di Cinzia Giordano
… poni a te stesso una domanda sola:
questa strada ha un cuore?
Se lo ha è buona, se no non serve a niente.
Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan
Introduzione
La prima Macy Conference del 1946 fu possibile grazie ad un evento catastrofico che aveva segnato la vita di Kate Macy Ladd (Bertrando e Toffanetti, 2000): il padre morì nel corso di una epidemia di febbre tifoide quando lei era solo una bambina. Anni dopo decise di affrontare questo dolore finanziando l’incontro di menti eccelse che seppero confrontarsi connettendo in maniera creativa saperi che fino ad allora apparivano lontani.
“Tra noi e le cose come sono c’è sempre un filtro creativo” (Bateson e Bateson, 1989): in occasione delle catastrofi il filtro creativo, motivato dalla spinta alla sopravvivenza, può generare novità.
Quest’anno il mondo è stato travolto da una pandemia catastrofica che ha inciso pesantemente sulla vita e sulle relazioni. Nel corso dell’epidemia di Covid-19 la Cina, l’Italia e in seguito tutto il mondo, si sono trovati costretti ad attivare misure estreme di distanziamento sociale per contenere la pandemia, tali misure sono arrivate fino al lockdown, sconvolgendo le abitudini e le normali prassi personali e professionali.
Laddove la pandemia lo impediva facendo dilagare solitudine e paura tra le persone, la necessità di mantenere relazioni sociali ha trovato un valido alleato nella grande diffusione di internet a livello internazionale e nella tecnologia accessibile a sempre più persone.
Ci siamo quindi trovati a sperimentare nuovi modi di lavorare, sviluppando l’attività online che già era presente nelle nostre vite, ma molto poco utilizzata in ambito psicoterapeutico.
Potevamo andare verso un atto creativo portatore di novità? Ho voluto vedere se la complessa rete di interazioni che si sviluppa dentro un gruppo di terapia potesse veramente essere gestita da remoto; se fosse possibile ridurre la complessità, rinunciando alla presenza fisica, senza perdita di varietà e di ricchezza dell’esperienza.
Ho così deciso di attivare due gruppi, con la collaborazione e la partecipazione di colleghi esperti nella terapia sistemica.
Entrambi i gruppi erano di tipo chiuso, online. Le sperimentazioni sono terminate nel luglio 2020. In ambedue i casi erano gruppi esclusivamente femminili.
Il primo gruppo, composto da 8 persone tra i 24 e i 35 anni, era di tipo terapeutico, mentre il secondo, composto da sei persone tra i 25 e i 55 anni, era di formazione esperienziale sulla gestione sistemica di gruppo.
I partecipanti e i colleghi erano residenti in varie nazioni: Italia, Spagna, Turchia e Cile.
Per quanto riguarda il primo gruppo, ho avuto la preziosa collaborazione di colleghi dell’Università del Cile di Santiago: Felipe Gálvez Sánchez, accademico del dipartimento di psicologia e Daniela Lagos docente nel corso di diploma in terapia sistemica familiare.
Cercavo di capire se ci stessimo rassegnando alla dimensione digitale o se in essa fosse possibile pensare di integrare il vecchio con il nuovo mantenendo la qualità e l’efficacia dello strumento.
Era poi possibile spingere lo strumento della terapia sistemica di gruppo ad essere applicato in un contesto multiculturale, reso naturalmente accessibile dall’azzeramento delle distanze che la rete ci consentiva e ci consente.
Come pensare alla psicoterapia di gruppo in termini digitali: cautele
Preparandomi all’esperienza, mi risultava chiaro che era necessario riconoscere alcune differenze di contesto che richiedevano specifiche attenzioni nella definizione delle regole. Dato che l’incontro non sarebbe avvenuto in un luogo fisico condiviso, ma su una piattaforma virtuale e che le persone si sarebbero trovate nei propri ambienti privati durante l’incontro, era necessario ricordare che tali luoghi avrebbero dovuto garantire la privacy a sé e agli altri membri del gruppo. Anche solo il transito di altri familiari nella stanza avrebbe potuto minare il senso di sicurezza e protezione necessario per potersi aprire. Visto poi che, per rendere la dinamica relazionale più fluida e naturale, ho chiesto ai partecipanti di mantenere sempre attivi il microfono e la telecamera, dovevano essere luoghi in cui fosse possibile concentrarsi e non venire disturbati evitando, per quanto possibile, distrazioni e rumori di fondo presenti nelle 8/10 reali stanze da cui si era connessi. Il microfono e la telecamera spenti, impedendo il normale feedback non verbale, avrebbero inoltre potuto favorire per alcuni l’insorgere di vissuti proiettivi di difficile gestione.
È stato anche necessario esplicitare sia il divieto di registrazione degli incontri da parte dei partecipanti, possibilità resa fin troppo semplice dalla tecnologia attuale, che la necessità che fosse garantita una connessione di rete sufficientemente stabile al fine di evitare interruzioni o interferenze nel lavoro. In caso di problemi di connessione, il partecipante sa che si dovrà organizzare per rientrare e qualora si stia lavorando in co-conduzione, il conduttore in quel dato momento meno attivo si opererà per aiutare nella soluzione del problema, senza che il gruppo si debba fermare.
