di Luca Casadio
Introduzione
Questo articolo intende proporre una valutazione complessiva delle idee e del lavoro di Paul Watzlawick: uno dei componenti principali del Mental Research Institute (MRI) di Palo Alto. Un centro che ha contribuito a elaborare le prime tecniche sistemiche, tanto nella cura del singolo che della famiglia. L’obiettivo è quello di fornire uno sguardo generale e disincantato – visto il tempo trascorso – su un autore di sicuro rilievo. E anche se la metafora sistemica appare ormai tramontata, continua lo stesso a condizionare le idee e la prassi di diversi autori e clinici che, ancora oggi, si dicono “sistemici”. Valutare le idee di Paul Watzlawick, così, ci permetterà di cogliere tanto le radici di quel pensiero, che l’eredità ancora oggi in atto.
Biografia minima di Paul Watzlawick
Paul Watzlawick nasce in Austria, a Villach, nel 1921, da una famiglia facoltosa. Studia filosofia a Venezia e, dopo la laurea, nel 1954, si specializza al Carl Jung Institute di Zurigo, come terapeuta junghiano, anche se non coltiverà a fondo tale competenza. Quindi, continua i suoi studi a El Salvador fino al 1959, quando si trasferisce negli USA, a Palo Alto, California, dove, grazie a Donald Jackson (già collaboratore di Gregory Bateson negli studi sulla schizofrenia), trova una sistemazione al MRI, in cui lavorerà per oltre quarant’anni.
Sempre brevemente ricordiamo che Don Jackson fonda il MRI nel 1959 “con lo scopo dichiarato di studiare e formalizzare un metodo di terapia della famiglia” (Bertrando, Toffanetti 2000, p. 111) e per non disperdere la ricchezza di idee del gruppo Bateson.
Il primo staff di questo istituto è composto da Don Jackson, Virginia Satir (che poi lascerà il gruppo) e Jules Riskin. A cui si aggiungerà lo stesso Watzlawick.
Il debito con la teoria del doppio legame di Bateson è evidente, anche se non con le idee di Bateson in generale, come vedremo in seguito. A tal proposito, va ricordato che l’incarico di Bateson a Palo Alto si conclude nel 1962. Da questa data, infatti, non ci saranno ulteriori scambi né con Watzlawick né con altri terapeuti del centro, anche se spesso si tende a confondere il contributo di Bateson sulla schizofrenia con il MRI, unendo i due diversi progetti in una fantasiosa, ma del tutto inesistente, Scuola di Palo Alto.
Al MRI Watzlawick segue le orme di Jackson, Weakland e Haley, producendo diversi scritti (che affronteremo qui nel loro insieme). Muore nel 2006, a 85 anni, per arresto cardiaco. Ma per partire con l’analisi dei testi del terapeuta di origine austriaca è necessario ancorarsi a un punto di partenza. Punto di partenza che si può individuare nel modello del doppio legame, introdotto da Bateson e collaboratori nella seconda metà degli anni ’50.
Gregory Bateson e il doppio legame: Verso una teoria della schizofrenia (1956)
Questo articolo, a cura dal cosiddetto Gruppo Bateson (composto da: Gregory Bateson, Don Jackson, Jay Haley e John Weakland), costituisce una pietra miliare dell’ottica sistemico-relazionale. Bisogna ricordare però che Bateson, antropologo, esperto di biologia e padre del pensiero sistemico, arriva a questo appuntamento dopo un lungo progetto di ricerca, osservazione e riflessione sulle cosiddette malattie mentali (che include anche il gioco, l’umorismo, l’apprendimento etc). Studio che si basa sull’analisi della comunicazione e delle modalità relazionali tanto nelle situazioni comuni, che all’interno delle famiglie con soggetti schizofrenici (i cosiddetti pazienti designati).
Le teorie di riferimento del gruppo sono: la teoria dei tipi logici di Russell e Whitehead, quella dell’apprendimento sociale (e poi del deutero-apprendimento, introdotto dall’antropologo inglese stesso) e i paradossi logici. Dall’interazione tra queste diverse idee, considerate in ottica relazionale e in linea con la teoria dei sistemi (vedi: Telfener, Casadio 2001), nascono una serie di spunti utili per orientarsi nell’intricato mondo delle psicosi. Infatti, Bateson e collaboratori hanno individuato tutta una serie di contesti comunicativi in cui i soggetti devono gestire una pluralità di tipi logici. In questo modo, il paziente designato dimostra un’evidente difficoltà nel comprendere i messaggi (verbali e non verbali) che riceve (in special modo dalle persone con cui ha relazioni stabili e significative) e che lui stesso emette. Infatti, si può così affermare che, nell’ottica inaugurata da Bateson, lo schizofrenico utilizzi metafore prive di contrassegno (prive cioè di un contesto condiviso), il che lo porta a confondere il significato metaforico e quello letterale. Da qui i sintomi.
Se queste ipotesi hanno senso la causa della psicosi non è da ricercare in generiche esperienze traumatiche, vissute dal soggetto, magari in tenera età, ma in “strutture di sequenze caratteristiche in cui il soggetto è immerso” e che vengono da lui apprese (o deutero-apprese) fino a diventare abituali.
Individuate le caratteristiche di base del pensiero psicotico, gli autori passano a descrivere il doppio legame (o doppio vincolo), concetto coniato proprio in questa occasione. Il doppio legame rappresenta per Bateson la modalità comunicativa di base delle famiglie schizofreniche. Eccone un esempio: “Un giovanotto che si era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in ospedale una visita di sua madre. Contento di vederla, le mise d’impulso il braccio sulle spalle, al che ella s’irrigidì. Egli allora ritrasse il braccio, e la madre gli domandò: non mi vuoi più bene? Il ragazzo arrossì, e la madre disse ancora: caro, non devi provare così facilmente imbarazzo e paura dei tuoi sentimenti. Il paziente non poté stare con la madre che per pochi minuti ancora e, dopo la sua partenza, aggredì un inserviente e fu messo in un bagno freddo” (1956, p. 262).
Questo tipo di comunicazione è formata da almeno due ingiunzioni (spesso: una comportamentale, fortemente emotiva, e una di tipo verbale) che si contraddicono a vicenda e da una comunicazione terza, che impedisce al soggetto stesso di metacomunicare (e quindi di sfuggire all’intrinseca contraddizione tra i termini), o di abbandonare il campo. Tutto ciò porta il soggetto a vivere una posizione indecidibile. Come aggiungono Bateson e collaboratori: “Noi avanziamo l’ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso” (1956, p. 252), mettendo così in relazione le modalità relazionali e i processi mentali, o meglio con la loro impasse.
La ripetuta esposizione a situazioni di doppio legame finisce per creare impotenza, paura, esasperazione e rabbia. Perché: “Se un individuo non sa di che genere sia un messaggio, può difendersi con atteggiamenti che sono stati descritti come paranoici, ebefrenici o catatonici” (1956, p. 256).
La psicosi viene così ad assumere non il valore di una mancanza o di una distorsione, ma una tipologia di comunicazione e anche un adattamento a un contesto, quello familiare, disfunzionale e paradossale.
Verso una teoria della schizofrenia ha avuto una grandissima risonanza nel campo della psicologia e della psichiatria e, di fatto, ha aperto le porte a un intervento di tipo familiare anche nel caso delle psicosi. Un intervento capace di affrontare la comunicazione paradossale tipica di queste famiglie, e le invalidazioni che questa comporta. Bisogna aggiungere però che Bateson non vedeva di buon grado l’idea di introdurre una nuova forma di terapia (almeno non a quel punto delle ricerche), e, ancor di più, una terapia basta sul concetto di potere, e che, la decisione di scendere sul piano clinico, presa dagli altri membri del gruppo (Don Jackson in primis), ha sancito una rottura, che lo ha portato ad allontanarsi dal mondo della psicoterapia e della cura (anche se non dalla riflessione su questi temi). Nonostante questo doloroso divorzio, l’approccio sistemico alle psicosi non si è fermato qui, anzi. Bisogna anche ricordare che Bateson non si limita a questo contributo; le sue idee, infatti, spaziano tra diversi campi della comunicazione e della relazione umane. Studi e approfondimenti che Watzlawick, e gli altri autori del MRI, non hanno di fatto approfondito. Ma occupiamoci ora degli scritti di Paul Watzlawick, che, come potete vedere, si basano sul concetto di doppio legame.
