a cura di Barbara Trotta
Dalle giornate del 18 e 19 Novembre 2023, Milano.
GLI EFFETTI DELLA VIOLENZA SU MINORI STRANIERI NON ACCOMPAGNATI NEI LUOGHI DEPUTATI ALL’ACCOGLIENZA
Manuela Matrascia e Camilla Vago, allieve II anno CMTF, sede Monza
Il contributo presentato al Congresso Nazionale delle Scuole CMTF 2023 – “Sistemi e violenze: idee, valori e pratiche di psicoterapia” si propone come uno spunto di riflessione rispetto agli effetti della violenza subita da minori stranieri, nei luoghi deputati all’accoglienza. Questi si dividono in strutture di prima accoglienza, in cui la permanenza massima è di trenta giorni, e centri di secondo livello del Sistema di Accoglienza e Integrazione, dove, nel rispetto delle previsioni in materia di lavoro minorile, può essere consentito lo svolgimento di attività lavorative e formative, oltre all’assistenza nella procedura di ottenimento del permesso di soggiorno.
Si è deciso di approfondire la riflessione sulla dimensione paradossale dell’accoglienza-violenza, che sembrerebbe caratterizzare questi contesti: oltre alla violenza agita, infatti, si ritiene che vi siano altre manifestazioni coercitive che possono contribuire ad accrescere il disagio psico-fisico dei minori stranieri non accompagnati, già testimoni di processi migratori in sé traumatizzanti. La rigidità normativa e la carenza di operatori, ad esempio, sono aspetti che ostacolano la comprensione dei reali bisogni di questi ragazzi, con il rischio di generare un doppio vincolo, così come descritto da Boscolo, Cecchin, Prata e Selvini Palazzoli, nella forma di una doppia comunicazione. Da un lato, la tendenza ad accogliere per aiutare, dall’altro la richiesta implicita di agire in autonomia, pur all’interno dei limiti imposti dal contesto di accoglienza. Il rischio è quello di innescare un’escalation violenta, caratterizzata da una visione unilaterale e statica del problema: in ottica sistemica, come pensare di cambiare e di co-costruire una nuova narrazione?
Un primo passo potrebbe essere includere il punto di vista di operatori e migranti nella progettazione e nella strutturazione dei percorsi di assistenza, avvicinandosi a quella che descriviamo come cibernetica del secondo ordine. Lo Stato italiano, che detta regole su come deve funzionare l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, attualmente mantiene una posizione di osservatore esterno, senza “entrare” nel sistema che sta cercando di comprendere. Un esempio, in questo senso, potrebbe essere l’assenza di figure adulte di riferimento che forniscano supporto, aspetto che costituisce un ulteriore, se non il principale, fattore di rischio in queste situazioni.
Inoltre, si è riflettuto sul diverso significato che i soggetti coinvolti nel sistema di accoglienza danno al tempo. Boscolo e Bertrando, infatti, sottolineano spesso l’importanza terapeutica di coordinarsi con i tempi delle persone, per evitare che l’attesa imposta dal contesto possa assumere una connotazione violenta. Per superare la rigidità dei sistemi di appartenenza, legata alla predominanza dell’idea presente, si potrebbe introdurre l’uso di domande e ipotesi circolari, consentendo in questo modo l’apertura di nuovi circuiti. A partire da un lavoro sull’esigenza attuale, si può ipotizzare una rivisitazione del tempo futuro, cercando di reintrodurre una dimensione di speranza nella progettualità di vita del minore straniero.
In conclusione, in questo contributo si è deciso di focalizzarsi solo su alcuni concetti sistemici legati alla pratica terapeutica, con l’obiettivo di ipotizzare possibili approcci alternativi al problema. Seguendo le idee di Cecchin, abbiamo scelto di porre l’enfasi su due aspetti da prendere in considerazione: la consapevolezza dei propri pregiudizi e delle proprie premesse, per evitare che ostacolino il processo terapeutico, e l’idea che solo avendo una visione complessa si possano migliorare il trattamento e la presa in carico dei minori stranieri non accompagnati.
