La tecnica, cioè l’arte

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di Massimo Giuliani
Docente del Centro Milanese, Direttore di “Connessioni”.

Questo scritto viene dagli appunti che avevo preparato per la tavola rotonda su “Stile e tecnica di Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin” nella giornata “Frontiere del Milan Approach” organizzata dal Centro Milanese di Terapia della Famiglia il 23 marzo 2018. L’influenza mi ha impedito quel giorno di parlare di queste cose coi colleghi; credo che questo spazio, dove stiamo ragionando del presente e delle prospettive dell’approccio (ne hanno già scritto Umberta Telfener e Pietro Barbetta), sia quello giusto per riprovarci.

Si fa strada da anni una posizione che vorrebbe archiviare l’armamentario tecnico della terapia sistemica come un reperto del passato; che auspica di disfarsi dell’ipotizzazione, delle domande triadiche e di tutto il resto come di ferrivecchi ingombranti che ostacolano la relazione.
È un grande dispiacere, davvero, perché non sono sicuro che tutto questo fosse necessario, nemmeno alla causa sacrosanta di un modo più “leggero” e meno autoritario di fare terapia.
Credo ci siano ragioni storiche per cui ciò accade, e non è solo per qualche specie di nuovismo o di furor rottamandi. Credo che, agli albori, la scelta di definire la terapia come una guerra (la “terapia strategica”) abbia pesato sul futuro di quel modo di lavorare. A nessuno piace stare in guerra e, d’altra parte, a mettere la guerra e la cura sotto lo stesso tetto, una delle due prima o poi sarà a disagio. Ma il punto è che tanti, quando hanno deciso di lasciarsi finalmente la guerra alle spalle, hanno buttato via anche tutto il resto. “Il bambino sistemico con l’acqua sporca”, dicevo in un articolo di qualche anno fa (Giuliani, 2014).
Il giorno in cui ricordammo Luigi Boscolo a un anno dalla morte, dissi che la famosa scansione della seduta (quella di Paradosso e controparadosso, Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata, 1978) in pre-seduta, seduta, discussione, intervento finale, ed infine stesura del verbale, era nient’altro che la struttura di un racconto, in cui si costruiva e si alimentava un crescendo narrativo fino al rituale finale dell’intervento. Non esiste storia senza ritmo e struttura: ma chi si è preso la briga di demolire quella struttura in nome di una svolta “narrativa” non sempre si è dato pena di spiegarci cosa sia una narrazione.
Io temo sempre che passi l’idea che l’irriverenza sia un modo un po’ scanzonato di parlare con le persone; o la curiosità un modo di ficcare il naso, con grazia però, nelle loro vite. Allo stesso modo temo che tutto questo gran parlare di storie lasci l’impressione che una storia sia mettere in fila i fatti per poi spostarli e cambiarli come i mattoncini del Lego, e che, dal momento che “tutto è narrazione”, non ci sia bisogno di dire altro al riguardo. Se qualche volta ai nostri allievi terapeuti in formazione abbiamo lasciato intendere cose del genere, beh, abbiamo un problema.
Vorrei dire con forza che Boscolo e Cecchin, e con loro il primo gruppo di Milano, erano autentici terapeuti narrativi, e lo erano già quando nessuno pensava di definire la terapia in quei termini. Ma non, semplicemente, nel senso che erano tanto bravi a raccontare storie: nel senso che sapevano come si fa. Nel senso che la tecnica del colloquio che hanno inventato, così come l’abbiamo studiata e cerchiamo di insegnarla ai colleghi più giovani, era una vera e propria tecnica narrativa. Muoveva, cioè, dalle stesse preoccupazioni che animano i narratori nello scrivere una storia.
Allora, quello che Boscolo e Cecchin sapevano (e che lo sapessero si capisce da quel che facevano, anche se magari non l’hanno mai descritto, e credo mai pensato, in questi termini) è che una narrazione implica un’architettura, e la costruzione di quest’ultima implica la cognizione di quel che si sta facendo: per dirla meglio, implica una tecnica. La parola tecnica, magari, suona sospetta ai terapeuti conversazionalisti e narrativisti, perché fa pensare a una terapia come arte della manipolazione da parte di chi “sa”. Ma il greco tèchne, da cui tecnica, e la parola latina ars, da cui arte, significano praticamente la stessa cosa. E se vogliamo guardare alla terapia come territorio che confina con quello dei narratori, non possiamo espellere dai nostri interessi qualunque preoccupazione tecnica, cioè artistica. Una narrazione non è soltanto fatta di materiale da raccontare, ma anche dei modi di organizzare quel materiale nella maniera più efficace. Una narrazione è un montaggio. E oltre che un montaggio, è una selezione di avvenimenti (Mozzi, 2009).
Insomma, un narratore ha una tecnica, magari implicita e difficile da descrivere anche per lui. Ma Bateson diceva che chi pensa di non avere un’epistemologia, semplicemente, ha una cattiva epistemologia: credo che qualcosa di simile si possa dire per la tecnica.
Provo a spiegare, in forma schematica, cosa secondo me avvicinava la narrativa dei nostri Maestri agli autori di romanzi.