I contributi di Paul Watzlawick: La pragmatica della comunicazione umana (1967)
Nel 1967, Paul Watzlawick, Don Jackson e Janet Beavin (del MRI) pubblicano La Pragmatica della comunicazione umana, un libro che costituisce un vero e proprio collettore di idee. Questo perché, tale volume intende sistematizzare le conoscenze fino ad allora acquisite nella comunicazione e nell’informazione, per poi trasferirle nel campo della psicoterapia.
Non a caso il libro si apre con alcune riflessioni relative al “contesto” – concetto centrale nell’ottica sistemica – che, secondo gli autori, fornisce la spiegazione di molti comportamenti umani. In questo modo, in accordo con le notazioni di von Bertalanffy, se isoli il soggetto, studi la sua “natura” (spesso ineffabile), se invece lo cali nel suo contesto, allora studi le sue interazioni, la comunicazione con gli altri elementi del contesto stesso.
Il cuore di questi ragionamenti, come recita il titolo stesso, riguarda la pragmatica della comunicazione umana e il comportamento “patologico”. Con il termine pragmatica si intende la valutazione di come: “la comunicazione influenza il comportamento” (Watzlawick, Beavin Jackson 1967, p. 15). Da questo punto di vista, comunicazione e comportamento diventano praticamente sinonimi. L’obiettivo è quello di portare la psicologia, in quegli anni ancora di stampo “monadica” (vedi la teoria di Freud e il suo concetto di “energia psichica”), nel novero delle discipline sistemiche. E, per fare questo, bisogna aprirsi un nuovo punto di vista, passando dall’energia alla comunicazione. Punto di vista in cui il concetto di “retroazione” (o feedback) diviene centrale, in quanto permette di superare la logica lineare causa-effetto, per investigare gli effetti reciproci dei soggetti in interazione. Introducendo una “logica circolare”.
Sintetizzando all’osso: la retroazione “negativa” conduce il sistema a uno stato stazionario, l’omeostasi, appunto, mentre quella “positiva” provoca il cambiamento o la perdita di tale equilibrio.
La “ridondanza” e la “metacomunicazione”, così come la “equifinalità”, costituiscono altri concetti chiave dell’ottica sistemica, da applicare alla psicopatologia.
Però in questo passaggio, il primo punto di vista che gli autori abbracciano è quello che equipara la mente a una “scatola nera”. Non un passaggio neutrale. Concetto che Watzlawick, nella sua carriera, non abbandonerà mai più.
Secondo gli autori tale concetto dimostra evidenti vantaggi, infatti: “non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcuna ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente inverificabile) e possiamo limitarci a osservare i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione” (1967, p. 37).
Riflettendo, però, possiamo dire che, invece che proporre un superamento di alcuni modelli “monadici”, il testo finisce per creare una contrapposizione: interazioni versus idee individuali (cognizioni, emozioni, aspettative). E l’utilizzo della “scatola nera” (nata in contesto ingegneristico e poi utilizzata in campo comportamentista) non permette agli autori di comprendere le idee dei soggetti, come il prodotto di uno scambio tra diversi sistemi in un ambiente (cioè in ottica “sistemica”). Semplicemente, questi aspetti vengono esclusi da ogni ulteriore ragionamento, una vera e propria amputazione.
E scartando le idee, le emozioni e le aspettative dei soggetti stessi, non rimane che il comportamento. Come un evento osservabile.
Nel suo prosieguo il libro mostra un lungo elenco, quello degli assiomi della comunicazione, come: l’impossibilità di non-comunicare, sicuramente il più famoso tra tutti. Ma ricordiamo anche la discriminazione tra livelli di contenuto e livelli di relazione, la punteggiatura della sequenza di eventi (cioè come il soggetto segmenta queste catene circolari in parti, spesso triadi) causa-effetto, la comunicazione numerica e analogica e, in ultimo, le interazioni complementari e simmetriche, prese direttamente dal lavoro di Gregory Bateson (1972)
Questa massa di concetti e modelli viene poi riversata sulla “comunicazione patologica”. In questo modo, la Pragmatica costituisce una sorta di “grammatica sistemica” del tempo, usata come teoria di base per approcciare le famiglie con “pazienti designati”, soprattutto schizofrenici. Grammatica che ritorna al paradosso (come aveva già fatto Bateson) tanto come fonte di impasse relazionale (e quindi di patologia), che di cura, secondo il motto: similia similibus curantur.
Tutto ciò permette di definire la schizofrenia come il frutto di una modalità relazionale, creando di fatto un paradosso comunicativo da cui i membri della famiglia stessa non riescono a uscire (o a metacomunicare).
E qui, una prima considerazione clinica interessante: secondo gli autori, il terapeuta deve svolgere il ruolo di outsider (“esterno alle regole familiari”, p. 232), punto di vista che Watzlawick manterrà anche nel proseguo dei suoi studi. Solo in questo modo, infatti, per l’autore, sarà possibile infrangere le regole familiari e trasformare la comunicazione in atto.
In quest’ottica, il paradosso rappresenta il centro nevralgico dell’intervento clinico. Un intervento alternativo tanto alla presa di coscienza (l’insight), della psicoanalisi, che di alcune forme lineari (che promuovono un cambiamento diretto, informativo), volto cioè all’acquisizione di competenze prestabilite della famiglia o al raggiungimento di determinati comportamenti.
Ma, per essere efficace, il paradosso terapeutico deve mostrarsi diverso rispetto alle comunicazioni familiari. E così, l’intervento di elezione sarà quello di prescrivere il sintomo stesso (giocando sulla spontaneità, o meno, del comportamento), mettendo i membri della famiglia all’interno di un altro paradosso, questa volta terapeutico. Infatti, “Se si insegna al matto come rappresentare il suo sintomo e se il malato, nell’atto di rappresentarlo, scopre che può liberarsene, a nostro parere si ha un risultato che praticamente equivale a quello dell’insight della psicoanalisi classica, anche se può sembrare che non sia stato acquisito alcun insight. Ma nella vita reale il fenomeno sempre presente del cambiamento assai di rado è accompagnato da insight; il più delle volte si cambia senza sapere il perché” (1967, p. 235).
Il volume si chiude con esempi di tecniche paradossali, anche se tale terapia paradossale finisce per mostrarsi meccanica e ripetitiva, oltre che poco partecipativa. Perché di fatto evita la comprensione del comportamento dei pazienti e finisce per estinguersi nel cambiamento dei modi (del singolo o della famiglia) di affrontare le proprie difficoltà. Un intervento che può assicurare trattamenti di breve durata (massimo 10 sedute) e risultati, a volte, sorprendenti.
Change (1974)
Il volume successivo, realizzato da Watzlawick, Weakland e Fisch, intende rappresentare le idee e le tecniche del MRI come anche di un suo distaccamento: il Brief Therapy Center, fondato nel 1967.
Si tratta di un vero e proprio manifesto; il manifesto della creazione e risoluzioni dei problemi. Non a caso, il volume è dedicato al “cambiamento e alla persistenza […] nelle vicende umane in generale” (1974, p. 12), e più precisamente a quello “inatteso e irrazionale”.
L’interesse principale è volto ai processi piuttosto che ai contenuti, al qui e ora della relazione piuttosto che al passato o alle cause che hanno determinato il problema stesso. Come scrive Watzlawick: “la comunicazione non è vista solo come il veicolo, non solo come la manifestazione, ma come un concetto più completo di ciò che viene spesso vagamente riassunto dall’idea di interazione” (in Watzlawick, a cura di Nardone e Ray, 2007 p. 107).