GLI EFFETTI TRAUMATICI E POST TRAUMATICI DELLA VIOLENZA ASSISTITA NEI BAMBINI E ADOLESCENTI
Alessandra Amodeo e Sara Varvaro, allieve IV anno CMTF, sede di Palermo
La violenza è un problema complesso legato a modalità di pensiero e di comportamento definite da una molteplicità di forze all’interno delle famiglie, degli individui e delle comunità.
La categoria della violenza non può essere ridotta ad un’esperienza monodimensionale e standardizzata, ma viene costantemente ridefinita dai contesti rispetto ai quali è riferita.
La cornice teorica di riferimento, è l’epistemologia sistemico-relazionale per la quale l’unità di osservazione non è più l’individuo, ma l’insieme delle relazioni a cui partecipa.
Cirillo afferma che i rischi di rimanere all’interno di una visione lineare, spingono i terapeuti sistemici che, invece, hanno una visione circolare dell’interazione, a soffermarsi sull’interdipendenza vittima-aggressore, quindi, il rischio potrebbe essere di finire per negare la legittimità di vittima, determinando una seconda vittimizzazione. Sottrarsi da tale visione, tuttavia, risulta davvero complesso nel momento in cui si parla di maltrattamento e abusi sui minori.
Per citare Bateson: “la violenza sui piccoli risulta essere un cielo dove anche gli angeli esitano volare”. Tale visione vede la violenza come un processo che si estende nel tempo e che ha tendenza a riprodursi. I comportamenti con cui la violenza familiare si manifesta, quindi, devono essere colti all’interno della trama transgenerazionale, in modo simile alla prospettiva adottata per valutare e aiutare le famiglie maltrattanti. È in questa cornice epistemologica che si inserisce il caso di violenza assistita di cui accenneremo.
Il CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) nel 2006 ha stabilito che per violenza assistita intra-familiare si intende l’esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte o minori. Tali situazioni, che hanno effetti sia sullo sviluppo biopsicosociale che neurobiologico dell’individuo che le subisce, sono state definite da Felitti “Esperienze Sfavorevoli Infantili”. Putnam ha inserito la violenza assistita tra le fonti di trauma infantile diverse dal maltrattamento diretto. I bambini esposti a violenza domestica costituiscono, quindi, un ampio gruppo di bambini traumatizzati, tanto che nel 2005, Van der Kolk propose la definizione di “trauma dello sviluppo”, per indicare l’esposizione cronica o multipla, accompagnata da reazioni soggettive di ira, senso di tradimento, paura e vergogna, a una o più forme di trauma di natura relazionale, che influisce su attaccamento, salute fisica, modulazione emotiva, regolazione del comportamento, capacità cognitive, concetto di sé, ed è fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi dissociativi. Dopo un trauma, il mondo è percepito con un sistema nervoso differente in quanto il trauma stesso interessa l’intero organismo umano: corpo, mente e cervello. Sostanzialmente, accade che nel disturbo post-traumatico da stress il corpo continua a difendersi da una minaccia che appartiene al passato, quindi, guarire da questo disturbo significa interrompere questa condizione cronica di stress e ripristinare il senso di sicurezza.
