L’eredità di Luigi Boscolo: le riflessioni degli allievi delle Sedi del CMTF

L’eredità di Luigi Boscolo: le riflessioni degli allievi delle Sedi del CMTF

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a cura di Ada Piselli e Barbara Trotta
Contributi di Giorgia Pedroncelli, Francesca Pizzasegola, Elisa Fagiolo, Giulia Alberini, Adriana Davoli, Nelda Tempistilli, Flaviana Bertocchi.

L’eredità di Luigi Boscolo

Giorgia Pedroncelli, Francesca Pizzasegola, Elisa Fagiolo, allieve III anno, CMTF sede di Milano

Non ero ancora iscritta alla scuola quando, attraverso un videotape, ho “conosciuto” Luigi Boscolo, psicoterapeuta. Ero una tirocinante post laurea ancora indecisa su cosa fare in futuro. Insomma, vidi questo video in cui uno psicoterapeuta, addirittura uno dei fondatori della scuola di Milano, interrompeva, talvolta in maniera un po’ sgarbata, i familiari che stavano parlando in seduta, per farne parlare altri.

Cosa stava succedendo?

Ora, ormai al terzo anno della Scuola di Milano, con le mie colleghe ho ragionato sulla risposta al mio quesito. Gli interventi di Luigi Boscolo danno la possibilità a ciascuno di parlare, sono utili a rompere il pattern comunicativo del sistema per riorganizzare il discorso affinché non si producano le escalation tipiche di quel sistema familiare. Boscolo fa capire, dunque, che ognuno ha il diritto di parlare, esprimere la propria idea, dire la sua “verità”.

Rompere il pattern comunicativo, permette di mostrare agli altri che si può interrompere la persona che parla sempre, proponendo così di sperimentare una nuova forma di comunicazione da cui emergono nuove forme di relazioni e di organizzazione della famiglia.

Durante una seduta di terapia familiare si possono sperimentare famiglie caotiche, famiglie con un segreto, famiglie in cui un solo membro pare avere il permesso di parlare per tutti, e molte altre. Luigi Boscolo, come il direttore di un’orchestra, stabilisce l’andamento, il ritmo e il tempo, coordina le dinamiche della seduta, introducendo la differenza tra “sentire” e “ascoltare”. Nel momento in cui una persona risponde ad una domanda che è stata rivolta a qualcun altro, Boscolo la interrompe come a dire “io ti sento ma non ti sto ascoltando”, perché vuole ascoltare la persona a cui ha fatto la domanda, con una qualità di ascolto e sentire speciali. Quasi poi volesse dire alla persona a cui è tolta la parola: “ma ti accorgi che ti impediscono di parlare? Ti va bene o vuoi cambiare qualcosa?”. Tutto ciò aiuta a conoscere la famiglia non dalla soglia della porta o dal buco della serratura, ma entrando completamente nella stanza, presenti per intero nel sistema famiglia. Questo atteggiamento ci sembra necessario: noi potremmo essere esperti di famiglie, in quanto siamo cresciuti all’interno di una di esse, ma capire quelle degli altri è difficile: dobbiamo entrarci per poi decentrarci.

Gli argomenti sopra descritti, credo che in realtà denotino una sensibilità di Boscolo nel far emergere in una famiglia quei sentimenti che spesso vengono nascosti o non vengono visti: lui li vede, gli dà spazio, li accoglie e, così facendo, dà modo a tutti i membri della famiglia di fare lo stesso. I bambini, sono compresi, mai considerati una presenza marginale, o semplicemente la cornice di un quadro: sono parte attiva del dipinto familiare, tanto da essere elevati a co-terapeuti nel qui ed ora, e con i loro contributi illuminare le dinamiche familiari.

Oltre alla preziosa eredità delle registrazioni video delle sedute di Luigi Boscolo, ci sono riflessioni nell’osservazione delle famiglie durante i colloqui. Una riflessione, che ho sentito particolarmente utile, è rispetto all’importanza del tempo in psicoterapia. Lo scorso anno tra i libri considerati fondamentali abbiamo letto I tempi del tempo di Luigi Boscolo e Paolo Bertrando, datato alla prima stampa 1993, ma attuale come se avesse attraversato il tempo insieme a chi negli anni ha continuato a formarsi. In terapia il tempo è quello del qui ed ora, il tempo presente che connette la storia passata e apre le porte a nuovi e molteplici punti di vista “traghettandoli” verso il futuro. Questo mi ha portato a riflettere sulla necessità da parte del terapeuta di condurre un continuo esercizio, sia durante le sedute sia nel momento di discussione in équipe, nel tentativo di ampliare i confini delle proprie premesse e, quindi, della propria storia.