Appare evidente il debito con Milton Erickson (oltre che con Bateson), il famoso ipnotista statunitense, (che ha scritto la prefazione) e con le sue tecniche di manipolazione attiva.
A tal proposito può essere utile ricordare l’articolo: Il contributo di Erickson alla prospettiva interazionale della psicoterapia, del 1982 (in Watzlawick 2007, a cura di Nardone e Ray), a proposito degli obblighi e delle prescrizioni paradossali. Prescrizioni che seguono l’idea che “l’azione precede la comprensione” (2007, p. 194).
In questo modo, per avere una comprensione diversa del proprio problema, il paziente deve essere portato a sperimentare nuovi tentativi. Gli autori stessi definiscono questa prassi come manipolativa, espressamente dedicata al superamento dei sintomi. Proponendo così una “terapia del comportamento”, che non si occupa minimamente delle idee, delle propensioni, della storia e delle emozioni sperimentate dal soggetto o dalla famiglia. Gli autori non si interessano a quello che riguarda il mondo dei loro pazienti; l’unico interesse è rivolto all’impasse che questi stanno vivendo, seguendo il motto: “Il problema è il tentativo di soluzione”.
I riferimenti teorici sono due: La teoria dei gruppi di Evariste Galois e La teoria dei tipi logici di Whitehead e Russell, a cui abbiamo già accennato. Teorie citate espressamente in termini metaforici. E la combinazione delle due teorie evidenzia, secondo gli autori, anche due tipi di cambiamento: “uno che si verifica dentro un dato sistema il quale resta immutato, mentre l’altro – quando si verifica – cambia il sistema stesso” (1974, p. 27), un tipo di cambiamento che comporta paradossi, rotture logiche e salti epistemologici.
Il cambiamento di primo tipo, così, rischia di non cambiare realmente la situazione, rivelandosi omeostatico, nell’ottica di Asbhy o di Cannon, senza modificare il più generale gioco relazionale. Solamente il secondo tipo di cambiamento, di un livello logico superiore, è quello ricercato dagli autori, proprio perché può provocare delle variazioni significative nel soggetto stesso e nel suo modo di vivere le relazioni con gli altri.
Gli autori inoltre ipotizzano che la comunicazione paradossale non riguardi soltanto la schizofrenia, ma tutta la comunicazione disturbata, caratterizzata da illogicità e paradossalità. Estendendo, così, le riflessioni di Bateson all’intera psicopatologia. Il risultato finale è un volume pragmatico, giocato su esempi brevissimi, spesso, soltanto di due righe. Tanto, quello che interessa ai clinici è di cambiare il tipo di soluzioni intentate. Niente di più.
L’uso dello specchio unidirezionale e dell’interfono (oggi non più in uso) emerge proprio in questo periodo, a segnare il controllo nei confronti del paziente, così come dell’equipe stessa. Una modalità che ha contraddistinto una stagione intera della terapia sistemico-familiare. In sintesi, l’intero volume promuove una tesi: le psicoterapie classiche, e, in special modo la psicoanalisi, si basano sulla ricerca del perché di un particolare comportamento, occupandosi del passato del paziente. Così facendo, per Watzlawick, si cerca di spiegare il disturbo, piuttosto che modificarlo. Interessarsi al come, invece, può svelare i tentativi del soggetto di risolvere le sue difficoltà e di creare, quando anche questi tentativi falliscono, il problema. Posizione che Watzlawick manterrà per tutta la sua esistenza.
In questo volume, inoltre, Watzlawick riprende anche il concetto di scatola nera; una proposta che si basa sul come e non sul perché si siano definiti i problemi. Anche se, con più attenzione si potrebbe dire che, utilizzando il concetto di scatola nera, i fattori interni al sistema stesso (aspettative, emozioni, idee, etc), non vengono di fatto considerati, dando importanza soltanto all’output del sistema stesso. Un’ottica prettamente comportamentista.
Inoltre, tale approccio si basa espressamente sulla fiducia dei pazienti nei confronti dei clinici. Una fiducia totale. Questo perché la tecnica di base, è quella del reframing. L’esempio più immediato è quello del commesso viaggiatore che balbetta, soffrendo di tale impedimento. Per tutta risposta, gli autori affermano che questo difetto, invece, comporta un grande vantaggio per il soggetto, perché tutti lo ascoltano e tutti rispettano i suoi sforzi. Ristrutturato in questo modo, l’intervento è concluso.
Così, reframing: “significa cambiare lo sfondo o la visione concettuale e/o emozionale in relazione a cui è esperita una situazione ponendola entro un’altra cornice che si adatta, ugualmente bene, o perfino meglio, ai fatti della medesima situazione concreta, cambiando così completamente il significato” (Watzlawick, Nardone, 1997, a cura di, p. 114, ripresa da Change).
È curioso che questa definizione si basi proprio su istanze che, con il concetto di scatola nera, non vengono mai prese in considerazione, proponendo un’evidente confusione epistemologica. In ogni modo, l’Intervento è sempre pensato come un problem solving. Una soluzione elaborata e comunicata dal terapeuta stesso come una disposizione pratica da attuare, una prescrizione comportamentale (l’aspetto originale di tale modello).
In questo modo tutto è nelle mani del terapeuta, che deve sempre mantenere il controllo sui suoi pazienti. Ai quali, infatti, non vengono comunicate le motivazioni di tali prescrizioni (anzi, è meglio che “risultino oscure”), evitando così di lavorare insieme al paziente stesso. Il terapeuta semplicemente sa cosa fare, e al paziente tocca solamente mettere in pratica le prescrizioni date.
Ma se questo è l’idea di base, potremmo chiederci: dov’è la relazione? Proprio quella relazione descritta come centrale dagli autori stessi. Dov’è la comprensione? L’empatia? Dove la creazione congiunta di senso?
Tutti questi elementi, infatti, vengono bypassati dagli autori del MRI, in virtù di un cambiamento eterodiretto, che rimane sempre e comunque sotto il controllo del clinico. Concludendo: si percepisce chiaramente l’entusiasmo di Watzlawick per le nuove idee della cibernetica e forse, chissà, anche la sua buona fede, anche se l’intervento proposto rimane acritico e fideistico verso idee tutte da verificare sul piano clinico.
Il linguaggio del cambiamento (1977)
Il contributo successivo si propone idealmente di colmare un vuoto. Quello derivato dalla mancanza di una teoria clinica capace di orientare l’intervento stesso. Un intervento, d’altronde, proposto sempre nello stesso modo: “manipolativo e strategico”, anche dopo 20 anni dal famoso articolo di Bateson sul doppio legame.
Il libro si occupa di due diverse forme di linguaggio: una, di tipo astratta e l’altra, invece, di stampo metaforico. L’intento dell’autore sembra quello di definire “una grammatica dell’emisfero destro” (1977, p. 53).
Tale idea mostra immediati risvolti clinici. Infatti: “l’esistenza di queste due ‘lingue’ fa supporre che ad esse debbano corrispondere due immagini del mondo fondamentalmente differenti, giacché è noto che un linguaggio non rispecchia la realtà, ma piuttosto crea una realtà” (1977, p. 24).
Due diversi linguaggi, ma anche due codici diversi, quello digitale e quello analogico, come aveva già sottolineato Bateson (1972). Infatti, nei casi (da laboratorio) riportati nel testo in cui l’emisfero destro poteva inibire le attività di quello sinistro si evidenziavano risposte: “arcaiche, metaforiche, impulsive, illogiche, in una parola: psicotiche” (1977, p. 43).
Mentre, al contrario, la dominanza dell’emisfero sinistro può portare a un comportamento inibito, freddo, iper-razionale, che Watzlawick stesso collega a comportamenti nevrotici e al processo di “dissociazione”, descritto nei primi del ‘900 da Pierre Janet.
