di Michela Barzi
Premessa
Mentre venivano imposte misure di contenimento della diffusione del virus – limitazioni agli spostamenti, lavoro da casa e chiusure modulate degli esercizi pubblici – prendeva forma una linea di pensiero intesa a definire le città, in particolare quelle grandi, come non più adatte alle necessità poste dalla crisi pandemica. Troppo densamente abitate, con infrastrutture collettive eccessivamente affollate, le grandi città venivano dipinte come incubatori del virus e l’alternativa individuata nei piccoli borghi del mondo rurale. Se da un lato queste argomentazioni sembrano dimenticare che le città da sempre convivono con forme di contagio che ne hanno storicamente messo alla prova la tenuta demografica e sociale, dall’altro è vero che esse hanno colto gli interrogativi che le persone hanno cominciato a porsi in merito alla relazione da intrattenere con tutto ciò che sta fuori l’abitazione (o l’auto) privata e che ha le caratteristiche del territorio urbanizzato. I vagheggiamenti di una possibile fuga dalla città verso supposti territori rurali più sicuri – con in mezzo tutto ciò che non è ancora città ma non è più campagna cioè le aree suburbane che fanno da serbatoio insediativo delle metropoli – hanno come corollario il rapporto tra individuo e società indagato dalla sociologia urbana già dai suoi albori. Nel 1938, in L’urbanesimo come stile di vita (Martinotti, 1968, p. 514) Louis Wirth sosteneva che l’influsso della città sulla società fosse maggiore della sua dimensione fisica e demografica, poiché la città non è soltanto – e in misura sempre crescente – il luogo di residenza e di lavoro dell’uomo moderno, ma è il centro di stimolo, e di controllo della vita economica, politica e culturale che ha via attirato nella sua orbita le più remote comunità del mondo e ha strutturato in un cosmo le aree, le genti e le attività più diverse.
Rispetto alla pervasività dell’esperienza urbana, connotata da quel reticolo di “spazio fisico e spazio dei flussi” che consente le “modalità di espressione e comunicazione individuale” (Castells, 2004, p.62), il ritorno alla dimensione domestica come centro dell’esistenza ha ripristinato la funzione del luogo e sospeso quella dello spazio. Luoghi come il quartiere, e persino l’isolato, sono diventati centrali, quasi isole nel mare urbano che contraddistingue i territori a maggiore intensità di sviluppo. Se ogni luogo equivale a un altro nell’esistenza dei singoli, allora i concetti di centro e di periferia finiscono per sbiadire nel significato che a loro è stato attribuito dentro lo spazio urbano. Le note che seguono non definiscono un contributo compiuto su un tema evidentemente molto vasto, ma si limitano a essere una serie di spunti di riflessione su come la crisi pandemica abbia messo in tensione l’esperienza che gli individui fanno dello spazio urbano, tramite la limitazione della sua agibilità e l’influenza che essa ha esercitato sui comportamenti individuali.
Metageografie
Ebbene, riprendiamo un po’ queste metafore geografiche.
Michel Foucault
Scriveva Walter Benjamin in Infanzia berlinese di essere stato durante i primi anni della sua esistenza “un recluso del vecchio e del nuovo Westen”. In quel quartiere residenziale e “signorile” della parte occidentale di Berlino, Benjamin rimase “prigioniero, senza sospettare l’esistenza di altri [quartieri]”; dovettero trascorrere trent’anni perché fosse per lui possibile “ripercorrere la città dopo una lunga assenza” e imparare l’arte di “smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta” (Benjamin, 1973, pp. 96, 11, 9). Nella sua esperienza infantile della città, il centro della condizione esistenziale è un quartiere collocato in un punto imprecisato di uno spazio urbano sconosciuto, che verrà esplorato solo più tardi.