Nel testo Boscolo propone come punto di osservazione del sistema-famiglia il tempo. Può essere espressione di stabilità, mantenuta da eventi ricorsivi nella generazione orizzontale o in quelle transgenerazionali. Il tempo può essere anche quello del cambiamento, nel quale si notano eventi o fatti irreversibili che rendono la famiglia diversa da quello che era in precedenza.

In connessione al tempo vi è il timing che è quella particolare sensibilità di entrare in sincronia con le persone sedute davanti a noi nella stanza di terapia. Il timing implica la capacità di “cogliere l’attimo”, ad esempio in cui proporre una tematica oppure una domanda, successivamente ad un’apertura. La stessa domanda in un momento differente e “fuori tempo” può essere meno perturbante o può risultare disturbante; non avere il medesimo effetto in chi l’accoglie e ciò potrebbe ricadere nella relazione terapeutica. Ascoltare il proprio ritmo e riuscire a sincronizzarlo con l’altro o gli altri è un compito arduo per il terapeuta e implica il saper danzare a tempo con i pazienti. La dimensione del tempo, insieme a quella dello spazio e al corpo possono essere delle coordinate dell’equilibrio psichico dei pazienti e del terapeuta in connessione.

Il tempo è una questione fondamentale anche per descrivere ciò che Boscolo faceva con il paziente designato: secondo noi gli parlava, con curiosità ed interesse. Per dargli riconoscimento e per cercare di scoprire quale fosse il motivo per cui si si comportava in un certo modo. Il sintomo era considerato corretto, sintonico a quel momento (ecco il tempo che ritorna) e spesso lo utilizzava nelle prescrizioni, chiedendo, per esempio, al paziente designato di continuare a comportarsi come già stava facendo, per far sì che si potesse proseguire con la terapia.

Noi allievi di oggi non abbiamo conosciuto Boscolo e Cecchin di persona, tuttavia restano vive le storie, i racconti, le emozioni dei loro allievi, ormai didatti, che quando si aprono le porte durante le lezioni sospirano e ci dicono di fare spazio a questi due grandi maestri perché i loro spiriti sono entrati nella stanza.