Il collegamento con la psicopatologia risulta chiaro. Insomma: l’intera psicopatologia viene vista alla luce della dominanza cerebrale. Il problema principale, però, è che tale teoria segue di fatto la prassi, che è, per Watzlawick esattamente quella dalla Pragmatica e di Change, fatta di paradossi, di superamento di sintomi, di prescrizioni e di reframing. Nulla viene modificato.
Le attività emisferiche, destre e sinistre, permettono a Watzlawick di accantonare momentaneamente lo sterile concetto di scatola nera e tentare di descrivere dei processi mentali (un passo nel cognitivismo).
Virata compiuta per lo più per rispondere ad alcune critiche. E, forse, anche in risposta alla pubblicazione del libro di Bateson del 1976, in cui si occupava proprio dei rapporti tra codici analogici e digitali. Infatti, come scrive Watzlawick: “A molti ricercatori e clinici che per il resto consideravano con molto favore la Pragmatica della comunicazione, dava un certo fastidio il fatto che essa rimanesse apparentemente ‘in superficie’ dal momento che considerava la psiche come un black box (scatola nera) sul cui intimo funzionamento nulla era immediatamente noto, ma poteva essere studiata solo in base alle cosiddette relazioni di input e output” (1977, p. 43).
Quindi, seppur con modalità non particolarmente convincenti – e forse anche controvoglia – Il linguaggio del cambiamento sembra cercare una alternativa alla scatola nera (troppo misera per una teoria sistemica). Non a caso, in quegli stessi anni, anche il Socrate dei sistemi, Heinz von Foerster, chiedeva “una teoria dell’osservatore” (1977, p. 50), come riporta Watzlawick stesso nel testo.
Watzlawick esce da questa impasse in un modo semplice: “imparare il linguaggio dell’emisfero destro” o, nel dialogo terapeutico, causare: “il blocco dell’emisfero sinistro”, come aveva già fatto Milton Erikson anni prima, ritornando così al punto di partenza.
In questo modo si forniscono al paziente (o alla famiglia) delle prescrizioni paradossali capaci di inibire proprio la parte razionale. Una soluzione che, di certo, non risolve le aporie teoriche. Anche perché, il tentativo di fornire una teoria cerebrale, resterà un unicum. Il volume così finisce per evidenziare proprio le difficoltà dell’autore nel rapporto teoria-prassi. Ma lo fa, al solito, spostando l’interesse del lettore sulle modalità di intervento, sulle tecniche usate. Quello che manca è proprio un rapporto creativo tra teoria e prassi. Rapporto che, invece, in Watzlawick appare bloccato, con tecniche definite a priori, e mai modificate, e modelli teorici che finiscono così per diventare semplici etichette.
Watzlawick e la terapia costruttivista: La realtà della realtà (1976), La realtà inventata (1981), Il codino del Barone di Munchhausen (1988), Terapia breve strategica (1997)
Abbiamo riunito questi diversi testi in un unico paragrafo perché tutti quanti trattano il medesimo tema: il costruttivismo. E di come il punto di vista costruttivista possa trasformare la psicoterapia.
Ma prima di entrare nello specifico è necessario chiarire il concetto stesso di costruttivismo. E, per fare questo, si deve esplicitare che cosa si può intendere con il termine “realtà”.
Un modo di pensare potrebbe considerare “la realtà” come data, e quindi solamente da “scoprire”, e l’essere umano (l’osservatore, lo scienziato, l’uomo comune) con tutte le tecnologie a sua disposizione, capace di cogliere tale “realtà”. Questo punto di vista può essere definito: “realismo”.
All’opposto, invece, si può pensare che la percezione (e tutti gli aiuti possibili) non riesca a cogliere alcuno schema generale, e che quella che definiamo “realtà” sia di fatto “costruita” (o “inventata”) dal soggetto stesso (o dalle comunità scientifica), tramite le sue stesse azioni. Tale punto di vista può essere definito: “costruttivismo”.
Ed è proprio questo il punto di vista sostenuto da Watzlawick in tutti questi volumi. Volumi scritti in momenti storici diversi e con diverse strutture (testi unici o collezione di articoli). Lo sforzo dell’autore si riferisce a come un soggetto, o una famiglia, costruisca la propria “realtà”. Questo accade utilizzando la punteggiatura (già descritta nella Pragmatica), sempre all’interno del più complesso processo di comunicazione tra i soggetti, o i gruppi sociali.
Ed è proprio da questa “realtà” costruita che derivano le difficoltà, che, grazie ai tentativi di superare tali ostacoli, crea di fatto “i problemi”, quelli che il terapeuta si trova davanti, nel suo studio clinico.
Questa “rivoluzione epistemologica”, però, non muta di una virgola l’approccio clinico proposto. Da Change, del 1974, a Terapia breve strategica (a cura di Watzlawick e Nardone), del 1997, passando per il Codino o per La realtà inventata, viene elaborato sempre la medesima ricetta: un briciolo di “costruttivismo” (o, a scelta, di “dominanza emisferica”), un letto di paradossi (sempre più sullo sfondo), l’immancabile contributo ipnoterapeutico di Erikson e, in ultimo, il reframing (meglio se paradossale).
Quello che sbalordisce è che in quarant’anni di carriera il contributo clinico di Watzlawick non si sia mai smosso di una virgola. Proponendo sempre le medesime tecniche. In questo modo, le idee che promuove costituiscono una interessante riflessione sulla “realtà”, ma poi vengono usate come “un grimaldello” (termine dell’autore) per scardinare le teorie classiche (tanto della realtà lineare che della cosiddetta “scienza comune”).
Chiusa la parentesi relativa al costruttivismo, e sulla terapia “costruttivista”, non ci resta che leggere tra le righe di questi volumi. Ne La realtà inventata, per esempio, ci colpisce un capitolo: Le profezie che si autodeterminano, scritto da Watzlawick stesso. Si tratta di un concetto centrale, particolarmente rilevante anche nella costruzione dell’ethos del terapeuta “sistemico”.
Ricordiamo brevemente: La profezia che si autodetermina è un’idea introdotta in sociologia da Robert Merton, nel 1948, che si definisce come “una supposizione o profezia che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento, presunto aspettato o predetto, confermando in tal modo propria veridicità” (In Watzlawick, 1981, a cura di, ma anche: Watzlawick, Nardone a cura di, 1997, p. 13).
L’esempio più immediato riguarda un fatto “reale”, accaduto nel 1979, quando alcuni giornali californiani cominciarono a diffondere informazioni su una possibile riduzione della benzina, a partire dall’ipotesi di embargo del petrolio arabo da parte del governo USA. Insomma: a partire da questi articoli, i californiani prendono d’assalto le pompe di benzina, il che contribuisce a esaurire le risorse disponibili di carburante, provocando, di fatto, la già menzionata scarsità.
Secondo Watzlawick, questa predizione ha avuto il potere di “scardinare il normale pensiero causale”. Infatti: “La scarsità non si sarebbe mai verificata se i mass media non l’avessero predetta”, (1981, a cura di Watzlawick, p. 88). Anche se, non fornisce alcuna riprova in proposito.
In più, bisogna dire che l’esempio stesso viene descritto dall’autore con un’evidente catena causale (predizioni giornalistiche → comportamento dei californiani → crisi di carburante). Certo, il risultato finale non era prevedibile… ma da chi? Dall’opinione pubblica? Dai giornali? Dai californiani stessi? Da Watzlawick e dal MRI?
Di certo c’è che la predizione, insieme ad altri fattori (non dimentichiamolo), avrebbe causato una crisi “reale”. Questo, se riflettiamo, scardinerebbe la causalità lineare soltanto se consideriamo tutta la faccenda a un livello logico astratto. E cioè: può un’asserzione “falsa” (o, al momento, non supportata da evidenze) creare ripercussioni “reali”? O, come dice Watzlawick: “la soluzione fa nascere il problema”, invertendo il rapporto causa-effetto (1981, a cura di Watzlawick, p. 89).