In quanto luoghi comuni, i concetti di centro e periferia di una città rappresentano due ambiti spaziali distinti in base ad aspetti che vanno al di là di questioni meramente geografiche. Poiché non pongono problemi geografici specifici, e trascendono il compito di catalogare e semplificare fatti geografici, essi possono essere considerati nozioni metageografiche (Gokhman, et al., 1969). Lo storico Martin Lewis e la geografa Kären Wigen definiscono metageografie le strutture spaziali sulle quali si organizzano, spesso dandole per scontate, le scienze sociali e umanistiche. Una metageografia, quindi, costituisce la cornice spaziale attraverso la quale le persone ordinano la loro conoscenza del mondo: una sorta di immaginario geografico collettivo di una società (Lewis, Wigen, 1997). Nello spazio urbano la distinzione tra i concetti di centro e di periferia si basa quindi su alcune caratteristiche fisiche e non su fatti meramente geografici. Ciò consente di identificare certi settori urbani come periferici pur essendo molto prossimi al centro geografico, e come centrali altri che pure sono geograficamente decentrati. Questa caratterizzazione spaziale implica una gamma di percezioni veicolate dalla strada, il luogo che fisicamente permette l’esperienza dello spazio urbano.
Secondo il geografo David Harvey c’è una tendenza del mondo accademico a sottovalutare il ruolo decisivo svolto dalla strada nel provocare dei sentimenti. Riferendosi a Parigi, Harvey evoca il senso di perdita che deriva dallo spettacolo delle demolizioni, come quello de Les Halles – da mercati generali a stazione di intercambio treno-metro con annesso centro commerciale – o l’infelicità che scaturisce dal trovarsi davanti agli anonimi quartieri periferici dominati dai grands ensembles dell’edilizia residenziale pubblica, apparentemente spuntati dal nulla. C’è spazio però anche per la speranza che deriva dal constatare che degli immigrati vietnamiti in mezzo a quei “palazzoni” della periferia del sud di Parigi hanno aperto i loro ristoranti e riportato la vita in quei quartieri popolari (Harvey, 2012, p. xi).
La periferia di Parigi era già stata un luogo carico di forti emozioni. Durante la Belle Époque l’area delle fortificazioni costruite a partire dal 1840, che dal 1956 farà posto al Boulevard périphérique, era una sorta di terra di nessuno chiamata la Zone, dove ogni costruzione era vietata per ragioni difensive. Gli appartenenti alle gang giovanili – les Apaches secondo le cronache dei giornali – dominavano gli insediamenti di baracche che vi erano sorte. Braccati dalla polizia, questi abitanti della periferia sfidavano l’opinione pubblica facendosi vedere anche in luoghi centrali (Cannon, 2015, p. 88). Nella seconda metà del XX secolo al posto delle baracche abusive de la Zone sorgeranno le banlieue caratterizzate dai grands ensembles di case popolari. Gli Apaches sono i voyou che si incarneranno nei banlieuesard durante gli episodi di guerriglia urbana del 2005, la racaille secondo l’allora presidente francese Sarkozy.
Due anni prima di quei fatti, Jacques Derrida analizzava il termine voyou mettendone in luce la natura urbana e in particolare parigina. Una parola che “non ha soltanto un’origine e un uso popolari, ma è destinata a designare qualcuno che, in ogni caso, per la sua provenienza sociale o per le sue maniere, appartiene a ciò che vi è di più popolare nel popolo” Il voyou – che “ha un rapporto essenziale con la via (voi)” – o il suo equivalente italiano di canaglia (dal latino canalia che deriva da canis),
è uno sfaccendato – talora disoccupato – e allo stesso tempo attivamente occupato a occupare le strade, sia “percorrendo la strada in lungo e in largo” senza far nulla se non bighellonare, sia facendo ciò che non si deve fare normalmente, secondo le norme, la legge e la polizia, nelle strade e su tutte le altre vie che la canaglianza si assume il potere di rendere meno viabili e affidabili. (Derrida 2003, pp. 101-105)
A proposito dell’etimologia della parola canaglia, è interessante notare come le periferie siano identificabili anche attraverso i tipi di cani che possono esservi avvistati. Molto presenti sono le razze da difesa come i pitbull, una selezione di cani da combattimento formatasi nelle periferie delle metropoli nordamericane dove a introdurli sono stati gli immigrati irlandesi, a lungo considerati canaglie come poi toccherà ad altre componenti dell’emigrazione verso gli Stati Uniti d’America.