Chi subisce un trauma, a prescindere dall’età, diventa ipervigile rispetto a possibili segnali di potenziale pericolo, con attivazione alternata del sistema ortosimpatico – con i conseguenti cambiamenti fisiologici deputati all’attacco/fuga – e del sistema vagale dorsale, che si attiva nelle situazioni di pericolo percepito come estremo (nelle quali non sono possibili né l’attacco, né la fuga). È preferibile usare il termine parti dissociative della personalità per descriverne la sua divisione, perché le parti dissociative della personalità costituiscono nel loro insieme un’unità, hanno autoconsapevolezza, mostrano un senso di Sé rudimentale e frammentato che può essere reintegrato solo attraverso un lungo e complesso percorso di consapevolezza delle proprie parti. La parte bambina è totalmente congelata e intrappolata nel passato, così decido di iniziare gradualmente il delicato lavoro di dialogo con le parti, che si identifica nella Terapia dei Sistemi Familiari Interni (IFS) di Richard Schwartz, il quale considera la psiche come un ambiente relazionale popolato da entità indipendenti, definite, appunto, parti. L’autore, nel descrivere i ruoli delle parti, parla di un sistema in tre gruppi:
- manager: rappresentano la parte più evoluta della mente perché si inseriscono nella corteccia prefrontale (disattivata). Sono altamente protettivi, strategici, interessati a controllare l’ambiente per mantenere la sicurezza;
- esiliati: i membri più sensibili del sistema che comprendono tutte quelle emozioni che sono indicibili e non governabili, infatti si trovano nell’amigdala e nell’ippocampo;
- pompieri: cercano, nel sistema limbico, di soffocare in maniera disfunzionale, anestetizzare o distrarre dai sentimenti e le emozioni che provano gli esiliati reagendo potentemente e automaticamente, senza curarsi delle conseguenze.
I sistemi interni che reagiscono al trauma non si limitano a dividersi in questi ruoli: le parti protettrici, ovvero i manager e i pompieri, formano alleanze ed entrano in conflitto l’una contro l’altra e possono essere molto severe o asfissianti con la parte che stanno cercando di proteggere o allontanare. Tale modello di riferimento è stato utilizzato nel caso clinico di Gloria, studentessa di 22 anni di lingue orientali. Vittima di violenza assistita sin da quando era bambina, ha sviluppato un PTSD con importanti vuoti di memoria in comorbilità ad una grave dissociazione, tanto da costruirsi relazioni significative nella realtà virtuale. Ha sempre rifiutato la terapia farmacologica e, dopo un lungo lavoro di elaborazione del trauma, reso possibile anche grazie alla buona alleanza terapeutica creatasi, si è potuto avviare il lavoro di dialogo tra le parti danneggiate, che sta facendo emergere un Sé più integrato e consapevole.
L’ELEVATA CONFLITTUALITA’ DI COPPIA E LA COMUNICAZIONE DISFUNZIONALE COME FORMA DI VIOLENZA PSICOLOGICA ALL’INTERNO DEL SISTEMA FAMILIARE
di Erika Jakovcic, Stefania Bazzo e Lorenza Miss, allieve II anno CPTF, sede di Trieste
Il presente elaborato vuole essere uno spunto di riflessione sul fenomeno della violenza assistita dai minori che vivono in contesti familiari caratterizzati da genitori estremamente conflittuali che utilizzano modalità comunicative aggressive, denigratorie, svalutative, provocatorie tra di loro come modalità abituali cui i bambini assistono quotidianamente. I bambini diventano testimoni di violenza assistita diventano le vere vittime «silenti», «dimenticate», «involontarie» della violenza domestica tra adulti conflittuali.
Molte coppie hanno difficoltà a separarsi psicologicamente e a rielaborare i rapporti secondo una diversa prospettiva, quella della coppia separata e, di conseguenza, della coppia genitoriale separata. Rimangono “bloccate” nel processo separativo fino a giungere ad una condizione di forte malessere psicologico che li porta a mantenere, a qualunque costo, un legame disfunzionale, caratterizzato dall’ambiguità e dal conflitto (“legame disperante” di Cigoli, Galimberti, & Mombelli). Quando la modalità relazionale della coppia genitoriale è “disfunzionale” si crea un pregiudizio per un corretto sviluppo psico-emotivo del minore che, inizialmente, riguarda il funzionamento dei confini e la loro rinegoziazione dopo la separazione. Un primo tipo di confine si crea tra i sottosistemi familiari, quando i confini tra genitori e figli diventano ambigui e confusi, dove i genitori altamente conflittuali possono strumentalizzare, anche indirettamente, i bambini nella loro “guerra” per raggiungere fini personali di rivalsa e riparazione, innescando così dinamiche triangolari disfunzionali, definite “triadi rigide”, che possono assumere secodno Boni tre diverse forme: coalizione, triangolazione e deviazione. Un secondo tipo di confine è quello che esiste tra due generazioni. In moltissimi nuclei familiari che si separano le relazioni tra i genitori e i figli tendono a strutturarsi su un piano orizzontale anziché gerarchico. Il bambino percepisce uno dei due genitori come debole, sofferente, vittima dell’altro e questa credenza può innescare nel minore vissuti abbandonici che possono essere controllati attraverso la rinuncia dei propri bisogni di dipendenza lungo una dimensione di adultizzazione, che può sfociare nella costituzione di strutture relazionali entro le quali è il bambino che assume il compito di consolare i genitori, assumendo su di sé la responsabilità, e, molto spesso, il carico, di supportarlo emotivamente, in una situazione di inversione di ruoli definita “genitorializzazione”, diventando spesso la madre della propria madre o il padre del proprio padre.
