Le voci del sistema come mezzo per “co-tessere” una nuova realtà terapeutica nella psicosi (parte seconda)
di Dimitris Triantafyllou
psicologo clinico e psicoterapeuta, email: dimitris.triant@yahoo.gr
Tradotto da Eleni Karliampa
Serge, 40 anni
Serge è stato inviato all’autore da un medico della clinica nell’aprile 2018 poiché i suoi sintomi psicotici includevano allucinazioni audiovisive, disturbi del sonno ed episodi depressivi. Affermava che vedeva e sentiva quotidianamente davanti a sé la moglie morta, che era stata violentata e uccisa davanti a lui, mentre era ancora nel suo paese, la Guinea. Le prime 8 sedute si sono svolte con cadenza settimanale per i primi 15 giorni.
Il primo incontro, dopo che Serge è stato inviato dal medico della clinica per un sostegno psicoterapeutico, è stato un primo breve incontro alla presenza del medico.
Dopo una introduzione iniziale, Serge espresse la sua esitazione e probabilmente il suo disaccordo con l’idea di avviare un percorso psicoterapeutico, dicendo che sua moglie non lo avrebbe permesso. Quando il terapeuta gli chiese il motivo di questa obiezione, lui rispose che lei gli stava dicendo di non fidarsi di nessuno tranne lei e che solo lei era capace di prendersi cura di lui e di proteggerlo. Inoltre, quando gli chiesero dove fosse in quel momento la moglie morta, rispose che lei era lì al suo fianco e che lo accompagnava sempre. Il terapeuta gli domandò se gli sarebbe piaciuto avere due sedie su cui sedersi per cominciare una prima conversazione. Serge rifiutò. Il terapeuta gli suggerì di discutere con lei la possibilità di venire lui stesso ad una prima seduta di prova e di informarlo della loro decisione. Serge accettò l’offerta di discuterne con sua moglie, dicendo al terapeuta e al medico che anche lei era d’accordo con l’idea che parlassero tra loro per prendere una decisione.
La settimana successiva Serge tornò e accettò di partecipare alla prima seduta, ma a condizione che fosse presente anche sua moglie. Dopo avergli spiegato che non solo era la benvenuta, ma anche che la sua partecipazione sarebbe stata particolarmente utile, la seduta ebbe inizio, furono fatte le necessarie presentazioni e per lei fu aggiunta una sedia vuota nella stanza. Dopo che Serge ebbe presentato sua moglie Sonalie al terapeuta, gli venne chiesto (come ad altri pazienti) di fungere da interprete/intermediario in modo che il terapeuta potesse comunicare anche con sua moglie o con chiunque altro partecipante fosse invitato alle sedute e capisse cosa dicono.
La seduta continuò discutendo delle difficili condizioni di vita di Serge nel campo di Moria e degli incubi che lo assalivano ogni notte. Riferì inoltre che negli ultimi tempi soffriva di dolori fisici crescenti in diverse parti del corpo, sebbene, affermò, ogni volta che veniva visitato da un medico non si riscontravano risultati anomali relativi alla sua salute fisica. Questa affermazione fu confermata dal medico della clinica Medici Senza Frontiere, dopo aver effettuato gli esami. Va notato che quando a Sonalie venne chiesto, tramite Serge, se desiderasse contribuire alla discussione, lei rispose di no.
Nella seconda seduta, la storia dell’incontro e della relazione della coppia è stata discussa più approfonditamente dal punto di vista di Serge, poiché Sonalie non voleva partecipare alla discussione.
Sonalie rimase come osservatrice fino alla terza seduta, nella quale prese la parola e disse al terapeuta di nutrire una grande incredulità nella capacità della clinica, compreso il processo di psicoterapia, di aiutare davvero suo marito. Il terapeuta le chiese come pensava che suo marito potesse essere sostenuto. Rispose che quello che ha aveva da dire dovrebbe finalmente essere ascoltato, perché nessuno lo ascoltava, e che dovrebbe sentirsi al sicuro. Ha aggiunto che lei è l’unica persona di cui può fidarsi. Successivamente, quando a Serge è stato chiesto quali fossero le sue impressioni sulle dichiarazioni di Sonalie, rispose che era d’accordo, ma che lui stesso aveva paura di quello che doveva dire, aggiungendo che voleva proteggere Sonalie da ciò che aveva da raccontare. Questa affermazione, secondo Serge, rese Sonalie nervosa, poiché aveva reagito con forza al pensiero che non si fidasse abbastanza di lei. Lui rispose che aveva il dovere nei confronti dei suoi genitori di proteggerla, come aveva promesso loro.