Il bighellonare di cui scrive Derrida accomuna la canaglia al flâneur, e, nella versione situazionista e psicogeografica di Guy Debord, l’andare a zonzo diventa l’andare alla deriva, una pratica che consente di entrare in contatto “con quei centri di possibilità e di significati che sono le grandi città trasformate dall’industria”. Debord teorizzava che l’andare alla deriva rendesse “possibile assaporare l’atmosfera di alcune zone desolate, tanto idonee alla deriva quanto scandalosamente inidonee all’habitat in cui il regime ha rinchiuso masse di lavoratori” (Debord, 2021, p. 38).
Da questo punto di vista, il détournement – lo sviamento – può essere considerato un tratto della devianza dei gruppi di giovani che trovano nelle possibilità e nei significati di una grande città il terreno ideale sul quale esprimersi. Seguendo questo filo semantico si può intraprendere un percorso psicogeografico attraverso il carattere aperto/estroverso oppure chiuso/introverso dei luoghi di una grande città. A Milano, ad esempio, si può andare alla deriva tra i luoghi simbolo della vita notturna e i quartieri popolari che definiscono la periferia, secondo un approccio che scardina le strutture spaziali metageografiche.
Spettacolarizzazione
Lo spettacolo non è un insieme d’immagini, ma un rapporto
sociale tra gli individui, mediato dalle immagini.
Guy Debord
Come si è accennato precedentemente, nel tempo sospeso della pandemia le restrizioni nei movimenti delle persone hanno provocato una contrazione delle loro esistenze in una sola dimensione spaziale, che per molti mesi è coincisa con quella dell’abitazione. Anche quando le misure di contenimento consentivano spostamenti nello spazio pubblico, le limitazioni temporali (il cosiddetto coprifuoco) ne hanno compresso i limiti fino quasi al raggiungimento di un punto di rottura. Le manifestazioni di sfida alle limitazioni spazio-temporali nella sfera pubblica, con vari tipi di infrazioni e misure sanzionatorie, hanno evidenziato in molte occasioni che il punto di rottura si situava nell’agibilità nello spazio pubblico, rivendicata spesso come un diritto inalienabile che nemmeno il dovere della protezione della salute poteva scalfire. Rispetto alla generica definizione di spazio pubblico, che ha una connotazione eminentemente giuridica, quella di spazio urbano può essere associato a una specifica città e consentire specifici caratteri fisici. Possiamo ad esempio attribuire allo spazio urbano un carattere aperto, estroverso, come quello dei luoghi dove le persone si recano giusto per essere lì, i set fotografici ideali per un selfie e precedentemente per una cartolina. Sono i luoghi del consumo – lo shopping, gli happy hour, la movida – che in qualche caso sono stati il teatro di rave party o generici assembramenti a base di musica, alcol e altre sostanze. Al di là degli aspetti che afferiscono alla pubblica sicurezza, gli episodi in cui folle di giovani (e non solo) hanno sfidato l’autorità per rivendicare il diritto a radunarsi in certi specifici settori dello spazio urbano possono anche essere letti come l’espressione di tante individualità che si riconoscono in determinato un pezzo di città quasi fosse lo sfondo di una messa in scena. Allo spettacolo di un certo luogo affollato – nel caso di Milano luoghi come l’Arco della Pace, le Colonne di San Lorenzo, la Darsena e i Navigli – per il rito dell’aperitivo o del consumo della vita notturna contribuiscono i singoli individui che in quelle occasioni mettono in scena la loro vita pubblica. La città funge da palcoscenico di questa rappresentazione (Codeluppi, 2007, pp. 74-79) e la quinta urbana diventa parte dello spettacolo in cui il/la protagonista dà prova dell’appartenenza a quello spazio, quasi fosse un pezzo della sua identità. Maggiore è la carica simbolica dell’ambito urbano che entra in scena, più intenso è il grado di rivendicazione del senso di appartenenza. Le risse che spesso diventano il corollario di questi episodi sembrano provare che questo processo di identificazione con lo spazio urbano – i luoghi della movida e in generale gli spazi a vocazione ricreativa – può in alcuni casi avvenire attraverso forme di controllo che hanno punti di contatto con pratiche ai limiti della legalità.