A supporto di tali affermazioni riporto alcune brevi parti di colloquio di una delicata situazione di CTU sulla valutazione della genitorialità in cui emerge l’atteggiamento aggressivo, sotto forma di violenza verbale, di una madre che non riesce a focalizzarsi sui bisogni reali dei figli, ma rimane incastrata in un pensiero accusatorio e denigratorio riferito al padre: “Posso dire la sincera verità? Vivere con il papà per me è una cosa abominevole ma non perché io sono la madre perfetta e io non sono perfetta come non lo è nessun genitore ma… lui non è padre, lui non riesce…”. La modalità messa in atto dalla mamma, attraverso una comunicazione patologica, aggressiva, svalutante nei confronti del papà alimenta forti legami di lealtà familiare e triangolazioni perverse nei figli. Una dinamica che si caratterizza per la presenza di condizionamenti, triangolazioni e alleanze familiari, coalizioni genitore-figli, messaggi di “doppio legame” e lealtà familiari e che espone i figli ad episodi di violenza assistita e alle relative conseguenze, in parte già descritte.
Molto interessante è analizzare alcune verbalizzazioni della figlia maggiore che è stata quella maggiormente triangolata in questa dinamica: “La mamma è stata malissimo e poi anche noi… Ho visto che la mamma era sempre molto affaticata, stanca, distrutta”. Durante l’intero colloquio, emerge una grande attenzione per la sofferenza materna e un sentimento di cura e di protezione nei suoi confronti, un sentimento che, a tratti, rimanda ad una vera e propria dinamica di inversione di ruolo. Il vissuto di attenzione della figlia maggiore. nei confronti di una madre sofferente e in difficoltà, sembra poi essere stato rafforzato dall’atteggiamento della madre stessa, la quale, anziché sostenere i figli nell’elaborazione dell’evento separativo, verosimilmente per la sua stessa difficoltà ad accettare e superare la separazione, ha invece inconsapevolmente sollecitato nei figli una serie di sentimenti disfunzionali, come il vissuto di tradimento e la lealtà familiare: “Era in lacrime e ci ha raccontato quello che era successo…E ci ha raccontato che la divisione dei giorni era decisa dal giudice e che ci sarebbero stati anche tempi peggiori”. Alla richiesta di specificare cosa intende con “giorni peggiori”, la figlia risponde: “Nel senso che, all’inizio vedevamo il papà solamente il weekend, ma poi la cosa è diventata sempre più frequente, nel senso che abbiamo visto papà tutto il weekend e abbiamo dormito anche da lui e poi abbiamo cominciato a vederlo anche durante la settimana e anche dormire da lui. Appunto, che questa situazione, da poco tempo che passavamo con lui, si è evoluta, si è ingigantita fino a un fine settimana e durante la settimana addirittura”. In circostanze tali i figli risultano invisibili agli occhi dei genitori e possono sviluppare la percezione di non essere riconosciuti nei loro bisogni, vivendo esperienze di svalutazione e di perdita di fiducia, perché si sentono colpevoli e impotenti. La violenza assistita è tra le maggiori fonti di trauma infantile. Il trauma in questione deriva da vissuti cronici e stressanti che possono ferire il bambino lasciando un segno: sostanziandosi della dissintonia coi propri datori di cura, agiscono negativamente sul sistema di difesa e sui processi di attaccamento. Felitti et al. hanno introdotto la nozione di Esperienze Sfavorevoli Infantili (ESI) per indicare quell’insieme di situazioni multiple e/o croniche e prolungate vissute nell’infanzia che incidono significativamente sul percorso evolutivo, sia personale che relazionale (forme dirette e indirette di maltrattamento tra cui figura preminentemente la violenza assistita), tanto da produrre una vasta gamma di esiti patologici, definiti come PTSD Complesso, inteso come l’insieme di sintomi che derivano da traumi cumulativi interpersonali vissuti nel corso dello sviluppo. Le aree maggiormente coinvolte sono: l’attaccamento (in termini di modelli insicuri e disorganizzati), la regolazione degli stati affettivi interni (compromessa la capacità di decodificare e modulare