1. Il “patto terapeutico” come “patto narrativo”
Coleridge (1817) teorizzò che l’opera letteraria richiedesse al lettore una sospensione dell’incredulità. Vale a dire quella posizione per cui egli mette parzialmente e momentaneamente fra parentesi le facoltà critiche e accetta come se fosse vera una storia che sia, in larga e diversa misura, una storia fittizia; sospensione che non rinuncia – anzi, la reclama – a una credibile coerenza interna.
Parimenti, in terapia il “patto terapeutico” richiede una momentanea sospensione dell’oggettività. È quel tacito accordo per cui il paziente accetta (per un certo tempo) di sospendere parzialmente il pensiero paradigmatico e di entrare in un contesto di comunicazione in cui metafore e storie hanno uguale dignità che le spiegazioni esperte; accetta che il terapeuta abbia una competenza non tanto sui fatti delle vite altrui, ma su strutture narrative atte a ordinare quei fatti in una storia di senso. Dal canto suo, il terapeuta non chiede al paziente di credere a storie nelle quali egli stesso non creda.

2. Il “dispositivo drammatico”
Si intende con questa espressione il cuore della storia, quell’evento funzionale a innescare le vicende (Cassani, 2018). Il “dispositivo” dei “Promessi Sposi” è l’incontro fra Don Abbondio e i bravi: “Questo matrimonio non s’ha da fare!” Tutto quel che seguirà avrà a che fare con quel fatto, ma sarà molto di più. Solo, senza quel fatto nulla di quello che segue avrebbe senso e nessuno l’avrebbe raccontato. È interessante vedere come Boscolo e Cecchin trattavano il problema, il sintomo dichiarato, come un “dispositivo drammatico”, semplice ma molto convincente, che faceva da motore della storia – e non il problema centrale da risolvere.

3. Una “teoria del personaggio”
Boscolo e Cecchin condividono, diciamo, una “teoria del personaggio” in cui il “paziente designato” è descritto attraverso le sue relazioni con gli altri personaggi. Cassani (2018) scrive: “nei racconti per parole non esistono personaggi, ma relazioni fra personaggi”.
Inoltre nella narrazione terapeutica un “tipo” (il “paziente psichiatrico”) diventa gradualmente un “individuo”, e talvolta emerge come l’“eroe” della storia. Nella rilettura sistemica del problema e del sintomo le sue ragioni, i suoi sentimenti e le sue premesse vengono messi a fuoco e raccontati, laddove prima erano trascurati ed emarginati come idee devianti.
La connotazione positiva contribuisce a far emergere la figura dell’“eroe”.
Alla costruzione del personaggio è connessa una questione spesso discussa: il terapeuta dovrebbe dire sempre tutto quello che pensa? Dovrebbe essere più “trasparente” o “opaco”? Quanto della sua conoscenza e delle sue ipotesi resta implicito?
Per il terapeuta “conversazionalmente corretto” tutto dev’essere esplicitato. Di Boscolo e Cecchin, invece, mi colpiva il modo in cui sfrondavano, lasciavano fra parentesi, per selezionare quello che in chiusura dicevano alle famiglie.
Se (l’abbiamo detto) raccontare non è soltanto mettere in fila fatti, ma è selezionare, credo che Boscolo e Cecchin ragionassero più come scrittori che come terapeuti “conversazionalmente corretti”. Uno scrittore sa del suo personaggio molte più cose di quante ne racconti: se gli chiedi dove si sia diplomato o a che età abbia perso il padre, o come sia fatto il suo genogramma, lui lo sa. Lo “conosce” ben oltre quello che di lui racconta, perché deve immaginare il suo personaggio a tutto tondo, deve conoscerlo perché azioni e pensieri che gli attribuisce abbiano senso. Ha una quantità di informazioni implicite che non mostra ma che utilizza per costruire le proprie ipotesi sul personaggio, la sua personalità e il suo ruolo nella storia. Una storia non è una registrazione a 360 gradi della realtà, ma una selezione nella quale gli elementi inclusi e quelli esclusi sono parimenti importanti (Cassani, 2018).
In questo senso, se la psicodiagnosi ha una parentela con la pratica diagnostica in medicina, l’ipotizzazione sistemica è più vicina alla costruzione del personaggio in letteratura.