Letta in altri modi, però, tale conclusione non stupisce affatto, si tratta di una normalissima catena causale: potrebbe scarseggiare una cosa e tutti corrono a farne incetta. Nulla di strano o di rivoluzionario. E allora, potremmo chiederci: cosa dimostrerebbe la profezia che si autodetermina?
Dimostra che, a volte, possono accadere fenomeni che travalicano le aspettative sociali o anche che appaiono del tutto imprevedibili a priori (a patto che una serie di processi sociali, tanto comunicativi che basati su scambi “reali”, prendano piede). Anche questo nulla di strano. In più, vanno ricordate anche diverse limitazioni. Infatti, come scrive l’autore stesso: “solo poche profezie si autodeterminano [poche], e gli esempi dati ne possono spiegare il motivo. Solo quando una profezia viene creduta, cioè quando viene vista nel futuro come un fatto per così dire già avvenuto, può avere effetti concreti sul presente e con ciò autodeterminarsi. Laddove manca l’elemento della fede, o della convinzione, manca anche l’effetto” (1981, Watzlawick, a cura di, p. 90-91).
Ma aggiungerei anche l’esatto contrario: per cui si può confezionare anche la migliore delle aspettative possibili, la più credibile ma, non per questo, la profezia finisce per realizzarsi. A far previsioni, si sa, si sbaglia molto spesso.
Ma Watzlawick non si limita a sostenere questa tesi, finendo per realizzare una vera e propria promessa. Una promessa, tra l’altro, particolarmente impegnativa. Perché, la conclusione a cui giunge, anche se non so quanto volontariamente, finisce essa stessa per realizzare una profezia che si autodetermina, in un perfetto circolo vizioso. Come scrive Watzlawick: “Il contributo di Rosenhan in questo volume [Essere sani in posti insani, ndr] mette in luce l’inquietante possibilità che almeno alcuni tra i cosiddetti disturbi mentali siano pure invenzioni [veramente mette in luce questo?] e che le istituzioni psichiatriche contribuiscono alla convinzione di quelle realtà che al momento dovrebbero essere curate” (1981, Watzlawick, a cura di, p. 95, parentesi nostre).
Per poi, in fase conclusiva, proiettare, direi in maniera del tutto avventata, tali considerazioni nel futuro: “Gli esempi sembrano sufficienti: le profezie che si autodeterminano sono quindi fenomeni che non solo scuotono alle fondamenta la nostra concezione individuale della realtà [???], ma che possono anche mettere in discussione la visione del mondo della scienza” (Watzlawick 1981, a cura di, p. 100, parentesi nostre). Ne siamo proprio sicuri?
Ricordiamo soltanto che tutte le teorie, più o meno consapevolmente, hanno sempre sottolineato la convinzione che l’applicazione dei loro precetti (o delle loro nuove idee), avrebbe rivoluzionato il mondo (della scienza, della cura, della malattia mentale, etc). Basti dare uno sguardo alla storia della psicoanalisi, ma anche a quella del comportamentismo, etc. Lo stesso processo accade anche nel campo della scienza “dura”, come, per esempio, la mappatura del DNA.
Il noto biologo Richard Lewontin (1991) infatti, ha mostrato come, molti autori, prima proprio della mappatura del DNA (operazione costata più del progetto Shuttle nel suo insieme), ipotizzavano che, raggiunto questo obiettivo, si sarebbe trovata la cura per le malattie psichiatriche, come anche per moltissime malattie neurologiche e neurodegenerative.
Insomma: nella storia della scienza, le teorie emergenti tendono a proporsi come profezie che si autodeterminano, contribuendo a creare, intorno a loro stesse, una mitologia, un alone positivo. Idee però che, col tempo, possono essere valutate più serenamente. Perché, sia chiaro, anche l’ottimismo ha un suo limite.
La cosa più curiosa però è che la profezia che si autodetermina più che sulla visione della scienza pare abbia influito sull’atteggiamento dei terapeuti “sistemici”. Infatti, anche oggi è facile osservare una schiera di terapeuti che ostentano, come un tic, un assoluto ottimismo a proposito delle terapie che stanno svolgendo (salvo spesso, in privato, sostenere che invece non funzionano).
In più, tali terapeuti chiedono espressamente ai loro utenti di essere altrettanto “positivi”. Arrivando perfino a “sgridarli” per il loro pessimismo. Questa sì una violazione delle logiche causa-effetto, inseguendo, di fatto, un pensiero che più lineare e consequenziale di così non è possibile. Da: alcune volte, e secondo alcune circostanze, può accadere… si passa a: accade sempre (una lettura da emisfero destro, direi). Un salto logico non da poco.
In questo modo, il potere del terapeuta strategico, il suo carisma, la posizione one-up o la connotazione in positivo (di cui parleremo anche dopo), teorizzate da Watzlawick, sembrano elementi rimasti appiccicati addosso ai moderni terapeuti “sistemici” come un tatuaggio. A cui bisogna aggiungere una totale ritrosia a prendere in considerazione le etichette diagnostiche (unica eccezione: Ugazio 1998), come dimostra chiaramente l’esempio di Watzlawick.
Le riflessioni che stiamo promovendo, sia chiaro, non sono relative al tema del costruttivismo, che condivide anche lo scrivente, semmai all’eccessiva fede, da parte di Watzlawick e colleghi, in un approccio scientista e riduzionista. Infatti, sembrano prelevare dei frammenti da un quadro teorico complesso, per poi trasformarli in convinzioni cliniche mai più messe in discussione. In questo modo, la proposta del MRI finisce per incarnarsi esclusivamente sul problem solving e su un’impalcatura di stampo comportamentista (centrata sul concetto di scatola nera). Sul potere (tutto da verificare) del reframing e delle profezie che si autodeterminano.
Piuttosto che puntare sulla possibilità di costruire insieme al paziente una “realtà” (emotiva, narrativa, relazionale), Watzlawick punta sull’influenza esterna, quella dell’outsider, che abbiamo già discusso. Sulla capacità del clinico di “perturbare” il sistema senza di fatto farne parte (per paura della “parentificazioni”, delle “resistenze”).
Infatti, anche ne Il codino del Barone di Munchhausen, Watzlawick scrive: “Il compito di una terapia efficace è quello di introdurre nel sistema tali regole (regole per il cambiamento delle proprie regole, ndr) dall’esterno” (1988, p. 30, parentesi nostre).
Il terapeuta, in questa visione, non partecipa alla comunicazione, ma “immette le proprie regole dall’esterno” (ibidem). Ecco il cuore del modello di Watzlawick, la sua epistemologia clinica. Un modello sicuramente coerente – monolitico, direi – inossidabile ai cambiamenti teorici di ben quaranta anni.
Le critiche di Mara Selvini Palazzoli
Molto importanti sono le critiche mosse a Watzlawick, e al MRI, da altri autori “sistemici”. Come quelle proposte da Mara Selvini Palazzoli nei confronti dell’ottica strategica. Per motivi di spazio, prenderò in considerazione soltanto le parole di questa autrice, ma gli esempi potrebbero essere numerosissimi.
Nel libro I giochi psicotici nella famiglia, pubblicato nel 1988, dopo più di un decennio in cui l’equipe milanese aveva utilizzato le tecniche paradossali, Mara Selvini Palazzoli compie un bilancio del suo percorso. Un bilancio stringente, che qui riportiamo in estrema sintesi (rimandiamo il lettore alla lettura dei primi capitoli).
Il primo di questi punti riguarda il rapporto con la teoria dei sistemi. Mara Selvini sottolinea come: “Il fallimento di tutti i tentativi di colonizzare le scienze dell’uomo con modelli tratti dalle scienze fisiche è un fatto storico accettato. E anche le analogie biologiche-organismiche, da cui in passato sono stata così attratta, hanno avuto anche aspetti fuorvianti” (1988, p. XV).
Importante è cogliere il timing: già nel 1988 (36 anni fa), per la terapeuta milanese era impossibile definire l’approccio strategico del MRI, come sistemico. “Un fatto storico accettato”.