le emozioni), la regolazione del comportamento e delle funzioni cognitive (deficit di apprendimento), l’immagine del Sé (mortificazione del Sé percepito come impotente e indegno). Infine, possono manifestarsi elementi dissociativi (il fallimento della capacità di integrare pensieri, emozioni ed eventi, indicativo di una frammentazione dell’esperienza psicologica soggettiva). Van der Kolk definisce tale sintomatologia come disregolazione in tre grandi aree: emotiva, interpersonale e nella percezione del Sé. Quando il minore non può sottrarsi alla minaccia che proviene dalla famiglia sperimenta una crisi di lealtà, agendo strategie intense e disfunzionali per superare il paradosso e lo stato di paura. Il bambino e le figure genitoriali si ritrovano all’interno di un loop autoperpetuantesi per cui il caregiving inadeguato porta alla disregolazione del bambino, la quale alimenta un caregiving discontinuo, che a sua volta va a rinforzare l’attivazione dei figli in maniera cronica.
Nei casi di elevata conflittualità l’obiettivo della terapia dovrebbe essere quello della presa in carico del sistema familiare, e non solo del minore designato come “paziente sintomatico”, per cercare di apportare dei cambiamenti nella modalità comunicativa, funzionale allo svincolo dei minori dal prendere posizioni differenti a seconda del genitore con cui si relaziona. Il lavoro del terapeuta (anche di quello che opera nel pubblico) dovrebbe consistere nell’aiutare l’intero nucleo a riorganizzare la cornice familiare destrutturando il conflitto, se ci sono i presupposti, focalizzando l’attenzione sui figli e sul loro benessere, svincolandoli dalle possibili alleanze e dai doppi legami che si sono creati. Inoltre, in un’ottica di connessione tra le psicoterapie e gli strumenti a disposizione dei professionisti, può essere utile approfondire l’impatto della terapia sul trauma mettendo in relazione ad essa, ad esempio, i risultati degli studi di neuroimaging. Un primo utilizzo è quello di studiare le aree che vengono colpite dalle patologie e problematiche di natura psichiatrica, dove la neuroimmagine offre la possibilità di verificare l’effettiva efficacia delle terapie per il PTSD (le più accreditate attualmente sono la CBT e l’EMDR) che, a livello anatomico, è associato a cambiamenti e disfunzioni in diverse aree cerebrali, tra le quali l’amigdala, specifiche zone della corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore e l’insula, sebbene alcuni studi abbiano messo in evidenza delle variazioni in termini di attivazione e modificazione volumetrica anche in altre aree come il nucleo caudato, il talamo e il cervelletto. Il fattore che accomuna queste aree è il coinvolgimento nelle risposte allo stimolo della paura e l’emotività associata in un processo all’interno del quale avviene un’iper-attivazione delle strutture sottocorticali come l’AMIGDALA e l’INSULA e una ipo-attivazione della CORTECCIA PREFRONTALE E DELLA CORTECCIA CINGOLATA ANTERIORE. Alcuni studi hanno permesso di osservare che in seguito alla psicoterapia le iper e ipo-attivazioni presenti nel sistema top down vengono normalizzate. Una delle teorie più accreditate infatti riguarda il fatto che questo malfunzionamento del circuito top down sia alla base dei processi alterati nel PTSD come la disfunzione nel regolare le emozioni e l’alterato condizionamento ed estinzione della paura. Esiste un modello anatomo-funzionale implicato nella resilienza al trauma con dei corrispettivi neurobiologici. Si assiste ad una variazione inter-individuale dell’adattamento allo stress, per cui la resilienza è definita come l’assenza di uno stato psicopatologico in seguito all’esposizione di un evento traumatico e deriva dall’esperienza maturata attraverso il corso della vita, per cui quando siamo più piccoli abbiamo maggiori possibilità di sviluppare ad esempio il PTS, poiché conosciamo meno strategie di coping; infatti, si ipotizza che i oggetti resilienti non si differenzino nell’attività neuronale durante e dopo la risposta emozionale a causa di differenze nelle strategie e capacità regolatorie.