Il cammino della terapia sui passi di Luigi Boscolo

Giulia Alberini e Adriana Davoli, allieve IV anno, CPTF sede di Padova

Il telefono squilla. Rispondo e dall’altra parte risuona la voce di un uomo: è un giovane papà di 45 anni. È preoccupato per il suo secondogenito, Alberto, che ha cominciato a mangiare in modo incontrollato anche di nascosto dal resto della famiglia. “Il resto della famiglia?” chiedo, “di chi stiamo parlando?”. Ebbene, la famiglia di cui parla è una famiglia ricostituita che vede convivere il nostro giovane papà con Carla, la compagna, assieme ai rispettivi figli: due suoi, Alberto (13 anni) e Bruno (17 anni), e uno di Carla di nome Dario (18 anni). La mamma di Alberto e Bruno è morta quando il primo aveva 8 anni e il secondo 12 anni. Propongo un primo colloquio famigliare durante il quale inviterei in seduta tutta la famiglia per meglio capire la situazione e avere un quadro il più possibile completo, inoltre informo che non sarò da sola, ci sarà anche la mia collega: “Quattro occhi e quattro orecchie possono meglio cogliere la situazione che ci porterete e valorizzare tutto quello che voi potete dirci sulle vostre preoccupazioni”. Il papà accetta, accetta subito e di buon grado la proposta formulata, chiudo la chiamata fissando un appuntamento al quale parteciperanno tutti. Non abbiamo avuto la fortuna di conoscere di persona Luigi Boscolo e assistere alle sue lezioni, ma ci rendiamo conto che molte (diremmo tante) delle pratiche cliniche a noi pervenute durante la formazione al CPTF prendono piede e si sviluppano proprio dal suo pensiero e da quel rivoluzionario modo di pensare e impostare la terapia. Pietro Barbetta e Umberta Telfener sostengono che Boscolo e Cecchin “più che entrare in psicoterapia, la terapia la portano fuori”. Il paziente, infatti, non è solo colui che entra nella stanza del terapeuta, il paziente ha una vita al di fuori di essa, partecipa in diverse relazioni e contesti che gli rimandano una immagine di sé e così facendo contribuiscono a delineare e definire anche il sintomo e, a volte, a mantenerlo. Ecco allora che l’attenzione si sposta, e già durante la telefonata è stato possibile cogliere l’aggancio al contesto di Alberto, portato e descritto come “paziente designato”, o meglio colui che esprime un possibile malessere della famiglia, rendendolo fruibile, visibile e arginabile in una forma che solo apparentemente è legata esclusivamente a lui. Io e la mia collega prima della seduta prefissata ci interroghiamo sui pochi dati a nostra disposizione che già ci inducono a definire una pre-ipotesi. La pre-ipotesi e l’ipotesi, ecco un’altra eredità fondamentale nella terapia sistemica che è stata portata avanti a partire dagli insegnamenti di Luigi Boscolo: “Come mai le famiglie che vediamo hanno trovato la ‘soluzione patologica’ tra tante possibilità?”. Il sintomo smette di essere considerato una entità a sé stante, una entità che combatte e disturba la famiglia, per diventare qualche cosa che deve essere capito, che deve trovare un senso prima che una soluzione capace di renderlo “inutile” al sistema che lo ha generato. Ebbene in questa riflessione di pre-seduta ci troviamo a percorrere varie idee, ipotesi che riescano a connettere al meglio tutti i dati a nostra disposizione. Ogni opinione viene seriamente presa al vaglio: è un gioco di squadra in cui si cerca di tessere una rete di senso per tentare di creare quella che Boscolo definiva una “ecologia delle idee”, un sistema in cui tutto si connette. L’opinione dell’una non prevale su quella dell’altra perché l’obiettivo non è quello di svelare una presunta verità nascosta, quanto quello di creare un’ipotesi che potrà guidare il nostro agire in seduta. A questo proposito ecco altre due linee guida sorte dal pensiero di Luigi Boscolo che tanto hanno contribuito allo sviluppo del Milan Approach: l’idea di una équipe paritetica, che tanto si discosta dalla direttività esercitata in altre linee di pensiero sistemico come ad esempio quello portato avanti da Minuchin, e l’utilità dell’ipotesi la quale non deve essere fotografia della situazione “reale” quanto “utile” al sistema stesso, ovvero perturbante dell’ordine omeostatico che il sistema porta con sè. L’informazione che la madre dei due ragazzi soffrisse di anoressia e bulimia, svelata già durante il primo contatto telefonico, diventa fulcro del nostro pensiero sul caso: il disagio infatti viene espresso diversamente in ogni famiglia proprio perché è il sistema stesso a dargli una forma, un linguaggio col quale esprimersi. Si delinea l’idea che il modo di alimentarsi della madre possa avere in qualche modo avuto una certa influenza sul modo di alimentarsi e di esprimere il disagio