È lampante la necessità di Mara Selvini di superare i modelli cibernetici e sistemici. E, tra l’altro, sembra ridimensionare tanto l’ottica multidisciplinare, che il metodo induttivo, proposto da Gregory Bateson.
In estrema sintesi potremmo dire che nella fase iniziale di un percorso di ricerca, le analogie prese a prestito dalle scienze, come quelle sistemiche, possono sicuramente rivelarsi utili, se non necessarie: creano analogie su cui riflettere, metafore fresche. Ma, approfondendo il campo d’indagine (o l’approccio clinico), si devono per forza di cose integrare queste metafore di base con un sapere proprio della disciplina stessa. Se questo non accade, allora rimane solamente una colonizzazione. Ed è esattamente quello che Mara Selvini denuncia.
Come secondo punto potremmo riprendere il tema della connotazione in positivo, un tema prettamente clinico. Sempre secondo Mara Selvini: “La stessa idea di connotazione positiva del comportamento di tutti i membri della famiglia nasce soprattutto come strumento di controllo della terapia e di difesa per il terapista” (1988, p. 6).
Una notazione non da poco. Infatti, come scrive Mara Selvini poco oltre: “La connotazione positiva […] nasce in prima istanza dall’esigenza di evitare scontri incresciosi e controproducenti” (ibidem). Questo l’unico obiettivo.
Combinando così il tema della connotazione in positivo con gli interventi paradossali, possiamo aggiungere come gli stessi interventi di Paradosso contro paradosso all’equipe milanese apparivano “interpretazioni del perché il paziente ha sviluppato dei sintomi. Si tratta, come è noto, di ridefinizioni relazionali del sintomo come comportamento di protezione/sacrificio da parte del paziente a favore di altri membri della famiglia”. (1988, p. 7).
Conclusioni che superano del tutto l’antinomia proposta da Watzlawick perché versus come, proponendo, al contrario, una ipotesi sistemica (una nota di senso dentro la scatola nera della famiglia). L’equipe di Milano, così, già dai primi approcci, non intende fermarsi al concetto di scatola nera, e al qui e ora della relazione, ma appare interessata a una descrizione storica delle famiglie (i problemi di coppia e poi l’inserirsi dei figli all’interno di questi, creando appunto “i giochi” familiari).
In maniera diversa rispetto al MRI, perfino gli interventi strategici, per Mara Selvini e collaboratori servivano per elaborare ipotesi tanto storiche che attuali sulla famiglia stessa. Senza vietarsi, inoltre, di lavorare sulle emozioni dei diversi componenti della famiglia e, anche, sulle loro intenzioni “inconsce”. Insomma, un progetto ben più complesso di quello del MRI, che comprende la modellizzazione della famiglia e l’elaborazione di concetti e mappe del tutto nuove.
È ovvio che, per parlare di “inconscio”, si deve avere a disposizione un modello di inconscio, (vedi Casadio 2018), soprattutto dopo le critiche proposte al modello freudiano. Ma l’ottica del MRI, forse per coerenza rispetto all’idea di non investigare il perché o la storia di un sistema, non ha mai proposto un modello delle emozioni o di altri processi mentali, ma solamente una serie di esempi e di tecniche (sempre le medesime). E, così facendo, arriva al paradosso di parlare di emozioni, senza mai fornire un modello delle emozioni. Anche in questo caso, si intravede un aspetto saliente degli autori “sistemici”, allergici alla creazione di modelli (come invece faceva tranquillamente Bateson). Ed ecco, ancora oggi, fiorire “le conversazioni”, “il dialogo” o anche “le emozioni”, senza mai però definire tali processi. Come se inconsapevolmente, ancora i moderni “sistemici” abbracciassero l’idea di scatola nera.
Ma le critiche di Mara Selvini Palazzoli vanno a toccare anche l’approccio pragmatico di Watzlawick. Non a caso scrive che: “L’enfatizzazione degli effetti pragmatici ha però comportato il cadere in un riduzionismo sistemico-olistico: dall’esclusivo interesse per le cause intraindividuali […] si è passato infatti all’esclusivo interesse per gli effetti pragmatici, visti come indicatori di presunti bisogni del sistema (primo fra tutti l’abusato concetto di omeostasi)” (1988, p. 9).
Insomma: sempre il medesimo “errore”. E a proposito del reframing – la tecnica d’eccellenza, secondo Watzlawick – Mara Selvini si chiede se si tratta di una provocazione o di una interpretazione. Per la terapeuta milanese: “All’interno dell’equipe si era pensato che il reframing paradossale funzionasse per il paziente designato come una provocazione capace di spingerlo, sull’empito della rabbia, a cambiare. Tuttavia, per molti anni, a causa dell’accettazione religiosa del tabù della scatola nera che vietava ipotesi intrapsichiche, l’equipe non si azzardò a dirlo” (ibidem). Evidenziando così la “fedeltà” alle idee di Watzlawick, preferendo rimanere nel dubbio pur di non spezzare il tabù della scatola nera.
E veniamo ai risultati terapeutici, vero punto di forza del modello di Watzlawick e collaboratori, decantato sempre come rapido ed efficace. Come ricorda Mara Selvini Palazzoli, passato un po’ di tempo dagli esordi, i risultati terapeutici divennero “assai meno confortanti e poco duraturi”, presentando numerose ricadute. Questo accadde, secondo la terapeuta milanese, per la stereotipia dell’interpretazione (quella del sacrificio), che rendeva ogni intervento routinario e prevedibile. E, aggiungo, anche terribilmente noioso per i clinici stessi.
La conclusione logica fu che: “Selvini Palazzoli e Prata, dopo la scissione dell’equipe, […] puntarono integralmente alla sperimentazione di una strategia prescrittiva, abbandonando gradualmente il ricorso ai reframing paradossali” (1988, p. 13).
Viene così superata la tecnica dei paradossi terapeutici per giungere a una terapia maggiormente condivisa con la famiglia (anche se ancora prescrittiva), basata sulla ricerca e sulla conoscenza dei significati della famiglia stessa e dei diversi punti di vista dei suoi componenti (lo studio dei giochi relazionali).
Con tutti questi cambiamenti, e ripensamenti clinici, del contributo di Watzlawick e collaboratori resta ben poco: alcune tecniche, prive però di una “cultura” di base da cui sviluppare nuove prassi e nuove idee. Nuove idee che nasceranno soltanto superata la colonizzazione sistemica e necessariamente andando oltre le ottiche paradossali.
Per un’idea più ampia del doppio legame e della comunicazione schizofrenica
Bene, a questo punto, possiamo chiederci se veramente il modello del MRI costituisce la traduzione clinica del modello di Gregory Bateson sulla schizofrenia.
Come abbiamo già detto, nel modello clinico di Watzlawick, le idee di Bateson sembrano del tutto vicarie alle tecniche ipnotiche di Milton Erikson. Questo perché vengono di fatto inglobate in una serie di tecniche basate esclusivamente sulla risoluzione dei problemi. Come se avesse preso i presupposti teorici di Bateson, calandoli però in un contesto clinico di stampo ipnoterapeutico.
Più volte, infatti, nel suo lavoro, Bateson ha sottolineato come le comunicazioni paradossali siano state utilizzate da psicoanalisti o da psichiatri, nel passato, in contesti conversazionali (e non di problem solving). In più, conclude il famoso articolo del 1956 con una dimostrazione di un doppio legame terapeutico operato da Frieda Fromm-Reichmann, una psicoanalista culturale.
Il collegamento tra doppio legame e risoluzione dei problemi non è di Bateson.
E così, può essere utile rifarsi a un piccolo volume, anch’esso pubblicato da Bateson, nel 1956. Un libricino dedicato al tema del gioco, dove l’epistemologo inglese, descrive delle interessanti interazioni con pazienti schizofrenici, che lui stesso ha incontrato nella clinica per veterani a Palo Alto. Vediamone una. Secondo le supposizioni di un paziente: “la sua storia è iniziata in Cina dove egli ha costruito la Grande Muraglia. Poi ha attraversato il Pacifico su di una barca a remi sbarcando a Seattle e da lì ha camminato fino in California dove è stato ‘preso in amicizia’ dai suoi genitori conclamati, cioè ‘adottato’ o qualcosa del genere” (Bateson 1956 II, p. 61).