La quarta sessione ha portato all’invito di due nuove voci, su richiesta di Serge. Queste due voci erano il padre e la madre di Sonalie, con i quali, dopo un primo incontro con lo psicologo, si è discusso della realtà vissuta da Serge e Sonalie nel campo di Moria, in condizioni di vita estremamente difficili, ma anche di ciò che hanno sperimentato dopo aver lasciato il proprio paese. I genitori di Sonalie erano stati catturati dal regime, torturati e giustiziati due mesi prima dell’omicidio della figlia. Inizialmente, Serge interpretò negativamente la presenza dei genitori di sua moglie come una fonte di stress e un grande peso, a causa della sua incapacità di proteggere la moglie e di mantenere la promessa fatta loro. Gli incontri successivi hanno portato a una riformulazione di questo significato e alla creazione di una nuova narrazione in cui i genitori di Sonalie sono diventati voci rassicuranti.
Nella settima seduta ebbe luogo una conversazione tra Sonalie e i suoi genitori, durante la quale sia il terapeuta che Serge erano per lo più osservatori, con Serge che trasmetteva il contenuto della conversazione al terapeuta. La conversazione ruotava attorno al rifiuto di Sonalie di accettare che il suo posto fosse più accanto ai suoi genitori e meno accanto a Serge. Tale rifiuto era innescato dalla posizione dei suoi genitori, i quali, commentando la sua relazione con Serge, lasciavano intendere che il suo atteggiamento gli stava causando più dolore.
Nelle sedute successive non sono tornati i genitori ma solo la coppia. La terapia di coppia è seguita per circa altre quattro sedute, durante le quali Serge ha iniziato a discutere di cosa provava per sua moglie, che era allo stesso tempo fonte di dolore e amore, concentrandosi sul suo forte senso di responsabilità per la morte di lei poiché non era stato in grado di proteggerla.
Alla dodicesima seduta Serge venne da solo. Interrogato sull’assenza di Sonalie, sostenne che lei gli aveva detto che non aveva più bisogno di venire con lui o di accompagnarlo costantemente ogni giorno al campo, poiché credeva nella sua forza e capacità di prendersi cura di se stesso.
Nella tredicesima seduta, Serge dichiarò di averla salutata e che non pensava di rivederla, pur sentendo il suo amore. Venne concordato con il terapeuta e lo psichiatra che il follow-up sarebbe stato limitato e che la terapia sarebbe continuata per un breve periodo. All’ultimo contatto con il terapeuta nel settembre 2020, Serge non aveva avuto ricadute e non assumeva più farmaci psichiatrici.
Risultati e discussione
L’approccio psicoterapeutico presentato in questo testo è stato applicato a circa 150 pazienti ammessi alla clinica di MSF a Lesbo. Sebbene la presente discussione tratti solo due casi provenienti da paesi dell’Africa sub-sahariana e francofoni, i partecipanti provenivano da contesti e contesti culturali, linguistici e socioeconomici diversi.
La durata del percorso terapeutico variava dai tre ai sei mesi circa e le sedute si svolgevano inizialmente con cadenza settimanale e, verso il completamento del trattamento, ogni quindici giorni. Dopo aver completato il ciclo di trattamento, tutti i partecipanti sono stati seguiti regolarmente per un periodo da uno a due anni, a lunghi intervalli. Questo monitoraggio è consistito principalmente in incontri sporadici e comunicazioni telefoniche.
Il processo che abbiamo esposto ha prodotto i seguenti risultati in relazione all’uso delle voci interiori dei partecipanti nel contesto clinico specifico:
- I partecipanti nella posizione della persona curata hanno sentito fin dalle prime fasi dell’approccio che il loro modo di percepire e vivere il mondo non è solo una peculiarità o una malattia propria, ma che può essere condiviso e comunicato, purché ci siano uno o più destinatari che sono ricettivi a questa trasmissione/condivisione e al modo in cui viene effettuata.