4. Le domande triadiche e la “voce narrante”
Il narratore/paziente è interno alla storia e parla in prima persona. Qualche volta parla in terza persona, cioè quando descrive le azioni o le emozioni di un congiunto. Noi la chiamiamo “intervista sistemica”, riferendoci a quella tecnica che ci è utile a incoraggiare le descrizioni reciproche dei membri della famiglia; gli scrittori la chiamano “narrazione con narratore a focalizzazione interna variabile” (cfr. Chatman, 1978), che è quella storia in cui il narratore (interno, o “intradiegetico”) assume il punto di vista del protagonista; oppure ha uno sguardo sempre interno, ma racconta in terza persona.
La collocazione della voce narrante è uno dei problemi prioritari che l’autore affronta nell’accingersi all’opera; per il terapeuta è costante la preoccupazione di favorire le differenti voci narranti e di prendere ogni informazione che emerge dalla seduta come situata e parziale.

5. La circolarità e la “Pistola di Čechov”
In un romanzo o in un’opera teatrale, se in apertura appare un’arma, prima della fine quell’arma deve aver sparato. O, viceversa, se prima della fine un’arma avrà sparato, quell’arma doveva esserci da qualche parte anche prima. Non può apparire così, senza dei precedenti della sua presenza. Allo stesso modo, nella conversazione sistemica un tema non emerge dal nulla, ma ritorna da quello che la famiglia ha detto, magari molti turni di parola prima; e quel che la famiglia dice sarà in qualche modo raccolto dal terapeuta. I temi che ritorneranno nelle domande del terapeuta e nell’intervento finale sono la nostra “pistola di Čechov”. Per spiegare come in una storia nulla accada per caso, e tutto ciò che accade trovi in seguito una ragione, Cassani (2018) usa efficacemente la metafora di “semina e raccolto”.
Insomma, la differenza fra una lista di fatti e una narrazione è che in quest’ultima “tout se tient”, tutto è interconnesso.

6. “Nuclei” e “satelliti”
In una narrazione esistono elementi maggiori, “nuclei”, che fanno avanzare la storia e che di questa costituiscono dei cardini. Altri elementi secondari, “satelliti”, non hanno lo stesso peso nella storia ed anzi possono essere sacrificati senza che quella ne riceva un danno definitivo (cfr. Chatman, 1978). Fa parte della funzione depatologizzante della seduta il fatto che nella narrazione alcuni elementi “nucleo” – ad esempio quelli relativi al sintomo – diventino “satellite” e alcuni elementi “satellite” (la vita del paziente designato, i suoi desideri, le sue idee, ma anche la sua posizione dentro la famiglia) diventino cruciali al punto da offrirsi come nuovi punti di articolazione della storia.

7. L’intervento finale e il “colpo di scena”
Dai tempi di Aristotele l’improvviso e sorprendente riconoscimento dell’identità di un personaggio costituisce una svolta nella vicenda. Ulisse nei panni del mendicante che si fa riconoscere da Telemaco; Edipo che, nel finale tragico, scopre (insieme al lettore stesso!) di essere figlio di Giocasta. Ecco, per la narratologia si chiama agnizione di identità (la “madre di tutti i colpi di scena”, per citare ancora Cassani). In terapia il terapeuta, come a disvelare un segreto ben custodito, dichiarava nel finale che il paziente, l’anoressica, il matto, era in realtà il salvatore della famiglia, il membro che in silenzio osservava i dolori di tutti e se ne faceva carico.

