A cura di Gianluca Ganda e Walter Troielli
In questa rubrica della nuova Connessioni trovano spazio l’attenzione alle radici e la memoria degli affetti.
In occasione del ventennale della sua morte creiamo uno spazio dove amici, colleghi e allievi, o chi lo avesse incontrato (nella stanza di terapia o sui libri), può scrivere a Gianfranco Cecchin e ricordare il suo lavoro.
Di seguito i primi contributi, di cui ringraziamo gli autori.
Me lo ricordo così
di Umberta Telfener
Me lo ricordo così: curioso, ironico, rispettoso, che cerca sempre un punto di vista diverso per produrre sorpresa per sé e per gli altri. Era capace di evidenziare aspetti periferici di ogni descrizione, atteggiamento che – secondo me – gli permetteva di trovare intuitivamente il punto di resistenza di una narrazione.
L’ho definito più di una volta un improvvisatore Jazz: lieve, irriverente, molto abile, capace di semplificare la melodia (il pensiero sistemico) per produrre tanti suoni diversi. Sembrava stare ai margini e forse proprio la costante escalation con Boscolo gli offriva una stabilità.
Questo è il mio Cecchin, è spesso seduto accanto a me mentre faccio terapia.
Capire il secondo ordine
di Massimo Giuliani
Uno dei momenti della mia formazione che racconto più spesso anche agli allievi è quello in cui, quasi con noncuranza, così en passant, Gianfranco Cecchin mi disse una frase — a me e ad altri due o tre che erano lì in quel momento, in una pausa informale dopo una seduta familiare — a cui avrei pensato per un bel po’.
Commentando con approvazione l’intervento che altri due allievi del gruppo avevano fatto nel finale della seduta, disse più o meno: “se fai una connotazione positiva ci devi credere, sennò quello che sentono è che li stai prendendo in giro”.
Quel giorno pensai due cose. La prima era che avevo capito la terapia nell’ottica del secondo ordine. Cioè, fino a lì teoricamente capivo cosa volesse dire, ma quel giorno lo avevo “visto”. Una rilettura paradossale è un intervento che solo secondariamente agisce sulla famiglia, ma in primo luogo è rivolto autoriflessivamente al terapeuta: “devi mettere te stesso in una posizione dalla quale vedi cose buone e vitali”.
La seconda cosa che pensai fu che no, non mi era possibile credere che un uomo così capace di entrare e uscire da punti di vista (è questa, l’ironia) fosse mai stato veramente strategico, nemmeno quando i terapeuti di Milano chiamavano così quello che facevano.