- Dopo aver lavorato con lo psicologo/terapeuta in trattamento, i sopravvissuti hanno iniziato a prendere consapevolezza e a sviluppare una relazione dialogica con le loro voci. Questa relazione ha portato a processi comunicativi in cui i sopravvissuti occupavano e assumevano posizioni differenti all’interno del sistema di relazioni che si sviluppavano tra loro in quanto pazienti e le diverse voci che preesistevano e/o apparivano nel sistema.
- Lo sviluppo graduale della relazione dialogica ha aiutato i terapeuti a riconoscere e apprezzare il valore di tutte le voci, preesistenti e nuove, anche quelle potenzialmente o inizialmente connotate in modo negativo relativamente al vissuto del paziente, nei termini della loro utilità e per il loro contributo alla comunicazione esistente e al sistema relazionale.
- Evidenziare la polifonia interiore o multivocalità del paziente come componente di una polifonia più generale che esiste nel mondo come distinta dalla narrativa della diagnosi clinica tradizionale, ha portato alla sua riformulazione da condizione patologica, “folle” o malata a processo creativo, utile e speciale per ciascuno di loro. Questa risignificazione ha generato una reinterpretazione quasi totale dei sintomi e delle loro esperienze, sia prima che dopo la comparsa di questi sintomi.
- La riformulazione dei sintomi dei partecipanti e del loro quadro clinico ha migliorato significativamente la loro creatività nel gestire, organizzare e utilizzare voci/sintomi in modo che possano compiere passi verso la creazione di un sistema di autogestione interna sostenibile.
- Il metodo è adattabile a tutti i contesti culturali e linguistici, nonché alle diverse forme attraverso le quali si esprimono le differenti voci dei partecipanti.
- È stato osservato che, sebbene il metodo sia stato implementato anche con l’aiuto di mediatori/interpreti interculturali, la sua attuazione è stata più semplice senza mediazione grazie all’immediatezza della comunicazione. Tuttavia, con una formazione preventiva o una consultazione con mediatori/interpreti, il processo può essere ulteriormente arricchito.
- Il modo in cui i pazienti e i partecipanti osservano, danno significato, sviluppano e (co)plasmano il loro potenziale autocreativo e di autoregolazione è direttamente e non linearmente connesso al modo in cui la struttura/sistema terapeutica, compresi i professionisti della salute mentale, dà significato e percepisce socialmente, epistemologicamente e clinicamente, la loro psicopatologia e questo potenziale di autoregolazione. La natura dinamica della creazione di queste nuove connotazioni e di questi significati risiede nello sforzo costante di avvicinarsi al concetto di “malattia”, principalmente attraverso le voci della medicina e della psichiatria tradizionale occidentale dominante, la voci della Psichiatria Alternativa (Democratica o Interculturale), le voci del sistema culturale e di valori dei partecipanti relativamente alla natura della loro sintomatologia e situazione, ma anche attraverso le voci del contesto socio-politico per come si esprimeva nella loro vita quotidiana, dalle condizioni di vita sfavorevoli nel centro di detenzione alla loro interazione quotidiana con la popolazione locale.
I risultati di cui sopra si aggiungono alla discussione sull’uso epistemologico del concetto di autopoiesi dei sistemi in diversi contesti teorici, di ricerca e clinici di diversa dimensione e gamma di varietà di dati, informazioni, stati delle loro parti e quindi complessità proprio sfruttando questa varietà e complessità.
Come accennato in precedenza, questo approccio presenta similitudini con altri approcci, soprattutto per quanto riguarda la pari possibilità di voci diverse all’interno di un sistema e l’impatto che l’interattività può avere nel contesto della psicosi. Anche l’importante lavoro psicoterapeutico di Jaakko Seikkula Open Dialogue (Seikkulla, Olson, 2003), nel contesto della psicosi, utilizza come base il concetto di polifonia di Bachtin e i principi dialogici in psicoterapia. Comunque, si evidenzia un utilizzo differente del sistema delle voci interne alla persona, nell’aproccio che presentiamo.
Un sistema autopoietico è, come logica conseguenza, anche un sistema autocorrettivo. Così come, secondo Bateson, qualsiasi sistema presente in natura comprende sempre “complessi meccanismi di autoregolamentazione e riequilibrio, che tenderanno a perpetuarlo” (Bateson, 1972).
L’uso delle voci dei partecipanti nella terapia è un esempio di un modello di autoorganizzazione e autoregolazione interna.
