di Davide Sacchelli
Ripensando alle foto che, nel tempo, ho avuto modo di vedere di Maturana, devo dire che l’ho sempre trovato un personaggio particolare: con l’aria di uno che sta a suo agio e in equilibrio su un pianeta errante nello spazio, piccolo, magro, con i capelli spettinati al vento e la sua sciarpa: sono sicuro che se Saint Exupery avesse voluto disegnare il Piccolo Principe qualche anno dopo, da adulto, questo avrebbe senz’altro avuto l’aspetto di Humberto Maturana.
La mattina del convegno, appena connesso alla piattaforma virtuale la prima sorpresa: più di duecento partecipanti sparpagliati in giro per l’Italia e per il sud America. Marcelo Pakman, nel pomeriggio ci parlerà dagli Stati Uniti. Mi viene facile pensare che quando il CMTF si occupa di questioni internazionali è proprio là che dà il meglio di sé. È proprio quest’apertura al mondo a permettere il confronto con le differenze; e da questo confronto nasce la possibilità di un arricchimento del pensiero, come avevano capito fin dall’inizio Boscolo e Cecchin, che all’estero e dall’estero sono sempre andati e venuti.
La giornata inizia con Pietro Barbetta, Gabriela Gaspari e Umberta Telfener che parlano tra loro e al pubblico ricordando Humberto Maturana. Sì, perché loro lo hanno conosciuto in quelli che amo definire “gli anni ruggenti dei cercatori”, in quel momento storico precedente al balzo di secolo durante il quale si potevano ancora fare le cose per cercare di capire, per il gusto di farle, per amore di quello che ti interessava. Certo, si trattava di un gusto proibito, non per tutti ma sicuramente per quelli che volevano osare, per quelli che la parola “irriverenza” provavano a portarla nella propria vita, quelli che se venivano a sapere che c’era qualcuno che aveva delle idee interessanti, anche se era una persona importante o se stava dall’altra parte del mondo non si spaventavano e come se fosse una cosa normalissima dicevano: “beh… andiamo lì… oppure invitiamolo qui”. Provo una strana nostalgia per quei tempi, anche se non li ho vissuti personalmente per ragioni anagrafiche. Però io già c’ero e quel senso di libertà e di coraggio lo riconosco, me lo porto dentro, con nostalgia o forse con un po’ di saudade, come dicono in Brasile.
Di fronte a me, a video, i volti e le voci dei miei maestri. L’appellativo è quello degli artisti, riservato ai musicisti e ai pittori dell’antichità dai quali si poteva andare a bottega, come sento di aver fatto io. Pietro, Gabriela e Umberta sono tre persone che sanno certamente il fatto loro e che quando parlano in pubblico, non sembrano cedere praticamente mai al disagio o all’imbarazzo. E allora provo tenerezza nel sentirgli dire come il confronto con Maturana li avesse mandati completamente in crisi. Sul piano teorico introducono argomenti complessi spiegando come l’incontro con quest’uomo abbia rappresentato la svolta per il superamento del socio-costruzionismo, come hanno impattato sulla pratica clinica argomenti come l’autopoiesi dei sistemi viventi, l’accoppiamento e la deriva strutturale. Sul piano personale, però, si raccontano come i giovani allievi appassionati che in fondo anche loro sono stati: Umberta usa addirittura la parola “abisso” per descrivere la sensazione di disagio provata di fronte a ciò che Maturana, durante una conferenza, stava cercando di spiegare. Questo modo di raccontare mi commuove perché permette d’identificarsi e ti fa sentire di appartenere a qualcosa, a una linea di continuità iniziata tanto tempo fa e mai interrotta.
Ascolto ancora dopo la pausa caffè: le parole e gli aneddoti di Pietro, Gabriela e Umberta (succederà anche nel pomeriggio con gli altri relatori) sono colpi di pennello che dipingono un quadro impressionista dell’uomo Humberto Maturana, prima ancora che delle sue idee. E questo dipinto trasmette a me e al pubblico una sensazione di realtà e di conoscenza: Il suo carattere schivo e accogliente, il suo modo di vestire, il modo di esprimersi complicato, il suo vissuto nella situazione politica del Cile di quegli anni, il rapporto con i suoi animali domestici, l’abnegazione e l’impegno sconsiderato e ossessivo nel cercare di esprimersi in modo circolare e nel revisionare i suoi scritti prima di consegnarli all’attenzione di qualcuno. Alla fine della mattinata, con le orecchie piene dei racconti sentiti, sono quasi certo di avere conosciuto personalmente Humberto Maturana. Così credo abbiano sentito tanti altri che sono stati lì come me.