di Alberto, il figlio… Ci accorgiamo di quanto sia presente il pensiero di Boscolo in quest’ultima frase: negli anni di formazione al CPTF abbiamo da subito dovuto imparare a considerare le etichette diagnostiche come mere descrizioni e non come entità patologiche a sé stanti che si possono contrarre alla stregua di un raffreddore. Ecco allora che in questi insegnamenti si sente tutto l’invito di Luigi Boscolo a sforzarsi a “non etichettare il paziente” e ad “accettare il suo linguaggio […] introducendo nel sistema famiglia, in modo implicito, ma potente l’idea che ci sono delle buone ragioni, ancora sconosciute, che lo inducono ad assumere determinati comportamenti e che sono delle ragioni di tipo relazionale”. La mamma allora non era anoressica e il figlio non è bulimico: il verbo essere viene sostituito da diciture che rimandano ad un comportamento assunto più che ad uno stato immutabile dell’essere. Arriva il giorno della prima seduta: con piacere constatiamo che tutti hanno colto il nostro invito e di buon grado si accomodano. Cominciamo a conversare, ebbene sì conversare. L’approccio che Boscolo e Cecchin hanno impostato si basa proprio sulla conversazione, ma non una conversazione tra amici, no! In questa conversazione regna l’asimmetria e la riflessività che si basano sull’intervista circolare in cui si cerca di creare una danza in cui considerare significative le risposte della famiglia e del paziente per porre la domanda successiva. Sullo sfondo la viva consapevolezza che il terapeuta non deve essere “esperto della famiglia”, ma “esperto del setting”, delle sue regole e delle sue “possibilità perturbative” come direbbe Boscolo, riconoscendo i componenti della famiglia come unici e veri detentori autorevoli della propria vita. Ebbene dalla danza conversativa instauratasi emerge come ad essere maggiormente in difficoltà sia Bruno, il fratello maggiore di Alberto, la cui fortuna risiede principalmente nel non ingrassare nonostante le abbuffate. L’attenzione alle dinamiche relazionali in corso e ai passaggi comunicativi ci permette di notare un atteggiamento difensivo di Alberto nei confronti del fratello, tanto da mettere in secondo piano il sintomo portato (le abbuffate di Alberto) che viene ridefinito dalla famiglia stessa come “fame nervosa” che si attiva quando il fratello non è in casa. Ricordando la frase di Cecchin “noi ci fidanziamo con le ipotesi, ma non ci sposiamo”, prendiamo in considerazione un’ipotesi alternativa. Consideriamo infatti l’informazione della morte della madre per incidente automobilistico come informazione interessante per ridefinire la pre-ipotesi e costruirne una alternativa. Il fratello maggiore, Bruno, comincia ad uscire più spesso (vista la ritrovata libertà post covid) ubriacandosi all’occorrenza, mentre Alberto, segnato dalla morte della madre per incidente, si preoccupa in quanto non ha sott’occhio la situazione. Aggiungendo a questo quadro alcuni elementi trigenerazionali, ecco spuntare la nonna materna che chiama ogni nipote almeno 3 volte al giorno, informazione questa che ci fa pensare a dinamiche di controllo che possono essere state apprese dai ragazzi e che quindi possono giocare un ruolo assieme a tutto il resto. Non pretendiamo in questo breve elaborato di presentare tutta la complessità del caso in questione, e non vorremmo che le riflessioni riportate in questa sede vengano considerate come uniche praticabili, anzi! Quello che vorremmo sottolineare sono i principi che Luigi Boscolo e i suoi colleghi del Milan Approach sono stati in grado di formulare e che sono a noi pervenuti grazie a questi quasi quattro anni di formazione: la ricorsività che vede la terapia come processo auto-organizzato e quindi non prevedibile a priori, ma al massimo ipotizzabile; la fiducia nelle persone che in questo modo non vengono appiattite sui loro sintomi; il piacere della danza conversativa che fa affiorare significati importanti per la persona e il suo sistema; l’atteggiamento di ricerca attiva che ha sostituito il curare in cui si passivizza il paziente e ultimo, ma non ultimo, l’invito alla curiosità verso le persone che veicola un messaggio di implicito rispetto “io ti vedo”. Luigi Boscolo sottolinea inoltre come la cibernetica di second’ordine abbia introdotto tutti questi elementi, inducendo a pensare il setting terapeutico come sistema con proprie dinamiche. Non abbiamo idea degli ulteriori sviluppi della terapia in questione, ma grazie all’impiego di questi e molti altri insegnamenti del Milan Approach a noi pervenuti attraverso la nostra formazione presso il Centro Padovano, siamo pronte come terapeute a considerarci come parti in gioco e come perturbatrici dell’omeostasi costruita.