Il ruolo dello psicoterapeuta in questo caso è stato inizialmente quello di contribuire al riconoscimento del valore di tutte le diverse fonti di informazione riformulandole da sintomi di una psicopatologia, come la psicosi, a elementi interagenti che possono avere utilità e scopo. In secondo luogo, era un osservatore e quindi un partecipante al sistema e quindi un elemento del sistema stesso, ma il cui discorso era caratterizzato, a priori, dai partecipanti come la voce dell’“esperto” e questo va notato, indipendentemente dal fatto che si provi a riformulare il ruolo dell’esperto, come accennato in precedenza.
Inoltre, i sistemi delle voci interne dei partecipanti (professionisti e sopravvissuti), così come i numerosi sistemi delle voci associati al contesto della clinica, costituiscono differenti livelli di informazione che interagiscono tra loro. Attraverso questa interazione, si forma la struttura organizzativa di un sistema più ampio.
Se, ora, si pone l’attenzione sulla struttura organizzativa del sistema di voci interno dell’individuo e sui diversi livelli interagenti che lo compongono, una questione che si pone e che si collega allo specifico approccio terapeutico è:
“Come avviene la comunicazione tra questi livelli affinché l’individuo mantenga il suo equilibrio interiore, pur essendo allo stesso tempo ricreato dalle stesse materie prime, sempre in dialogo con i sistemi di voci del mondo esterno?”
Retrospezione e retroattività sono due concetti centrali in questo modello di pensiero/azione autopoietico e autoregolativo e invitano al collegamento con il modello teorico dei Sistemi Sostenibili di Beer.
Nei campi della matematica e dell’informatica, la ricorsione è la definizione o costruzione di una funzione attraverso se stessa, attraverso il suo corpo, in cui la funzione in fase di costruzione viene applicata alla sua stessa definizione. La ricorsività è una proprietà del ricorsivo. Nel campo della cibernetica e dei sistemi complessi, la ricorsione si riferisce alla possibilità/capacità di ricorsione continua, nonché al modo in cui il sistema realizza questa capacità, così come avviene per il concetto di autoriflessione (pensare al modo in cui penso e agisco ) e autoriflessività (pensare alla capacità di autoriflettere e al modo in cui lo faccio). Pertanto i concetti di ricorsività e autoriflessività sono inestricabilmente legati tra loro e, di conseguenza, al concetto e alla possibilità di autoregolazione.
Stafford Beer ha applicato la teoria cibernetica dei sistemi ricorsivi e autoregolanti al campo del management e alle organizzazioni attraverso il Cybernetic Management e il Viable System Model (VSM), secondo cui il meccanismo attraverso cui si raggiunge l’equilibrio in un sistema o una struttura organizzativa si basa principalmente su molteplici livelli interconnessi, che comunicano tra loro in modo ricorsivo. Beer ha utilizzato come base epistemologica anche il concetto di “varietà necessaria” di Ross Ashby, riferendosi alla varietà di possibili stati differenti all’interno di un sistema a seconda di come li percepisce l’osservatore, e al modo geometrico in cui questa varietà (e quindi la complessità) aumenta all’interno del sistema affinché possa accogliere la varietà di dati che l’osservatore filtra attraverso i sui sensi durante la loro interazione col mondo (Ashby, 1956).
Nel Viable System Model di Stafford Beer (Beer, 1972) abbiamo tre elementi chiave coinvolti nel dare forma e nell’influenzare qualsiasi sistema auto-organizzativo:
Processi: elementi che fanno cose.
Gestione: elementi che controllano i processi.
Ambiente: il contesto circostante entro il quale operano gli altri elementi.
La varietà dell’ambiente supererà sempre quella dei processi, e la varietà dei processi supererà sempre quella della gestione. Poiché il modello è ricorsivo, implica la possibilità di diverse forme di sistemi e stati interconnessi, creando molte combinazioni di interazioni e attività, ma sempre ciascun livello dovrebbe essere trattato come quello principale, se esiste un livello di ricorsione più elevato al di sopra di esso. Ciascuna funzione nel Modello di Sistema Sostenibile non appartiene necessariamente a un ruolo specifico al suo interno, ma può essere svolta da diversi attori (individui o gruppi). Inoltre, ogni attore può eseguire differenti funzioni o assumere differenti posizioni (Beer, 1972).