A dispetto della loro spettacolarizzazione, questi settori urbani si somigliano tutti per quanto sono caratterizzati da una sorta di monocultura dell’industria dell’intrattenimento. Se osservati di giorno, liberi dalle folle notturne, si presentano come una sequenza pressoché continua di bar, ristoranti e altri esercizi pubblici con il loro corollario di dehors, che progressivamente tendono a occupare tutto lo spazio pubblico disponibile. Malgrado questa forma di omologazione, è l’unicità di alcuni elementi architettonici costitutivi l’identità dello spazio urbano, l’aspetto che innesca il processo di identificazione e ne consente la spettacolarizzazione. La qualità dell’ambiente costruito si tramuta quindi un brand che dà valore alle forme di consumo che lì si svolgono e a chi le mette in atto. È un fenomeno che consente di accostare l’esperienza di questi spazi urbani a quella dei parchi di divertimento, una Disneyizzazione di certi ambiti delle città che, negli USA e non solo, è stato anticipato da quella sorta di laboratori urbani che sono i parchi di divertimento (Bryman, 2004, p. 11). I luoghi della movida acquisiscono così caratteristiche metageografiche in quanto cornice spaziale del divertimento, che tende a separarsi dalla geografia fisica e umana di quegli ambiti (con conseguenti proteste di chi li abita e che della loro geografia umana fa parte integrante). Non a caso questi luoghi tendono a perdere la loro popolazione residente a favore di quegli abitanti transitori introdotti dal mercato degli affitti brevi rappresentato da piattaforme come Airbnb. Si tratta di un fenomeno che, pur messo in crisi dalla pandemia, fa leva proprio sulla spettacolarizzazione dello spazio urbano proposto come oggetto di consumo, contro le cui spinte trasformative spesso si sono mobilitate le popolazioni residenti.
Identificazione
La vecchia Parigi non esiste più (l’aspetto di una città muta
più presto, ahimè, che il cuore dell’uomo)
Charles Baudelaire
Georg Simmel in Die Großstädte und das Geistesleben del 1903 – titolo che in italiano viene tradotto in modo non univoco con Metropoli e personalità ma anche con Metropoli e vita dello spirito – sosteneva che la “base psicologica” dell’individuo metropolitano si fonda sull’“intensificazione della vita nervosa” (Nervenlebens) prodotta dalla rapida successione di stimoli e impressioni che lo coinvolgono internamente ed esternamente. La grande città crea le “condizioni psicologiche” che inducono nel suo abitante un’aumentata consapevolezza della variabilità e molteplicità che la caratterizzano. La “vita psichica” (Seelenlebens) dell’abitante della grande città possiede quel “carattere intellettualistico” che la rende così diversa da quella di chi abita una piccola città o un contesto rurale. È grazie a questo carattere che il tipo metropolitano preserva la propria “vita soggettiva” dall’eccesso di stimolazioni nervose, sviluppando quell’atteggiamento blasé (Blasiertheit), che è il fenomeno mentale più caratteristico della grande città (Martinotti, 1968, pp. 275-289).