8. Ogni seduta è una prima seduta
Per finire, dispiace che l’offensiva “narrativista” abbia fatto piazza pulita di ogni preoccupazione su ritmo e struttura della seduta e della terapia: i recenti sviluppi della forma dilatata della narrativa seriale (Regazzoni, 2014), in cui i personaggi si sviluppano attraverso molti episodi, e in cui ciascun episodio ha una propria parziale autonomia narrativa, costituiscono una miniera di nuove metafore per una terapia “sensibile alla narrazione”. In gran parte di essa troviamo una trama principale e tante sottotrame che emergono nel corso delle sedute. Nelle sottotrame conosciamo i personaggi, ci appassioniamo, ci identifichiamo con loro, ci interessiamo al loro mondo, alle loro motivazioni, ai loro cambiamenti. La trama “principale” (il sintomo, per quel che ci riguarda) è una specie di macrointreccio che spesso sparisce nello sfondo della narrazione (in molte terapie di Luigi Boscolo al problema sono dedicati i primi tre minuti, o poco più, della seduta di consultazione), ma che è noto e costituisce una cornice implicita.
Penso che se abbiamo tanto parlato di Luigi Boscolo come del terapeuta che ha “riportato” (ma quando se ne erano andate?) le “emozioni in terapia sistemica”, non sia soltanto perché aveva una grande capacità di ascoltare e stare vicino ai suoi pazienti. È anche perché aveva una tecnica, un modo di creare delle storie e di abitarle con le persone, che era veramente emozionante.

Ho già scritto (Giuliani, 2017) che l’alternativa al rinunciare al grande patrimonio del “Milan Approach” la possiamo trovare nella possibilità di deletteralizzare la pesante tradizione sistemico strategica – un po’ come James Hillman (1983) suggeriva di fare con Freud e la psicoanalisi – per approdare a una posizione narrativa. Possiamo leggere Paradosso e controparadosso non come un testo scientifico ma come la storia di quattro terapeuti geniali che si sono inventati un modo di parlare con le famiglie e di incoraggiare il cambiamento. Possiamo leggere i suoi casi clinici mantenendoci scettici sulle spiegazioni degli autori, prendendole anzi come parte della storia, interrogandole e lasciandoci interrogare come si fa con un romanzo anziché con un manuale.
Credo che gli stessi Boscolo e Cecchin, dopo la scissione del team, abbiano compiuto una continua deletteralizzazione di se stessi (v. Cecchin, 1987), ammesso e non concesso che, prima, prendessero alla lettera la terapia strategica. Quando Cecchin raccomandava: “fate una connotazione positiva solo se voi stessi ci credete”, si poneva fuori dalla posizione strategica per prescriverci uno sguardo di secondo ordine, un intervento su di noi come osservatori: in ciò ri-significava profondamente il senso di quella tecnica.
Deletteralizzata, la seduta con l’équipe scandita in cinque parti diventa una struttura narrativa.
Deletteralizzate, le prescrizioni rituali diventano la proposta di un’esperienza metaforica.
Deletteralizzata, la prescrizione paradossale è la promessa di una relazione: “continua ad essere come sei, io sarò comunque qui con te” (si veda Giuliani, 2013).

Bibliografia
Boscolo, L.; Bertrando, P. (1996), Terapia sistemica individuale, Milano, Raffaello Cortina.
Cassani, M. (2018), La trama. Come inventarla, come svilupparla, Milano, Laurana Editore.
Cecchin, G. (1987), “Revisione dei concetti di ipotizzazione, circolarità, neutralità. Un invito alla curiosità”, Ecologia della Mente, 5/1988, pp. 30-41.
Chatman, S. (1978 [2010]), Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Milano, Il Saggiatore.
Coleridge, S. T. (1817), Biographia literaria.
Giuliani, M. (2013), “Strategie per una terapia non strategica: una conversazione con Pietro Barbetta su anoressia e cura”, Psychiatry on line Italia (acc. 14 maggio 2018).
Giuliani, M. (2014), “Il bambino sistemico e l’acqua sporca”, Riflessioni Sistemiche, n. 11, dicembre 2014, AIEMS.
Giuliani, M. (2017), Non puoi improvvisare sul niente. Devi improvvisare su qualcosa. Terapia sistemica fra musica e narrativa. E-book autopubblicato.
Hillman, J. (1983), Le storie che curano, Milano, Raffaello Cortina.
Mozzi, G. (2009), (non) Un corso di scrittura e narrazione, Milano, Terre di Mezzo Editore.
Regazzoni, S. (2014), “La letteratura nell’epoca neo-narrativa della serialità televisiva”, Gli amanti dei libri (acc. 14 maggio 2018).
Selvini Palazzoli, M.; Boscolo, L.; Cecchin, G.; Prata, G. (1978), Paradosso e controparadosso, Milano, Feltrinelli. Rist. Raffaello Cortina Editore, Milano (2003).
Selvini Palazzoli, M.; Boscolo, L.; Cecchin, G.; Prata, G. (1980),“Ipotizzazione, circolarità, neutralità. Tre direttive per la conduzione della seduta”, Terapia Familiare, vol.7, 5-19.