Dare voce alle emozioni

Nelda Tempistilli, allieva IV anno, CPTF sede di Trieste

Per molti anni si è pensato al modello sistemico come ad un misto di strategie e mosse appartenenti ad un terapeuta molto abile. Ciò ha fatto in modo che si trattasse di un modello che cambia soltanto la spiegazione di ciò che accade ai pazienti, fornendo loro un altro punto di vista.

La sistemica rischiava, dunque, di essere relegata ad un modello prettamente narrativo, poco incline a maneggiare emozioni.

Durante la mia attività di terapeuta libero professionista ho potuto constatare come l’analogico abbia un’importanza fondamentale nella conduzione di una terapia. Non è soltanto parte di un processo, ma è la modalità attraverso cui è possibile rilevare i principali aspetti derivanti dall’eredità che Boscolo. Boscolo affermava che “tutte le persone vogliono essere viste”. Il rischio è quello di tecnificare gli aspetti analogici, mentre a mio parere come terapeuti si dovrebbe imparare ad “osservarsi” di più per riuscire a “vedere” meglio gli altri.

Il principale mezzo di comunicazione che Boscolo utilizzava nelle sue terapie era la voce. Essa, tuttavia, non era soltanto un mezzo strategico per ottenere un cambiamento da parte dei pazienti, ma una modalità di entrare in connessione con il paziente, rendendolo responsabile della propria vita, delle proprie scelte e del proprio sintomo. Tutto ciò è possibile se si va oltre il concetto statico di “guarigione” e se si insiste sulla cura del paziente intrapresa con partecipazione.

Un buon terapeuta non è soltanto colui che padroneggia con destrezza le tecniche della sua epistemologia di riferimento, dunque non è soltanto colui che sa e che sa fare, ma anche e soprattutto colui che sa essere, inteso come essere consapevole di se stesso e di ciò che il paziente esperisce. In tal senso le tecniche utilizzate, quali metafore, similitudini non rimangono solo tali, ma si configurano come una modalità di essere in terapia. La terapia diventa la capacità di creare leggerezza, di improvvisare attraverso un atteggiamento aperto e non giudicante.

Vedere l’invisibile, lavorare sul non detto diventa fondamentale durante il primo percorso terapeutico intrapreso con la mia prima paziente.

L. è una ragazza di 30 anni, soffre di obesità da quando ne ha 10 e si reca in terapia perché la rabbia che la avvolge la sta divorando poco a poco. È l’ultima di tre figli. L. è triste ed arrabbiata. L’obesità la costringe a rimanere a casa con dei genitori che non riescono a vederla veramente, impossibilitata ad organizzare la sua vita in autonomia.

Ogni sintomo ha un significato: permette alla persona di assumere nel suo contesto una determinata posizione e di funzionare nel momento presente. L. è invasa dalla rabbia. Pur avendo un fidanzato e la possibilità di uscire fuori di casa, il sintomo le permette di rimanere nel nucleo familiare e di proteggere una madre che all’interno della relazione con il marito non ha mai avuto voce in capitolo. È pervasa dalla paura, si definisce debole, inadeguata, incompresa da tutti, come se il mondo fosse un nemico. Il sintomo le permette di dare un senso alla vita dei genitori, rendendo la sua piena di paure, sensi di colpa e rabbia.

Per comprendere il suo malessere è stato necessario costruire una relazione terapeutica basata sulla fiducia e caratterizzata da un linguaggio empatico che andasse a promuovere la vicinanza.

Mi viene in mente di lavorare con L. utilizzando la tecnica della Mindful-eating. L’obiettivo è quello di farla entrare in risonanza con se stessa, di ascoltare i suoi bisogni e le sue esigenze e di rispondervi in maniera appropriata. Per poter agire in questo modo in qualità di terapeuta non ho solo seguito diverse ipotesi, farmi domande sulle azioni intraprese, ma ho preso in prestito da Boscolo la capacità di far accadere le cose senza forzarle, accettare i limiti della paziente, connotando positivamente ciò che di buono sarebbe accaduto. Proporre la leggerezza attraverso la focalizzazione sul respiro, come accade durante il percorso della Mindful-eating, hanno permesso di cambiare anche me. Sintonizzandomi con le mie emozioni ho potuto constatare come la rigidità iniziale del mio corpo avesse lasciato spazio ad una maggiore apertura. La stessa flessibilità l’ho riscontrata in L.: il suo corpo, che inizialmente era ritratto su se stesso, è diventato eretto e più sicuro. Ciò le ha permesso di prendere fiducia in se stessa e anche nella terapia. La Mindful-eating non è stata soltanto una tecnica, una strategia per promuovere un cambiamento, ma si è configurata come la capacità del terapeuta di “essere” con il paziente, di non agire attraverso il pilota automatico, ma di farsi guidare dalla curiosità e dal non giudizio.

La più grande responsabilità di un terapeuta non è tanto quella di saper applicare tecniche e strategie, ma le modalità attraverso cui è in grado di entrare in contatto con i pazienti e di fare delle scelte sul suo modo di agire. Con L. non ho voluto soltanto raggiungere un risultato, ovvero la conquista dell’autonomia, ma soprattutto creare una connessione con la paziente e con il mio mondo interiore.