L’ambiente urbano è quindi in grado di influenzare la vita psichica dei suoi abitanti in relazione all’intensità degli stimoli esercitati. Più grande è la città maggiori sono le possibilità che i suoi abitanti possano provare ogni genere di emozione in base a quanto accoglienti o inospitali, attraenti o repulsivi sono gli elementi di cui essa si compone. Maggiore è la variabilità e la molteplicità dei componenti dello spazio urbano più grande è la possibilità di trovare aspetti in grado di evocare sensazioni come, da una parte il sentirsi a casa e identificarsi in un quartiere, o, dall’altra, lo straniamento, il non riuscire a riconoscersi nell’ambiente urbano, che se da un lato è composto da elementi ripetitivi e monotoni, come i complessi di case popolari e certa edilizia genericamente residenziale, dall’altro si connota per quei caratteri di unicità in grado di definirne l’alta valenza simbolica. Sono aspetti già messi in evidenza nel 1960 dallo scrittore afroamericano e attivista dei diritti civili James Baldwin (2007) a proposito dei differenti caratteri di due settori di Manhattan tra loro molto diversi anche se contigui: l’elegante Fifth Avenue da una parte e il quartiere nero e povero di Harlem dall’altra. Scriveva Baldwin a proposito del luogo in cui era cresciuto:
L’area che sto descrivendo, che nel linguaggio delle odierne gang sarebbe definita “il territorio” [the turf], è perimetrata dalla Lenox Avenue ad ovest, il fiume Harlem ad est, e le strade 135 a nord e 130 a sud. Non abbiamo mai vissuto al di là di questi confini; qui è dove siamo cresciuti. […] Quando si raggiunge la fine di questo lungo isolato ci si trova nell’ampia, schifosa, ostile Fifth Avenue, che sta proprio di fronte a quel complesso di case popolari [housing project], sospeso sulla strada come un monumento alla follia e alla viltà delle buone intenzioni. Lungo l’isolato, per tutti coloro che lo conoscono, ci sono immensi divari umani, ampi come crateri. Queste lacune non sono state solo create da coloro che se ne sono andati, inevitabilmente in qualche altro ghetto, o da coloro che hanno sviluppato una maggiore capacità di disprezzarsi e deludersi da soli, o da coloro che, indipendentemente dalla causa – che sia la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea, la pistola o il manganello di un poliziotto, una guerra tra bande, una rissa, la malattia mentale, un’overdose di eroina, o, semplicemente, un’innaturale esaurimento delle forze – sono morti. Sto parlando di coloro che sono rimasti e, principalmente, sto parlando dei giovani.
È l’esperienza dello spazio urbano, il carattere dei suoi elementi costitutivi – il tipo strade, di edifici, di attività economiche, di abitazioni – che per Baldwin consente l’identificazione con un determinato luogo.
Camminare, ad esempio, lungo la 145 strada – che pure è familiare e simile, non ha lo stesso impatto perché non conosco nessuno degli abitanti dell’isolato. Ma svoltando ad est verso la 131 e Lenox Avenue s’incontrano prima il negozio di bibite gassate, poi il salone del lustrascarpe, poi una drogheria e una lavanderia e infine le case. Per tutta la strada ci sono persone che mi hanno visto crescere, che sono cresciute con me e che io ho visto crescere.
Le relazioni che si stabiliscono con lo spazio urbano passano attraverso la sua capacità di essere per noi familiare o estraneo, accogliente o ostile. Ne dava conto anche John Steinbeck, nel 1953, scrivendo del processo di appropriazione di New York che l’ha trasformato in un suo abitante da persona cresciuta in un contesto rurale. Se anche dopo molti tentativi falliti si riesce a sentirsi a casa in una delle città più grandi e complicate del mondo, ciò significa che è il modo in cui funziona l’ambiente urbano a determinare il tipo di relazione che con esso si riesce a istaurare (Steinbeck, 1953).
Comunicazione
Chi cammina a lungo per le strade senza meta
viene colto da un’ebrezza.