Dopo la pausa pranzo i lavori riprendono con Maria Esther Cavagnis in collegamento dall’Argentina. Il suo è un intervento colto, interessante, appassionato; quello che propone Maria Esther, mi pare uno sviluppo possibile delle idee di Maturana. Per lei, come per Maturana, la vita emerge nello sforzo di differenziazione dal caos e la morte corrisponde alla diluizione di un sistema entro questo stesso caos. Mi affascina del suo discorso il concetto di “sinpoiesi” che poi trovo su internet definito in questi termini: “i sistemi simpoietici, secondo la definizione proposta dalla biologa Beth Dempster, differiscono radicalmente da quelli autopoietici in quanto non hanno confini prestabiliti, sono organizzativamente aperti e collettivamente prodotti”. Ci rifletto e mi sembra che il ragionamento fili: anche il caos come medium o contesto entro il quale il sistema autopoietico esiste, a guardarlo bene può essere considerato un sistema o un eco-sistema. E allora se si sposta l’occhio dell’osservatore (che ci hanno detto Maturana disegnava al margine di ogni schema su tutte le lavagne che utilizzava per le sue lezioni), l’organismo autopoietico non crea ordine al suo interno a partire dal caos ma “interagisce”, si relaziona con altri sistemi per farlo. Mi sembra, in generale, che la Cavagnis proponga un allargamento degli orizzonti entro i quali collocare la clinica come estetica del vivente, anche quando parla di Ecosofia (termine coniato da Naess e Guattari). Tramite questo allargamento, forse, diventeranno sempre meno necessari quelli che lei ha chiamato gli “autori indisciplinati”, tra i quali senz’altro va annoverato Maturana, ovvero quelli che hanno avuto il coraggio di connettere concetti provenienti da diverse discipline i confini delle quali oggi sono decisamente meno netti che in passato. Questo discorso mi ha ovviamente molto ricordato il concetto di irriverenza proposto da Cecchin.
Dopo la Cavagnis è la volta della relazione di Ximena Dàvila, che ha lavorato con Maturana ed è stata la sua compagna negli ultimi 22 anni. Ximena racconta delle influenze del compagno sul suo approccio terapeutico, influenze che hanno generato il concetto di “biologia culturale”. L’essere umano, secondo questo approccio è contemporaneamente un essere biologico e culturale. Mentre Maturana si è occupato del biologico, lei sembra essersi occupata prevalentemente del culturale perché dice: “tutta la sofferenza psicologica di una persona è sempre di origine culturale”. Ma l’approccio alla biologia di Maturana l’ha evidentemente influenzata molto perché afferma: “Io non faccio terapia, faccio conversazioni che liberano con conseguenze terapeutiche”. Per lei, parole sue, “l’amore è la prima e l’ultima medicina”, amore come atto unidirezionale e senza aspettative di risarcimento. La parte del suo intervento che ho trovato maggiormente intrigante è stata quella dove ha affermato che “nel momento in cui appare un essere vivente, appare la nicchia che lo rende possibile: dall’utero materno all’utero culturale, utero culturale che può amarlo o tradirlo (da lì la sofferenza psichica). “Nell’incontro terapeutico si crea una co-nicchia della quale io faccio parte con i miei dolori, la mia esperienza, la mia vita”, afferma Ximena. “È uno spazio che si chiude su sé stesso, un’esperienza estetica e unica, anche nel tempo”.
L’ultimo relatore è Pakman, una persona che ho sempre apprezzato prima ancora che per le sue idee, per la sua profonda umanità. Marcelo infatti riporta subito il focus degli interventi su Maturana uomo, un uomo dalle idee molto complesse che, ora come allora, devono essere negoziate per poter essere applicate alla psicoterapia. Marcelo ci racconta di un bigliettino recentemente ritrovato sul quale Humberto gli aveva scritto: “spero che tu stia bene”; e ci spiega come questo biglietto lo abbia sollecitato a fare lo stesso pensiero: “Humberto spero che ora tu stia bene”. Il nostro cervello non distingue la percezione dalla sensazione: partiamo di nuovo dalla biologia, dunque, come condizione di possibilità. Non esiste un sociale, non esiste clinica né psicoterapia senza la biologia.
Nello scontro del costruttivismo con il movimento del costruzionismo sociale, negli anni prima del ’96, racconta Pakman, Humberto ha assunto una posizione esterna: non parla di costruttivismo ma di “bringformismo” (emergentismo o anche “dare alla luce”) mostrando ancora una volta l’avanguardia di un pensiero per così dire irriducibile. Ma di nuovo Marcelo sollecita la negoziazione delle idee di Maturana (affinché non si corra il rischio che queste ultime diventino traumatiche) e l’assunzione della responsabilità nell’operare tale negoziazione, stante che un agire responsabile non è sempre un buon agire. Maturana, infatti, era un pensatore e in quanto tale era soprattutto interessato alla “spiegazione dell’esistente”. Ma la psicoterapia, afferma Marcelo, è un’arte, e l’arte non è spiegare, è “esprimere”, esporsi alla singolarità. Ma appare chiaro, sebbene implicito, come l’esposizione a tale singolarità cambi nei suoi esiti in base alle spiegazioni delle quali può disporre chi fa terapia.
La giornata si conclude così, in perfetto orario. Enzo De Bustis ha infatti mirabilmente coordinato i relatori e i tempi degli interventi e sollecitato e raccolto tutte le domande e le riflessioni del pubblico non lasciando indietro praticamente nessuno. Quando la conclusione di un convegno avviene attraverso una “disconnessione” è diverso dai saluti che ci si fa di persona: in quel caso c’è sempre qualcuno che si trattiene prima del commiato, qualche gruppetto che esita prima di salutarsi. Nella modalità online invece, tutto è più brusco e senza transizione: qualcuno cerca timidamente di salutare accendendo all’ultimo i microfoni ma in questi casi ciò che si sta spegnendo è un universo che ti precipita dentro un altro universo senza soluzione di continuità, chi a casa con la propria famiglia chi, come me, nel suo studio. Quello che rimane è la sensazione di essere stato in un bel posto, un posto dove la gente ha ancora voglia di pensare e per farlo si cerca da diverse parti del mondo, con una modalità che mi prenderei la licenza di definire “interazione poietica”, perché permette la nascita, l’emergenza di qualcosa. Qualcosa che a volte non riusciamo a dire esattamente cos’è ma che tuttavia sappiamo essere veramente importante.