Allievi e maestri: Un sistema come un genogramma fatto di frattali epistemologici e di gratitudine

Flaviana Bertocchi, allieva IV anno, CPTF sede di Padova

Ci è mancato poco che lo conoscessi, avendo frequentato il primo ed il secondo anno negli anni 2012-2013, visto che lui è mancato nel 2015. Ho la sensazione che mi sia passato accanto, come se facessi per voltarmi indietro e non lo trovassi, ma sentissi una presenza, un fruscìo, un vento leggero come di qualcuno che passa, con l’odore caratteristico dell’ineffabile. Da allora sono passate per me altre epoche e altre “vite”, tra le quali, oltre alle mie, quelle dei miei figli con le loro fasi della crescita, nuove identità lavorative, vicissitudini di vario tipo, movimenti del macrosistema, tra i quali pandemia e guerra. Nel silenzio del mio studiolo, il ticchettìo della mia tastiera e nient’altro. Un momento di raccoglimento a parlar di lui, il “nonno” epistemologico nel sistema familiare del quale faccio parte come simbolica figlia, in quanto allieva della Scuola. Come tutti i nipoti, vedo negli occhi dei “genitori” (sempre in senso epistemologico) che conosco ed ho conosciuto (Mosconi e Peruzzi) le emozioni, il senso di appartenenza, i ricordi, i conflitti, le contraddizioni, i sentimenti, i legami che hanno intrecciato con questa persona e, da nipote, sento questo bagaglio che ho cercato volutamente, anche per uscire allo scoperto e nell’ignoto e di cui ora con curiosità mi interesso. Similmente com’è stato per il nonno, le mie radici filosofico-epistemologiche sono affondate nell’orientamento psicoanalitico e psicodinamico: uno sforzo per me immane è stato, non lo nascondo, quello di uscire da quella stanza ovattata di simbolismi e interpretazioni e distaccarmi dal riconoscimento di essere il “dottore” che sa, riconoscimento vacuo, ambivalente e pericoloso che può darci il neofita. Per la prima volta sentivo dire che il maggior esperto della propria storia era il cliente, facendo così scendere la figura dello psicoterapeuta dal predellino su cui sogliono porsi taluni di essi. Ho compreso infatti quanto possa essere rischioso quel predellino per il rischio d’inciampare nelle trame delle proprie ipotesi unilaterali, se formulate nella solitudine dell’intrapsichico e della terapia individuale con unico terapeuta. Difficilissimo assumere l’ottica sistemica, per me, abituata all’individuo e al suo ginepraio intrapsichico, perché ingannata da questa solitudine che non metteva in discussione la mia timidezza. Non mi spiego infatti come Boscolo abbia potuto pensare e concepire un modo totalmente altro di conoscere l’umano, quando io viva come una difficoltà l’assumere l’ottica sistemica già “confezionata” da altri (tra i quali, lui) descritta, profusamente spiegata e infiocchettata all’interno di libri che odorano di carta buona, che promette un impianto possente, coerente, avvolgente, le cui letture recano la promessa di possedere infine una chiave epistemologica ed un approccio tanto vivace e apparentemente semplice nel linguaggio, quanto spiazzante. Perché dunque la scelta della Scuola di Luigi Boscolo? Perché a me questa rivoluzione copernicana vissuta dietro allo specchio unidirezionale sembrava una sorta di teatro anatomico, da dove vedere, finalmente, una seduta che avesse per partecipanti gli attori del dramma familiare reale e dove gli allievi avessero modo di osservarne le interazioni come in una sorta di “dietro le quinte” e dove elaborare insieme un’ipotesi co-costruita nel confronto. Questa possibilità mi sembrava un’opportunità unica per superare i rischi della solitudine onnipotente del terapeuta psicodinamico o del terapeuta di altro orientamento, il rischio del mestiere che mi ero preparata in un lungo training a svolgere. Questa sorta di “controllo sociale” di cui beneficia il terapeuta sistemico attraverso l’équipe dietro lo specchio, mi appariva come l’opportunità di essere inserita in una sorta di frattale dove ogni membro-modulo è utile a formare l’immagine complessiva, mi sembrava un’ancora di salvezza contro il rischio burn-out, una condizione perciò ottimale per il lavoro psicoterapeutico e la preservazione della propria salute psichica, condizione che non sono mai sicura di detenere del tutto soltanto perché annoverata, ex lege, tra chi ha l’abilitazione alla professione sanitaria e perciò alla cura. Da allieva, mi sembra in ogni caso per niente scontato, anche dopo due anni e mezzo tra le sue carte e dietro a quello specchio, ragionare in senso sistemico, ma al contempo mi appare anche necessario, come se mi trovassi ora ad un punto di non ritorno, in cui non sia più possibile ritornare all’intrapsichico, dopo aver conosciuto il pensare sistemico.  