Walter Benjamin
La psichiatra Mindy Thompson Fullilove ha individuato nelle proprietà della main street delle città amaricane – l’equivalente del corso dei centri storici di quelle italiane o della via principale dei quartieri residenziali – gli aspetti che sono in grado di connettere tra loro gli individui e di esercitare un effetto sul nostro stato mentale: maggiore è la connettività migliore sarebbe l’impatto sulla salute mentale. Il primo degli aspetti individuati riguarda il senso di contenimento – l’effetto scatola – generato dalla concentrazione di diverse funzioni e dalla possibilità di vivere, grazie a loro, una molteplicità di esperienze: fare le compere, svolgere una commissione, bere o mangiare qualcosa, incontrare per caso amici e conoscenti. Il secondo fa riferimento alla connessione della strada principale con il suo intorno. È l’effetto circolo, ovvero l’ambiente costruito nelle immediate vicinanze della strada principale che consente il collegamento con gli abitanti del quartiere in cui essa si sviluppa. Il terzo è l’effetto linea, la possibilità che la direzionalità della strada principale connetta elementi diversi della città (ad esempio da un lato un settore direzionale e dell’altro un parco o un’area naturale) e quindi spinga le persone a percorrerla in virtù delle diverse esperienze si possono fare ai suoi estremi. Il quarto è l’effetto groviglio, l’insieme intricato di piccole strade che si dipanano attorno a quella principale. Nel groviglio è possibile moltiplicare le esperienze a ogni angolo di strada. È qualcosa che chi conosce l’intrico delle calli di Venezia capisce benissimo. Ci sentiamo connessi all’ambiente che abitiamo quando, ad esempio, anche se non conosciamo il nome delle persone che in modo ricorrente incontriamo nelle varie attività che svolgiamo in strada, sappiamo connetterle ad esso. (Thompson Fullilove, 2020).
È quindi la strada, come aveva notato Baldwin, l’elemento di connessione tra lo spazio urbano e le persone. Nel 1958, a proposito dei meccanismi che trasformano il centro di una grande città, Jane Jacobs aveva individuato nella strada “il suo sistema nervoso; [ciò che] veicola il gusto, la sensazione, la vista. È il principale punto di scambio e comunicazione”, che si attiva attraverso i pedoni, i quali, a loro volta, un po’ come nei processi neuronali, “stabiliscono costantemente nuovi percorsi personalizzati” (Jacobs, 2020, p. 35). Ne L’invenzione del quotidiano Michel de Certeau riprende l’idea della connettività della strada nell’ambiente urbano, che consente ai pedoni di creare una città che si sposta “all’interno della città pianificata”, una città etimologicamente “metaforica”.
Le successioni di passi sono una forma di organizzazione dello spazio, costituiscono la trama dei luoghi. Da questo punto di vista, le motricità pedonali formano uno di quei sistemi reali la cui esistenza crea effettivamente la città, ma che non hanno alcun ricettacolo fisico. Non si localizzano: sono esse stesse a costruire uno spazio.
Le attività che si possono svolgere mentre si cammina – dal rimirare le vetrine al semplice vagabondare – ci mettono in relazione con lo spazio urbano come parlare – “lo speech act ovvero l’atto locutorio” – ci connette a una determinata lingua. Per de Certeau camminare per la città significa appropriarsi dello spazio urbano come ci si appropria di una lingua parlandola. Prendendo a prestito questa frase di Roland Barthes – “Noi parliamo la nostra città […] semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola” – de Certeau sostiene che chi cammina opera delle scelte nei significanti del linguaggio spaziale. Se camminare per le strade di una città è una forma di comunicazione, quella della flânerie – il vagabondare senza meta – è una pratica dello spazio urbano svolta secondo un’attitudine ludica, tipica dell’infanzia, che “disfa le superfici leggibili” (de Certeau, 2001, pp. 144-167). La lettura che de Certeau fa del camminare come pratica giocosa è in diretta relazione con la psicogeografia di Debord, da quest’ultimo considerata una forma di “apprendimento ludico dell’ambiente urbano” e strumento analitico che ne sovverte le categorie interpretative. “È più interessante” – afferma Debord – “sapere quello che può attrarre da qualche parte coloro che abitano altrove” (Debord, 2021, pp. 65-71).