Se proviamo a parallelizzare l’approccio considerato con il modello teorico di Beer, potremmo classificare le voci/fonti di informazione dei sopravvissuti o nei processi, o nella gestione, o nell’ambiente e quindi in uno dei sottosistemi di funzionamento di un sistema praticabile, come descritto nel suo lavoro Brain of the Firm (Beer, 1972).
Nel caso presente del contesto clinico che stiamo esaminando, le voci dei sopravvissuti possono occupare posizioni diverse a diversi livelli all’interno dei differenti sottosistemi interagenti che compongono la loro organizzazione interna. Un sistema sostenibile secondo Beer è composto da cinque sottosistemi interagenti che possono essere schematicamente mappati su aspetti della struttura organizzativa (Beer, 1972).
I sistemi 1–3 si occupano del “qui e ora” delle operazioni dell’organizzazione. Il sistema 1 è un sistema sostenibile che contiene diverse attività primarie. Ciascuna delle sue attività principali è di per sé un sistema vitale, poiché la ricorsività è una caratteristica primaria dei sistemi vitali. Queste attività sono legate a funzioni che implementano una parte di qualsiasi trasformazione vitale dell’organizzazione. Il sistema 2 rappresenta i canali e i corpi di informazione che permettono alle attività principali del sistema 1 di comunicare tra loro. Il Sistema 3 rappresenta i controlli e le strutture che vengono creati e messi in atto per definire e stabilire le regole, le responsabilità, i diritti e le risorse del Sistema 1, nonché per presentare un’interfaccia con i Sistemi 4 e 5. Rappresenta il quadro generale dei processi all’interno del sistema 1. Il sistema 4 si occupa del “lì per lì” – risposte all’impatto delle richieste esterne, ambientali e future sull’organizzazione e come l’organizzazione deve adattarsi per rimanere vitale. Il sistema 5 si occupa di bilanciare il “qui e ora” e il “lì e poi” per dirigere l’organizzazione nel suo insieme riguardo alla “politica” dell’organizzazione – le scelte di pensiero e di azione che mantengono l’organizzazione come un’entità vitale – bilanciando le richieste provenienti da diverse parti dell’organizzazione.
Il modello deriva dall’architettura del cervello e del sistema nervoso. I sistemi 3-2-1 si identificano con il sistema nervoso autonomo. Il sistema 4 integra conoscenza e conversazione. Il sistema 5, funzioni cerebrali superiori, include l’introspezione e il processo decisionale.
È interessante, in base a quanto sopra descritto della struttura di un sistema sostenibile secondo Beer, riflettere su quali voci, durante il processo terapeutico con i casi clinici presentati, appartengano a ciascuno dei 5 sottosistemi e, di conseguenza, in che misura le voci del terapeuta e l’(iper)contesto hanno causato lo spostamento di alcune voci e/o la riorganizzazione del funzionamento del sistema interno dei sopravvissuti.
Ecco un diagramma che mostra una rappresentazione più schematica del modello di Beer:
Tornando ai casi clinici presentati, le voci dei sistemi di valori, morali e costumi di Jean e Serge, e le percezioni che queste voci presentano dei loro sintomi e del concetto di malattia mentale in generale, si relazionano con le voci messaggere dei costrutti e delle richieste dell’ambiente culturale, linguistico e socio-politico che sono costantemente presenti nel Sistema 4, come interlocutori.
In questa conversazione entrambi i sopravvissuti restituiscono costantemente, in modo diverso, tante delle voci presenti nella loro quotidianità (Sistema 1), come processi ricorsivi con cui conversano (stati emotivi o anche altri significativi, come la famiglia, amici, partner), vengono riosservati e, eventualmente, riviene dato loro un significato, vengono riformulati.
Questa riflessività, l’esistenza, cioè il potenziale intrinseco dei sopravvissuti di ri-riflettere sulla natura, il ruolo e il luogo delle voci già esistenti, è introdotta da voci del contesto clinico e più specificamente dallo psicologo/psicoterapeuta e dallo psichiatra. Creano, in collaborazione con i sopravvissuti e le voci specifiche del contesto clinico, il terreno comunicativo che garantisce la diffusione delle informazioni tra le voci esistenti dell’individuo (Sistema 2) e le regole con cui si svolge il processo terapeutico in modo da invitare e allo stesso tempo incoraggiare il coinvolgimento dei partecipanti alla terapia come osservatori di tutte queste voci, non solo come portatori di esse.