Detto questo, Bateson cerca di parlare dell’infanzia del paziente e del suo rapporto con i “genitori”. La risposta è chiara: “La Muraglia cinese è terribilmente solida per farla a pezzi” (ibidem). Infatti, commenta l’epistemologo inglese: “Se ci mettiamo a parlare troppo letteralmente, [il paziente] risolleva invece la barriera, come per dirmi perché l’ha sollevata all’inizio. Il punto è che la Muraglia cinese non è solo tra lui e i suoi genitori, ma anche tra lui e me, e l’uso della metafora è un elemento di questa barriera tra noi” (ibidem, parentesi nostre).
Particolarmente interessante, in questi esempi, è la capacità di Bateson di “entrare” in alcune metafore, di condividerle con il paziente, non proponendo controparadossi, ma, contribuendo a svelare il senso delle metafore stesse. Metafore che sono alla base dei “deliri” dai pazienti.
Il percorso è chiaro; da uno scambio oscuro, e impenetrabile, si passa a un “gioco a due”, un gioco condiviso. Come sostiene Bateson: “L’uso di questo gioco di parole ora è diventato un tipo di gioco diverso da prima. Tra noi Manzanita [la metafora di base di un altro paziente] è diventata un’affermazione che non significa più ‘so come ingannarla, Mr. Bateson’, ma piuttosto: questa è qualcosa che capiamo tutti e due’. E così la situazione si è capovolta” (1956, p. 65, parentesi nostre).
In questo modo Bateson si dimostra ben più ricco delle riduzioni operate da Watzlawick e dal MRI. In più, l’epistemologo inglese, ha proposto, nelle sue riflessioni, diverse accezioni di doppio legame, che non sono state affatto colte dai terapeuti di Palo Alto. Seguendo Bateson, gli autori del MRI avrebbero potuto proporre un setting non focalizzato esclusivamente sulla manipolazione e la risoluzione di problemi, ma capace di promuovere uno scambio creativo, un gioco metaforico e comunicativo.
E, ultima notazione: Bateson nella sua lunga e variegata carriera ha sempre proposto dei modelli; delle teorizzazioni per quanto riguardano le idee (del singolo in un contesto), le aspettative, le emozioni, singole o di gruppo. Per l’ennesima volta, possiamo vedere come Watzlawick avrebbe potuto rifiutare il “controllo” e il “potere” ma non lo fa, rimanendo legato (doppiamente) a una concezione manipolativa dell’intervento stesso. Cosa che, tra l’altro, gli ha fatto perdere il rapporto “reale” con Gregory Bateson.
Conclusioni: Watzlawick e la crisi dell’ottica sistemica
Alla fine di questa lunga rilettura dei testi di Paul Watzlawick, possiamo proporre alcune conclusioni. Che, per brevità, farò per punti.
1) Il modello sistemico e la “scatola nera”: Watzlawick, nei suoi scritti, parla a più riprese del concetto di scatola nera, legandolo sempre a un dato clinico: l’investigazione sul come è nato il problema del paziente, piuttosto che sul perché (come farebbe invece la psicoanalisi classica). Eppure, il lavoro di Watzlawick stesso si estende ben oltre gli anni ’80. Ben oltre cioè il momento in cui il modello della scatola nera cessa di avere credito, con la necessità, invece, di studiare le motivazioni, le emozioni, le idee, dei pazienti.
Ma, cosa ancora più stupefacente, il concetto di scatola nera viene, dal punto di vista epistemologico, messo in crisi anche dagli autori che Watzlawick stesso cita nei suoi volumi (Heinz von Foerster e Francisco Varela in primis). Come può non essersi accorto di questo?
Stupisce ancor di più il fatto che di superamento del concetto di scatola nera, nei testi di Watzlawick, ne parli soltanto Martin Wainstein (in Watzlawick, Nardone, 1997, a cura di) e in maniera piuttosto goffa. Sostenendo che, come hanno fatto altri prima di lui, superata la concezione di scatola nera, si arrivi a ipotizzare uno scambio paritario tra terapeuta e paziente. Tornando così necessariamente a Bateson, avendo perso, però, davvero tanti, e tanti anni.
Tuttavia, anche dopo questo aggiustamento epistemologico, il testo di Watzlawick ripropone esattamente le medesime tecniche descritte nei libri precedenti. Più che una riflessione teorica appare come un tentativo di addomesticare un cambiamento irreversibile, accettandolo solo esteriormente ma, di fatto, riportando il discorso sempre sul medesimo terreno, quello delle tecniche ipnotiche di Milton Erikson.
Il medesimo atteggiamento lo ritroviamo anche nel volume di Boscolo e Bertrando (1996) che mostra, seppur in maniera diversa, le medesime resistenze al cambiamento. E lo fanno proponendo il principio epigenetico, per descrivere un sapere, quello proprio dell’ottica “sistemica”, che nasce dalle precedenti teorie (come quelle del MRI), senza di fatto annullarle. In questo contributo, Boscolo e Bertrando forniscono un’idea piuttosto bizzarra di estremismo: “Per estremismo intendiamo, in questo caso, la tendenza a innamorarsi delle ‘nuove’ idee, cancellando in nome loro tutto quanto era stato prodotto in precedenza” (1998, p. 38).
Ma non è esattamente quello che ha proposto Watzlawick, e il MRI, con le conoscenze pregresse sulla psicoterapia? Non sono stati forse “estremisti”? Cos’è, per proteggere le idee di alcuni estremisti, si cerca di addomesticare le convinzioni di altri possibili estremisti?
Ma la cosa ancor più curiosa è che Boscolo e Bertrando ritrovano il cuore dell’ottica “sistemica” proprio nella Pragmatica, nei libri di Haley, in Paradosso e controparadosso… insomma: ai bei tempi della scatola nera. Il cuore di quella cultura infatti è tutta lì.
Il principio epigenetico, in questo modo, rivela la volontà di salvaguardare la continuità tra i modelli strategici e quelli basati sul significato, continuando anche per gli anni a venire a definirli “sistemici”. Tutti quanti. Un escamotage che forse è riuscito a salvare una possibile scissione, “unendo”, come sostengono gli autori, “il mondo interno e il mondo esterno del paziente e del terapeuta”, e dichiarando il proprio lavoro, al contempo, “strategico e non strategico”. Una mossa politica tesa ad ammorbidire delle differenze difficili da negare (soprattutto alla fine degli anni ’90), per evitare la frantumazione del “fronte sistemico” in molteplici scuole (postmoderniste, costruzioniste, post-strutturaliste, femministe etc). La (psico)politica batte l’epistemologia, a scapito però delle possibilità di crescita.
2) Il modello MRI e l’esperienza emozionale correttiva (EEC): A più riprese, Paul Watzlawick ha citato, nei suoi lavori, l’EEC come un modello clinico a cui, nella sua carriera, si è rifatto. Si tratta di una tecnica introdotta in psicoanalisi da Alexander e Franch, nel 1956, in contemporanea con la pubblicazione delle prime idee di Bateson sulla schizofrenia. Idee, almeno in nuce, già presenti nella psicoanalisi delle origini, per opera soprattutto di Sandor Ferenczi (e attive in autori come Sullivan e Searles, sempre citati dai “sistemici”). In una precedente lavoro (Casadio 2020) ho instituito un parallelo, teorico e clinico, proprio tra la nascita delle teorie sistemiche e le terapie psicoanalitiche brevi, a cui rimando il lettore.