Separazione
Una grande città costruita secondo tutte le regole dell’architettura
è improvvisamente scossa da una forza che sfida i calcoli
Vassily Kandinsky
Il quartiere Aler (Agenzia Lombarda Edilizia Residenziale) San Siro è uno dei maggiori insediamenti di edilizia pubblica a Milano, sorto tra gli anni Trenta e l’immediato secondo dopoguerra. Secondo Giuseppe Pagano, direttore di Casabella tra il 1931 e i 1942, su quegli edifici costruiti dall’Istituto Case Popolari di Milano spirava un’“aria di burocratica povertà” (Oliva, 2002, p. 380). La stessa che, due decenni dopo sull’altra sponda dell’oceano, verrà rimarcata da Catherine Bauer, una delle maggiori esperte di edilizia residenziale pubblica negli Stati Uniti d’America, a proposito dei meccanismi progettuali che hanno conferito alle case popolari un aspetto altamente standardizzato, monotono e istituzionale, “come gli ospedali per reduci di guerra o gli orfanotrofi di vecchio stampo” (Bauer,1957).
Nato come sperimentazione dei principi dell’architettura del Movimento Moderno sul tema della casa popolare e popolarissima, il quartiere Aler San Siro, pur non trovandosi a grande distanza dal centro urbano, viene identificato come una periferia proprio per la sua connotazione di ghetto per poveri, separato dal resto della città già a partire dal progetto urbanistico che lo ha concepito chiuso da quattro strade perimetrali. Fisicamente introverso, Aler San Siro è tutto rivolto verso il suo centro – piazzale Selinunte – che ha il suo landmark nella torre del sistema di riscaldamento degli edifici Aler, ora decorata da un intervento di street art. Questo spazio urbano così facilmente identificabile per le sue caratteristiche fisiche è spesso lo scenario dei video postati dai rapper della zona, che nelle loro canzoni rivendicano le caratteristiche spaziali del quartiere come elementi che formano la loro identità. Il fatto che in qualche caso i comportamenti dei rapper, nella finzione dei video e nella vita reale, li abbia portati a subire provvedimenti di restrizione della libertà fa parte della storia del genere musicale che utilizzano per raccontare le loro storie individuali. La storia del rap, a partire dalla sua matrice hip-hop a breve celebrata con un museo nel distretto urbano del Bronx di New York City, è costellata da disavventure giudiziarie e persino da morte violenta dei suoi protagonisti.
Il rapper Neima Ezza, che nel quartiere Aler San Siro è cresciuto, qualche tempo fa ha lì radunato qualche centinaio di ragazzi per la registrazione di un suo video. Ne è scaturito un assembramento che ha causato l’intervento delle forze dell’ordine in osservanza delle restrizioni imposte dalla pandemia. Ne è nata una una sorta di guerriglia urbana, una di quelle rivolte che spesso si innescano nei ghetti urbani. Malgrado gli interventi di riqualificazione edilizia, come quelli svolti nell’ambito dei programmi denominati Contratti di Quartiere, e di mappatura del disagio, quali la ricerca Mapping San Siro promossa dal Politecnico di Milano a partire dal 2013, il quartiere continua infatti a emergere come un ghetto dalle parole dei rapper chi lì abitano, come qualcosa di separato e di altro rispetto al resto della città.
Secondo Guy Debord “l’urbanismo”, attraverso la separazione, allestisce la “base generale” dell’economia capitalista, che “sviluppandosi conseguentemente in dominio assoluto, può e deve ora rifare la totalità dello spazio come suo proprio scenario”. Nasce così un’architettura nuova, “direttamente destinata ai poveri”, quella dei grandi complessi di edilizia popolare, ma anche quella dei “templi del consumo precipitoso”, i centri commerciali e i parcheggi, che riorganizzano la città all’interno del “processo di dissoluzione generale che ha in tal modo condotto la città a consumare sé stessa” (Debord, 1997, pp. 188-192). Da questo punto di vista l’attività dei rapper – ma anche dei writer e degli street artist – più che far tremare le fondamenta della città della separazione la fa diventare il fondamento del suo accadere e lo scenario per la comunicazione con il resto del mondo (i video di alcuni dei rapper emergenti fanno centinaia di migliaia di visualizzazioni), e poco importa che chi riceve il messaggio viva in contesti del tutto diversi: la periferia, come abbiamo visto, non è solo un concetto spaziale.