Un esempio compatibile potrebbero essere le voci del fratello e della madre di Jean, nonché di Sonalie, la moglie morta di Serge, che da voci che esprimono le esigenze dell’ambiente (soddisfare i bisogni, responsabilità verso obblighi o aspettative) sono passate al ruolo di gestori/regolatori di queste ingiunzioni ambientali (Sistema 3), valorizzando al contempo la percezione dell’offerta e il valore del trattamento nella vita quotidiana dei sopravvissuti.
Pertanto, introducendo l’autoosservazione e la riflessività nel quadro dialogico della terapia, si sono rafforzate le voci che, dopo l’introspezione e il dialogo interno, hanno portato i visitatori della clinica a nuovi modelli di autoregolamentazione e autogestione che hanno assicurato un equilibrio tra i diversi sub-sistemi, in nuovi modelli di comunicazione tra questi, in un nuovo linguaggio.
La ricorsione insita in un sistema lungo i suoi livelli garantisce l’esistenza della varietà nonché la risoluzione di un possibile stato di indecidibilità, ovvero – per parlare con riferimento al contesto attuale – uno stato di impasse comunicativa non risolvibile in modo algoritmico (rispondere sì o no). La combinazione di questi meta-livelli porta alla creazione di un Meta-Linguaggio, che può in ogni momento aiutare il sistema a risolvere le indecisioni.
Il ragionamento alla base della scelta della teoria di Beer come fondamento epistemologico centrale di questo particolare approccio è che, sebbene appartenga agli esordi della Teoria Sistemica e a prima vista appaia come un modello piuttosto complesso e meccanicistico, si presenta come estremamente stabile, ma allo stesso tempo allo stesso tempo un fondamento flessibile su cui si possono combinare teorie e metodi diversi, come quelli di Bachtin e di Hermanns, e teorie che fanno parte della cibernetica di secondo ordine, come quella di Humberto Maturana e Francisco Varela presentata sull’autopoiesi e la mente incorporata, la Scuola di Terapia Sistemica di Milano e l’approccio narrativo di Michael White, per come è realizzato nel contesto della clinica.
La ragione per cui ciò è possibile è che, pur trattandosi di un modello nell’ambito della cibernetica della Gestione e delle Organizzazioni, condensa epistemologicamente i concetti di autogenerazione/autopoiesi, ricorsione/ricorsività, autoriflessione/autoriflessività e, pertanto, è adattabile a contesti diversi in modo da introdurre o supportare questi concetti all’interno di ciascun contesto. In altre parole descrive un modello di sistema praticabile che, potenzialmente, può essere applicato a qualsiasi organismo capace di autonomia.
In nessun modo la presente teoria, né nessun’altra di per sé, è un approccio “ideale” nel campo della psicoterapia o in qualsiasi altro contesto, né esiste una cosa del genere. Tuttavia, per la sua versatilità, è stato considerato dal terapeuta compatibile con lo sviluppo epistemologico e clinico e con l’applicazione del metodo in esame.
In sintesi, le teorie sopra menzionate sull’autopoiesi, la polifonia, la molteplicitàa del sé, la ricorsività, l’autoregolazione, nel contesto della psicopatologia clinica, ma anche più in generale, sollevano la seguente domanda:
Come può il partecipante al processo terapeutico, nella posizione del soggetto in trattamento o del diagnosticato, utilizzare la natura retrospettiva delle interazioni all’interno del sistema delle sue voci, indipendentemente dalla forma che possono assumere, per avere in ogni momento la possibilità di riformulare i significati associati a queste voci e riorganizzare i ruoli che ricoprono?
Il principio del tentativo di indagare l’utilizzo dei sintomi psicotici (o di altra natura) come punto di partenza per la creazione di un meta-linguaggio che garantisca la continua autoregolazione di questo sistema, presuppone una diversa concezione della psicopatologia della psicosi in cui il sintomo non è inteso, a priori, come un derivato della malattia da eliminare ma, forse, come un “messaggero” portatore di un messaggio e quindi una “finestra” sulle stupefacenti e ancora inesplorate possibilità di autocreazione e autoregolazione della psiche umana. Una concezione così diversa della psicopatologia della psicosi, a sua volta, presuppone una definizione del sé come creazione sociale/sistemica.
