del funerale, spesso prevalgono l’apparire e lo spettacolo che oscurano i valori profondi di tali cerimonie.
Anche la messa è un rituale: ma quando vediamo che il sacerdote che spezza il pane, non proviamo più le emozioni dei cristiani di un tempo, è diventato un gesto abituale, un rito vuoto. I rituali possono essere usati in un solo incontro di consulenza, con effetti a volte clamorosi; ma, più spesso in terapia li usiamo dopo che si è stabilito una relazione di fiducia con la famiglia. Nell’esecuzione del rituale i partecipanti devono portarlo a termine con precisione e ripeterlo il numero di volte prescritto, rispettando gli intervalli indicati; non devono commentare quanto è avvenuto durante il rituale nel tempo che intercorre tra la prima performance, la seconda, la terza e così via. Ne parleranno solo alla seduta successiva. Questo perché è fondamentale che si creino due sequenze separate nella vita della famiglia: durante il rituale e durante il resto del tempo. Nell’esecuzione del rituale i membri della famiglia devono operare secondo regole insite nel rituale stesso diverse dalle loro. In altre parole, la proibizione di parlarne negli intervalli impedisce di confondere i due livelli di esperienze e permette un nuovo apprendimento.
Così, nel rituale immaginato per Erika è il terapeuta che le dice come e quando chiedere perdono. Il terapeuta è un essere umano, e lei è un essere umano che vive tra gli esseri umani, nel mondo dove è accaduto qualcosa. A meno che non sia totalmente confusa o psicotica — tanto da non capire nulla — non può non capire che ha commesso qualcosa di molto grave, un reato, tanto che si trova in galera!
La terapia si prefigge di aiutare, e nel nostro caso aiutare è far riconoscere attraverso un rituale il delitto che lei ha commesso, un crimine di cui si assume la responsabilità e quindi chiede perdono. La minima cosa che può fare è chiedere perdono. A chi? Al padre!
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