UNA LETTURA SISTEMICA DEGLI ATTI COMUNICATIVI VIOLENTI ALL’INTERNO DELLA COPPIA: UN CASO DI CTU
Raffaele Dicataldo, Riccardo Furlati, Veronica Marangon, Francesca Peron, Anna Vecchione, Andrea Zamparo, allievi II anno CPTF, sede di Padova
Questo lavoro si basa sull’analisi di un caso di CTU il cui obiettivo consisteva nell’identificare il miglior assetto di affidamento per il figlio della coppia. Le riflessioni sono state fatte a partire dallo scritto della CTU e quindi da materiale puramente testuale, per poi essere reinterpretate in chiave sistemica.
Il modello teorico di riferimento, dal momento che la violenza fisica e psicologica perpetrata da entrambi i coniugi svolge un ruolo rilevante nella storia di questa coppia, è quello del “ciclo della violenza” della Walker la quale individua tre fasi che si ripetono ciclicamente in una relazione di coppia maltrattante: fase dell’accumulo di tensione; fase della violenza agita; fase della luna di miele caratterizzata da pentimento e affetto, fino al giungere di una nuova discussione che riattiva il ciclo. Secondo questo modello, esistono alcuni fattori che possono favorire questa escalation di violenza, ad esempio la gravidanza e la nascita di un figlio, come nel caso della coppia oggetto d’indagine.
La coppia è costituita da Gaia (36 anni, contabile) e da Antonio (45 anni, responsabile). Nel 2020 vengono alla luce le violenze domestiche ed innescano il meccanismo di Tribunali, CTU e assistenti sociali. La coppia si è formata nel 2017. Durante i primi anni di fidanzamento non sono rare le litigate a causa della gelosia di Gaia verso le conoscenze femminili del compagno. La gelosia è avvalorata dalla scoperta di alcuni messaggi nel telefono di Antonio il quale agisce violenza autodiretta ed eterodiretta come reazione alle scenate e ripetute squalifiche della fidanzata. I due arrivano al matrimonio (2019) in un clima di tensione molto alto che si estende anche alle loro famiglie di origine con imposizioni e divieti da parte di Gaia al compagno, il quale accetta passivamente, pur di non innescare escalation con la compagna e la sua famiglia. Ad ottobre 2020, in periodo Covid, nasce Luca e la situazione per la coppia peggiora in quanto Gaia allontana sempre di più Antonio, anche dalla camera da letto, asserendo di aver paura degli agiti violenti del marito, rifugiandosi in un rapporto simbiotico col figlio. La situazione diviene sempre più insostenibile finché a dicembre del 2020 Antonio decide di andare via di casa per tornare a vivere dai suoi genitori. A gennaio 2021 iniziano i primi colloqui con gli assistenti sociali per passare poi, a seguito di un accesso di Gaia al PS per asseriti agiti violenti di Antonio verso di lei e il bambino, agli incontri protetti. Nel 2021 il piccolo è collocato presso i nonni materni e Antonio può fargli visita una volta alla settimana per un’ora in visita protetta presso lo spazio neutro.