Al posto dell’epilogo
Le righe che seguono menzioneranno, in poche parole, i modi in cui il processo terapeutico è risuonato nelle voci personali del terapeuta. La riflessione e l’autoosservazione erano un processo continuo che si svolgeva parallelamente alla terapia, e ciò che si osservava era la presenza sistematica di tre voci/emozioni all’interno del terapeuta: la curiosità, la compassione e l’accettazione di non sapere o di non avere il controllo del processo terapeutico. Quest’ultimo sentimento di accettazione (o tolleranza), che pone automaticamente lo psicoterapeuta come un co-viaggiatore che segue il paziente/guida nel suo mondo sconosciuto di significati e voci, probabilmente ha mitigato un po’ la voce/emozione di paura verso l’ignoto o l’imprevedibile che può incontrare.
Potremmo dire, quindi, che la collaborazione di fronte all’ignoto ha agito come un “cuscinetto” protettivo contro l’insorgere delle voci di paura e di controllo che forse istintivamente si verificherebbero nei casi in cui la voce dell’“esperto” è esposta a situazioni al di fuori del suo campo di ipotesi/convinzioni. Insieme alla partecipazione di queste voci identificate, si è svolta una discussione “interna” ed esterna con un supervisore/psicoterapeuta (mensile) su quali di esse possono contribuire al processo terapeutico e, di conseguenza, essere introdotte nella discussione con i pazienti e le loro voci.
Allo stesso tempo, si è sviluppato un dialogo continuo con la voce del terapeuta come “esperto” per quanto riguarda la posizione che occupava in relazione a due sistemi di voci particolarmente prominenti: il sistema di valori/credenze dei sopravvissuti, basato sullo specifico contesto culturale di origine menzionato, e il sistema organizzativo di MSF che era legato alla loro struttura, alla filosofia generale e, di conseguenza, alle richieste che ponevano ai professionisti della clinica in termini di modalità di diagnosi, organizzazione e registrazione del loro lavoro.
A questo punto è necessario precisare che si fa riferimento diretto non solo alla gestione della Clinica MSF, ma soprattutto ai principi generali dell’organizzazione, a prescindere dall’operatività. Il motivo per cui questo va chiarito è che il coordinatore dell’équipe di salute mentale della Clinica è stato particolarmente ricettivo e favorevole a questo metodo di pensiero e di lavoro clinico, mostrando sempre curiosità nei suoi confronti, così come lo psichiatra della Clinica, mobilitato da sistemi di voci propri, legati alla sua pratica scientifica e ai suoi valori. Il sostegno di queste due persone e la loro partecipazione al processo terapeutico sono stati particolarmente utili per esplorare, sviluppare e applicare il metodo nello specifico contesto clinico.
Le richieste da parte della direzione di MSF hanno anche rafforzato le voci di rabbia e frustrazione del terapeuta, in quanto spesso c’era un conflitto tra i sistemi scientifici e valoriali (in particolare la voce della moralità) dello psicologo/psicoterapeuta e le voci della struttura organizzativa di MSF che, in larga misura, enfatizzava la raccolta di dati statistici (principalmente quantitativi), con l’obiettivo di presentarli per ottenere ulteriori finanziamenti, per le loro operazioni future. Va notato che l’enfasi posta sulla raccolta di dati statistici quantitativi a scapito di quelli qualitativi non era in conflitto con i valori/voti primari di neutralità, indipendenza e imparzialità presenti nello statuto fondativo dell’organizzazione.
Inoltre, in base alle specifiche modalità di gestione e funzionamento dell’organizzazione e dal momento che vi era una costante registrazione dei dati quantitativi degli ospiti ricoverati e dimessi della Clinica, e che tale raccolta di dati era adeguata per garantire i loro sforzi futuri, gli aspetti qualitativi del lavoro dei professionisti all’interno della Clinica non costituivano una priorità principale per l’organizzazione, né lo era il mantenimento di tali caratteristiche in seguito al cambiamento della composizione di quella particolare équipe terapeutica. Questi aspetti qualitativi comprendevano l’applicazione del metodo psicoterapeutico in questione e i modi in cui l’équipe terapeutica ha imparato a introdurre l’autoriflessività nel suo lavoro interdisciplinare, oltre a una visione più olistica dell’ipercontesto della clinica.
Per concludere, sarebbe interessante che i lettori esplorassero le proprie voci e il modo in cui rispondono a questo testo. Questo, infatti, costituirebbe un invito a nuove discussioni che arricchirebbero e amplierebbero ulteriormente il presente dibattito.
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