Ma torniamo a Watzlawick: nel Codino del barone di Munchhausen il nostro autore ha citato alcuni casi clinici di Balint, maestro proprio dell’EEC e della terapia psicoanalitica breve. Inoltre, Watzlawick ha di nuovo citato l’EEC in un articolo (Watzlawick 1997, in Nardone, Ray, a cura di, 2007) come anche nel suo ultimo libro, quello del 1997. Insomma: l’EEC sembra essere vicina alla tecnica del MRI, anche se non viene mai esplicitato in che modo. Eppure, anch’essa si basa sul “come se”, su aspetti emozionali, e anche sulla possibilità di creare una situazione clinica in cui il paziente designato possa apprendere (o deutero-apprendere) altre vie di comportamento. Una tecnica non basato sull’insight.
Non posso che concludere affermando che, a proposito dell’EEC, Watzlawick confeziona un “doppio messaggio”: come sostiene a più riprese, la psicoanalisi si sbaglia, nelle sue modalità di cura. Anche se poi lui stesso prende dei pezzi dalla psicoanalisi (come l’EEC), per creare un diverso intervento.
Evidentemente, anche la psicoanalisi, negli stessi anni stava producendo un modello interessante basato sul come, proprio come il MRI. Eppure, Watzlawick, nei confronti della psicoanalisi continua a proporre una contrapposizione frontale, per poi, tra l’altro, andarsi a riparare sotto il cappello del comportamentismo. Un vero e proprio spreco.
3) L’intervento strategico e la cibernetica: I cambiamenti proposti da Watzlawick e collaboratori, risultano, a loro avviso, in linea con la teoria dei sistemi e la cibernetica. Ma su questo abbiamo sollevato diversi dubbi. Gli stessi autori definiscono la cibernetica, financo negli anni ’80, come: “il principio del controllo dell’errore” (Watzlawick 1982, in Nardone e Ray, a cura di, 2007, p. 192). Fornendo un’accezione troppo limitata, basata esclusivamente sul “controllo”.
Tutto ciò, rivela l’epistemologia del terapeuta austriaco (più della logica cibernetica) e degli autori del MRI, del tutto in linea con quella che Heinz von Foerster ha definito cibernetica del primo ordine (1982), basata su una relazione clinica di stampo monodirezionale. A tal proposito, un esempio risulta illuminante. Ne Il linguaggio del cambiamento Watzlawick si chiede come comportarsi se un paziente si rifiuta di accogliere una prescrizione comportamentale o non la esegue. Secondo l’autore: “è consigliabile prendere su di sé tutta la responsabilità scusandosi di aver peccato di eccessivo ottimismo sovraccaricando il paziente” (Watzlawick 1977, p. 145). E poi? Poi niente. Si riprova con un’altra chiave, un’altra prescrizione paradossale, “provando una chiave dopo l’altra nella serratura” (ibidem).
In pratica: non c’è alternativa alla prescrizione e, al paziente che protesta, o che non è d’accordo con le modalità proposte; si risponde sempre in maniera paradossale, fingendo di ascoltarlo senza, di fatto, prendere in considerazione le sue perplessità. Questo, oggi, sarebbe considerato molto grave e, per fortuna, non sarebbe possibile. E così, il contributo di Paul Watzlawick finisce per arrestarsi proprio nello stesso punto in cui inizia la sua speculazione, con la prassi ipnoterapeutica, presentando sicuramente alcune idee coerenti (in senso peggiorativo), ma chiudendo artificialmente il cerchio teorico-clinico proprio su tali tecniche, strozzando, di fatto, altre ipotesi e altre possibili idee.
4) La sistemica e le emozioni: L’epistemologia di Watzlawick sembra aver segnato l’atteggiamento di molti terapeuti “sistemici” a proposito delle emozioni. Autori che si comportano come se la “parte razionale” del soggetto (o della famiglia), identificata nell’emisfero sinistro, andasse soltanto elusa, o by-passata, per giungere a una “reale” modifica della parte emozionale, quella dell’emisfero destro. Concezione incistata in diverse tecniche terapeutiche che (come direbbe Watzlawick) “non segna un dato di fatto” ma è soltanto il frutto di un modello implicito, pedissequamente accettato dall’autore stesso. E riproposto ancora oggi da diversi autori del campo.
5) La clinica e la manipolazione: Di questo punto abbiamo già parlato in precedenza. Aggiungerei soltanto che Watzlawick sembra particolarmente bravo nella suggestione del paziente, come anche del lettore dei suoi libri. Anche se poi non appare altrettanto in gamba nel proporre un riferimento teorico chiaro e fecondo, anche perché questo viene sempre istituito “metaforicamente”, e solo attraverso una lunghissima lista di esempi, tesi maggiormente a convincere il lettore più che a fornirgli un supporto chiaro.
Le questioni da trattare sarebbero diversissime: possiamo definire il modello del MRI come un modello sistemico? Ancora oggi? Anche quando la scienza di riferimento è drasticamente mutata? Quando cioè i modelli, le prassi e i presupposti di base sono (come sempre) evoluti e trasformati? Oppure, all’opposto, bisogna pensare che una sintesi è un po’ come un gioiello: cioè per sempre?
Sicuramente Watzlawick ha operato una sintesi di alcune conoscenze scientifiche proprie degli anni ’60. I “pezzi” più utili per il puzzle che stava mettendo insieme. Il suo limite però è quello di aver proposto un modello clinico bloccato, immune a qualunque possibile evoluzione. Quello che ci ha lasciato Watzlawick, così, sono un insieme di tecniche, basate sull’influenzamento attivo del paziente, sul calco dell’ipnosi.
Appare lecito, infatti, chiedersi a quali modelli teorici si rifanno gli autori che ancora oggi si dicono “sistemici”. La teoria, come la prassi, non può che aggiornarsi di continuo. Ma questo, i clinici sembrano ignorarlo.
In conclusione: possiamo dire che Watzlawick, nella seconda parte della sua carriera, si è adoperato a costruire un modello innovativo, basandosi sulle prime intuizioni batesoniane. Anche se questa operazione appare riuscita solamente in parte. Seppur junghiano di formazione, infatti, Watzlawick non è riuscito a integrare i diversi setting e i diversi modelli della mente (come l’EEC) incontrati sul suo cammino. Piuttosto che proporre un modello “complesso”, infatti, ha preferito cancellare del tutto le esperienze precedenti e ripartire da zero, con un riferimento che, nelle sue aspirazioni, non si ispirasse a nulla di già conosciuto e che si nutrisse esclusivamente di conoscenze scientifiche. Quelle “sistemiche”, appunto. (Un modello però comportamentista nella sua forma).
Ma, come abbiamo già detto, un modello clinico non può ispirarsi esclusivamente a idee scientifiche. In quanto, al dunque, si basa sempre su un setting particolare e su una particolare idea di relazione. Concludendo possiamo dire che a Watzlawick è mancato un riferimento umanistico, relazionale, per quanto sembri paradossale dirlo, a cui appellarsi. Rimanendo bloccato all’idea dell’influenzamento imposto e unidirezionale proprio dell’ipnosi.
5) L’eredità di Paul Watzlawick e del MRI: sicuramente Watzlawick ha avuto il coraggio di innovare in psicoterapia. E, insieme agli altri autori del MRI, ha unito diverse suggestioni, toriche e cliniche, per dare vita a un nuovo approccio. Purtroppo, si tratta di un approccio che non si è mai evoluto, e che non è riuscito a proporre, negli anni, nuove idee e applicazioni.
Quello che rimane, purtroppo, sono una serie di assunti, dei riferimenti interessanti e delle tecniche senza anima. Non stupisce che molti terapeuti, ancora oggi, si dimostrino fedeli a tali assunti, scambiandoli per dati di “realtà”, per punti di vista “sistemici”. Si tratta di ottiche suggestive, senza dubbio, anche coerenti, (nel senso peggiore del termine) capaci di fare proseliti ma non di creare una vera e propria “cultura” di riferimento: una serie di conoscenze in evoluzione. Il prodotto finale rimane limitato a poche idee (diventate dogmi), incapaci di rispondere alla complessità della “mente”, dei percorsi di cura e della salute umana.
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