È come se avessi provato una sorta di agorafobia verso il pensare sistemico, perché esso mi porta verso spazi ora impensabili ora più semplicemente imprevisti, facendomi provare quel tuffo al cuore che provano i timidi quando vengono chiamati all’improvviso a parlare di fronte ad un pubblico. Durante quest’anno ho avuto due episodi di neurite vestibolare (con i sintomi acuti della labirintite con vomito). In quei frangenti mi sono chiesta, al di là delle reazioni avverse ad un farmaco certificate poi dall’otorino, se non si fosse trattato anche di una sorta di disorientamento e rifiuto/difesa dovuto al pensare sistemico, perché ritenuto troppo sconvolgente, includente tutte le possibilità d’interazione, come se mi fossi sentita sopra una sorta di ruota panoramica dalla quale vedere la realtà da diverse angolazioni. Si è infiammato il mio orecchio interno, ho perso l’equilibrio e ho rigettato, forse anche le idee che la “Madame intrapsichica” non voleva sentire o considerare. Ci ho riprovato: mi sono riseduta dietro a quello specchio rimettendomi ad ascoltare le ipotesi, le domande e gli interventi micidiali e che nessuno mi aveva mai fatto in dieci anni di colloqui psicodinamici vissuti da paziente e che qui vedevo fatti con disinvoltura e beffarda ironia in prima seduta. Ancora, egli mi ha prospettato un nuovo modo di fare teoria, con un linguaggio apparentemente semplice, senza fronzoli, astrusità e incravattati formalismi, con una libertà quasi sfacciata nel descrivere la vita relazionale, attraverso un formidabile impianto che includesse finalmente tutti, anche il terapeuta, ormai sceso definitivamente dal desueto predellino per affrontare, descrivere, ipotizzare, vivere le regole del gioco, la circolarità della relazione e del pensiero, la connotazione positiva, la valorizzazione della differenza e una depatologizzazione che rende sfumati i confini tra le più rassicuranti antinomie. Questa sorta di equilibrismo teoretico implica un certo coraggio e forse questo signore alto e dalla corporatura massiccia ne aveva, visto che ha potuto permettersi il lusso di vivere la psicoterapia con questa attitudine alla sospensione del giudizio e al destreggiarsi tra le reti relazionali senza rimanervi impigliato. Proprio mentre mi accingevo a terminare questa riflessione sull’eredità scientifica (che io vivo soggettivamente piuttosto come un’antropologica ed ermeneutica visione che fa luce sul mio cammino) del Dottor Boscolo, sono venuta a conoscenza della scomparsa del Dottor Galvano, che nel genogramma epistemologico di allieva, annovero come una sorta di zio. Sto vivendo queste perdite come il tumulto sperimentato in seguito all’infrangersi delle grandi onde percepite dal brigantino durante i momenti di tempesta della nostra vita, che ci scuotono improvvisamente facendo crollare tutte le nostre certezze riposte con cura sulle mensole della nostra quotidianità, o come quando veniamo derubati di qualcosa che ci appartiene e cerchiamo di consolarci pensando che quell’oggetto a noi caro dopotutto ce lo portiamo nella memoria e nel nostro cuore e non abbiamo motivo di provare rabbia per la perdita ingiusta. Gli insegnamenti di Boscolo e ora anche di Galvano sono la nostra eredità ed essi rivivono negli interventi e più in generale nella memoria delle centinaia di migliaia di allievi che ne hanno studiato la letteratura e nella clinica con i pazienti che incontrano i terapeuti sistemici. Concludo con le ultime parole che Galvano mi ha rivolto, la cui atmosfera che porto in eredità, io accosto al Dottor Boscolo al quale è dedicata questa riflessione. Quando ci congedammo all’ultima lezione, gli dissi “è stato un piacere” e lui mi rispose “il mio” con un inchino e un sorriso dalla luce e vitalità negli occhi tipica dei grandi, che mi fece abbassare lo sguardo e provare un leggero nodo alla gola, con lo stesso struggimento che si prova quando si entra nell’officina di D’Annunzio e ci s’inchina di fronte all’Arte.