Nel nostro lavoro abbiamo utilizzato il Quadrilatero Sistemico di Andrea Mosconi per la formulazione dell’ipotesi. Secondo la nostra lettura, il problema vissuto per il marito è l’impossibilità di vedere il figlio e per la moglie la paura per la propria incolumità e per quella del bambino. Per quanto riguarda le incongruenze comunicative, Antonio definisce Gaia come “pazza” ma non per questo impedisce alla ex compagna di stare col figlio, mentre Gaia asserisce più volte di volere che Antonio sia presente in qualità di padre ma, nonostante ciò, ha impedito diverse volte a lui di vedere il figlio durante gli incontri protetti. Per quanto riguarda il conflitto intrapsichico, dai risultati del Millon di Antonio emerge un profilo di personalità compulsivo-istrionico mentre dai risultati del PAI di Gaia sono emerse esperienze fallimentari nelle relazioni di attaccamento. Per quanto riguarda il conflitto relazionale, non sono chiare le posizioni dei coniugi all’interno della loro famiglia di origine e attuale, date le scarse informazioni trigenerazionali. Tuttavia, sulla base dei racconti e dei verbali esaminati, si è ipotizzato, che i due coniugi si siano fidanzati per rispondere ad un reciproco bisogno di vicinanza e di attenzione. Nello specifico lei chiedeva gratificazione e riconoscimento del suo status di unica donna (come nella sua relazione con il padre), mentre lui chiedeva vicinanza e cura dalla donna di casa dai “sani principi” che avesse tutte le attenzioni per lui (come nella sua relazione con la madre in quanto primogenito e unico uomo di casa dal momento che suo padre era spesso fuori per lavoro). Abbiamo ipotizzato che la coppia si sia costituita sul seguente quid pro quo di coppia «Io ti do tutto e Tu non avrai altro all’infuori di me». Inizialmente queste regole di relazione tengono insieme la coppia, tuttavia, nella fase del risveglio, i partner si accorgono che le aspettative vengono vicendevolmente deluse.
Quando le aspettative vengono disattese e si rompe l’iniziale patto di coppia, si può abbracciare il cambiamento e modificare l’assetto del sistema oppure irrigidirsi arroccandosi nelle proprie posizioni. Quello che succede in questa coppia è che Lei, non ricevendo più le attenzioni che si aspettava, cominciando ad essere rivendicativa nei confronti del partner costringendolo a rinunciare ai rapporti con amici/amiche e parenti. Lui aderisce alle richieste di lei, ma il nuovo equilibrio non è duraturo e viene meno con la gravidanza e la successiva nascita del figlio.
Dal concepimento del figlio, Gaia disinveste in Antonio e nella loro relazione, esce dal gioco di coppia del “ti do tutto e tu non avrai altro al di fuori di me” e investe in un rapporto simbiotico e totalizzante con il figlio, venendo meno alla premessa relazionale, con la conseguente rottura del patto di coppia. Dalla nascita di Luca aumentano le pesanti squalifiche reciproche e si manifestano numerosi agiti, che rimandano all’escalation simmetrica, da parte di entrambi i coniugi, fino alla decisione di Antonio di abbandonare il tetto familiare. Sembrerebbe che i partner si siano scelti attraverso una modalità finalizzata alla ripetizione dell’esperienza familiare, almeno a livello esplicito, anche se poi, a livello implicito, le cose non paiono così. L’incongruenza tra livello implicito ed esplicito ci fa pensare alla presenza di messaggi contraddittori in linea con l’ipotesi del doppio legame. Nello specifico, lei manda il seguente messaggio: “Mi sacrifico per te come ha fatto tua mamma per la famiglia, ma alle mie condizioni”; lui: “Ti sono vicino come tu vuoi, come fa tuo padre, ma alle mie condizioni”. Alla luce di questi messaggi incongruenti, abbiamo voluto riassumere il doppio legame che caratterizza la coppia e che attiva i due sistemi di attaccamento e paura, alla base del mantenimento della coppia maltrattante: “Non possiamo stare separati, ma insieme ci facciamo paura”, un messaggio che impedisce l’attività riflessiva dei coniugi e del quale, ci sembra, non ne siano consapevoli forse perché legato ai ripetuti episodi caratterizzati da escalation simmetrica.