All’interno della retorica della rigenerazione applicata al racconto delle periferie, implicitamente associata al concetto di degenerazione, la devianza dei rapper, il loro essere fieramente banlieuesard estranei alla città-vetrina palcoscenico della società dello spettacolo, diventa un elemento di disturbo e di delegittimazione dei retori. Resta tuttavia il problema dell’inconsapevolezza degli attori di questo détournement, probabilmente più interessati alle visualizzazioni dei loro video – e ai soldi che arrivano tramite la pubblicità – che alle modalità di sviamento del discorso ufficiale sulle periferie. La spettacolarizzazione degli aspetti spaziali che caratterizzano i quartieri periferici (si vedano a questo riguardo il testo e le immagini associate alla canzone Perif di Neima Ezza e l’omonimo documentario di cui è protagonista) utilizza lo stesso format dello spettacolo della città-vetrina.
Conclusione
Anche se la società dello spettacolo di cui scriveva Guy Debord più di mezzo secolo fa ha subito profondi mutamenti, le grandi città continuano a funzionare come i suoi “centri di possibilità e di significati”. La pandemia ha però rimescolando le carte di queste possibilità e significati; una volta incrinato, il paradigma che nello spazio urbano ha distinto la sfera pubblica da quella privata, la strada dalla casa, il centro dalla periferia, sembra non reggere più. A Milano e non solo, sono state le aree centrali, quelle più desiderabili in funzione dei meccanismi di consumo e del suo spettacolo, a determinare la disposizione di norme finalizzate a contenere la circolazione del virus (mascherine anche all’aperto, chiusure anticipate, ecc.). Il perdurare della sua diffusione, con ciò che ne consegue in termini di possibili nuove ondate di contagio e relative restrizioni dell’agibilità dello spazio pubblico, tiene aperta la riflessione su come gli individui si relazionano con esso e apre a una vasta possibilità di indagine, qui solo accennata, sui luoghi comuni dai quali nel tempo è stata influenzata la percezione dell’ambiente urbano da parte di chi lo abita. Anche alla luce del fatto che forse potrebbe non essere l’ultima volta in cui saremo costretti a contemplare il contagio, essere più preparati a misurarsi con possibili necessarie restrizioni, e con ciò che ne consegue sia dal punto di vista delle strategie di salute pubblica che di quello della psicologia collettiva, potrebbe essere di qualche utilità per contenere le tensioni che abbiamo visto nei mesi trascorsi. A questo riguardo è sui concetti di comunità e immunità, oggetto del prezioso lavoro del filosofo Roberto Esposito (2006 e 2020) al quale rimando chi legge, che, a giudizio di chi scrive, si dovrebbe innestare la riflessione sul ruolo dell’ambiente urbano nella vita degli individui in tempi di crisi come quella pandemica. Sono termini che contemplano entrambi una dimensione fisica: il paese, il quartiere, la città da una parte, la casa e l’istituzione sanitaria dall’altra. Da un lato lo spazio che si ha in comune, dall’altro quello che si occupa individualmente. Da questo punto di vista sono molto interessanti, malgrado la luce inquietante che gettano, le esperienze cinesi di gestione della diffusione del virus, perché raccontano, pur nella disparità di forze in campo, l’entità delle tensioni che s’innescano tra le politiche di sanità pubblica e l’esperienza dello spazio urbano in presenza di città tra le più grandi al mondo. Anche se siamo molto lontani da quelle esperienze per geografia e regime politico, esse possono costituire l’occasione per riflettere sul modo in cui recentemente noi abbiamo sperimentato la separazione da ciò che abbiamo in comune con gli altri individui – le piazze, le strade, lo spazio urbano in generale – senza cadere nell’illusione che si possa contrapporre alla città un altrove che ci rende immuni.
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