Anche se siamo nell’ambito CTU non trattamentale, abbiamo voluto concludere questo lavoro facendo accenno ad una ipotesi di trattamento. Inizialmente siamo partiti dall’analisi dell’approccio al contrasto della violenza di genere proposto dalla Scuola di Oslo tuttavia, ci siamo resi conto di come questo tipo di approccio potesse risultare pregiudizievole in quanto orientato solo sull’uomo come autore di violenza escludendo la vittima dall’analisi dinamica della coppia maltrattante. Questo approccio ci è sembrato più orientato a rispondere all’emergenza e a «prevenire» il manifestarsi di altri atti violenti. Nella nostra analisi, abbiamo convenuto che sarebbe stato utile integrare quanto proposto dal modello di Oslo anche con un lavoro sugli stili comunicazionali nella coppia maltrattante. Nello specifico riteniamo utile, nel lavoro con le coppie maltrattanti, prendere in considerazione e rendere espliciti all’altro i significati che ognuno attribuisce ai comportamenti altrui. Un lavoro di questo tipo potrebbe avere effetti sugli stili comunicativi rendendo espliciti e comprensibili ad entrambi i partner i doppi legami che caratterizzano la coppia «maltrattante». Una volta resi espliciti i doppi legami, potrebbe diventare più facile per i partner superarli in quanto diventerebbero oggetto di meta-comunicazione, cosa che invece è ostacolata dalla natura stessa del doppio legame. Tutto ciò al fine di individuare, rendere consapevoli e spezzare il ciclo della violenza che caratterizza la coppia maltrattante.
LA RICORSIVITÀ DELLA VIOLENZA NELLA COPPIA: UNA PROSPETTIVA SISTEMICA
Bonanomi Claudia, Brich Alberto, D’Ambrogi Liliana, D’Angelo Miriam, Ficai Veltroni Carolina, Galluccio Elena, Poggio Giulia, Rendine Simona, III° anno CMTF, sede di Milano
Quando si parla di violenza se ne cerca sempre un senso. Lo psicoterapeuta ha il mandato etico di mantenere una posizione di curiosità, perché l’obiettivo è la cura dell’altro, non la condanna. Risultando riduttiva e inefficace una descrizione lineare, ci avvaliamo dell’allargamento della prospettiva ed esploriamo, quindi, le famiglie di origine, il contesto socioculturale, le esperienze individuali, le narrazioni e la molteplicità dei punti di vista. In questa esplorazione, proponiamo di tenere a mente alcuni concetti. Innanzitutto, abbiamo l’idea che l’agito violento vada interrotto: necessita di un’azione in protezione di chi sta subendo una violenza e un’azione in protezione anche di chi la perpetra. È importante liberare la vittima dal suo ruolo e proporre al violento possibilità alternative. In seconda battuta, teniamo a mente che il concetto di trasmissione intergenerazionale della violenza: chi agisce violenza ha una storia di violenza che lo fa sentire legittimato ad agirla, pertanto ne ha la responsabilità; chi subisce violenza ha una storia di resistenza e di risposte alla violenza. Per noi è anche importante la ricorsività delle comunicazioni, sempre, anche quelle violente: nel tempo, le persone incastrano i propri significati e narrazioni che la propria storia ha concesso loro. Talvolta, tuttavia, questo include violenza. Infine, consideriamo il contesto socioculturale non trascurabile: vi è una tacita concessione agli uomini di imporsi sulle donne, al punto tale che si deve parlare di violenza di genere. Nel 2022, l’84% delle morti di donne è dovuto ad un omicidio di genere. Auspichiamo che questi concetti ci aiutino a ricordare il nostro imperativo etico vonfoesteriano di agire “sempre in modo da aumentare le possibilità di scelta” e di ricordare che ogni essere umano non nasce semplicemente violento. Ogni essere umano ha una storia.
Foto di Salah Ait Mokhtar su Unsplash