Nel caso dei due gruppi, come in generale nell’attività online, non è stato e non è sempre possibile conoscere i partecipanti in presenza prima dell’inizio del gruppo. È quindi necessario essere delicati negli interventi, non potendo valutare con accuratezza i possibili effetti visibili e non di una certa perturbazione.
Si pensi inoltre che per essere connessi tutti insieme nella terapia di gruppo, sullo schermo sono presenti dieci finestre contemporaneamente, la visibilità di ogni partecipante è quindi molto ridotta rispetto a quando viene fatto un incontro individuale. Per poter avere una maggiore visibilità sull’andamento della terapia e di ogni singolo partecipante in alcune situazioni ho ritenuto necessario prendere in considerazione la possibilità di fare scrivere ai partecipanti delle riflessioni individuali, da mandare al terapeuta tra un incontro e il successivo. Questo livello comunicativo infatti, si è rivelato utile per conoscere quelle parti individuali nascoste dallo strumento di videochiamata e ad avere il polso circa l’andamento del gruppo.
Ho anche dichiarato ai partecipanti che avrei valutato la possibilità di avere momenti individuali con ognuno di loro qualora fosse stato necessario. Questo strumento si è rivelato utile di fronte a momenti soggettivi di impasse. Questo tipo di incontri può essere svolto sempre da remoto con il supporto di tutti gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione.
Online: cosa si può osservare e fare
La natura stessa dello strumento online definisce alcuni limiti oggettivi nella percezione di quanto avviene, sia dal punto di vista del terapeuta che dei partecipanti.
Durante il lavoro in gruppo ci si conosce e riconosce attraverso ciò che si è costruito insieme, attraverso le storie e i volti, dentro i limiti di ogni finestra virtuale.
Ho così dovuto considerare attentamente cosa è possibile vedere attraverso lo schermo e cosa no, consapevole che cambiano i punti di osservazione.
L’osservazione diretta ci dà accesso prevalentemente alla mimica facciale, ai movimenti della parte alta del corpo, al modo in cui viene modulata la voce, alla presenza di elementi di un ambiente familiare che volontariamente o involontariamente si presenta nel proprio riquadro durante la connessione.
Possiamo certamente osservare i silenzi che in questo contesto possono assumere significati meno scontati, ci si può chiedere se c’è una fatica nel prendere la parola data dal digitale, se sono silenzi riflessivi o se trattengono delle aspettative, per esempio. È certo che i maggiori livelli di possibile fraintendimento ed ambiguità insiti in questa situazione rendono necessaria una ancora più attenta verbalizzazione, esplicitazione. Diviene così necessaria una maggiore azione di stimolo da parte del conduttore mentre da parte dei partecipanti viene esplicitata una maggiore intenzionalità per prendere la parola.
Lo strumento online riduce la possibilità di osservare gli abituali microsegnali non verbali. La gamma degli stimoli che governano il flusso comunicativo perde così in ampiezza e varietà rendendo più impegnativa l’interlocuzione.
È infatti molto più difficile ad esempio percepire la presa di respiro che indica in una normale conversazione l’intenzione di iniziare a parlare. L’intensità ed il ritmo della respirazione sono poi segnali che contribuiscono in maniera potente alla contestualizzazione ed al processo di attribuzione di significato alle comunicazioni. A volte peraltro un semplice sospiro è già di per sé una comunicazione significativa.
Appaiono limitati anche gli elementi prossemici legati alla reciprocità degli sguardi tra i partecipanti e tra i partecipanti e i conduttori con effetti distorsivi legati alla collocazione delle telecamere spostata rispetto agli occhi dell’immagine dell’interlocutore. Ma anche vengono a mancare i movimenti di orientamento dell’attenzione attraverso la dinamica posturale. Non è poi possibile fare gesti fisici di avvicinamento. Così anche i segni anticipatori di consenso e dissenso sono meno percepibili.
Volendo considerare in proposito il secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana, possiamo dire che la comunicazione online lascia pressoché intatto il contenuto verbale privandolo però di parte degli aspetti e dei segnali relazionali che costituiscono la metacomunicazione necessaria a precisare come interpretare i contenuti. Riprendendo Bateson (Ruesch e Bateson, 1968), nel flusso comunicativo rimane la parte di “report”, cioè di contenuto, mentre si modifica in modo significativo la parte di “command”, ossia di metacomunicazione che fornisce istruzioni su come interpretare il contenuto.
La riduzione di questo complesso apparato di segnali lascia la comunicazione ad essere qualificata in maniera prevalente dagli aspetti uditivi, ciò richiede una maggiore esplicitazione degli aspetti metacomunicativi.
L’empatia, la capacità di percepire “nel proprio corpo” ciò che l’altro sta provando, è in gran parte governata da risposte neurologiche connesse con la possibilità di osservare e “rispecchiare” l’altro (Bandler e Grinder, 1981).
Il rispecchiamento che costituisce la base della costruzione del rapporto, cioè la relazione di fiducia, normalmente avviene sia sul piano fisico che verbale, ma nel caso della terapia di gruppo online l’aspetto verbale acquisisce una netta prevalenza e richiede pertanto una grande attenzione anche visiva relativamente all’osservazione degli otto riquadri sullo schermo, nei quali si possono in parte vedere e in parte percepire le emozioni provate dai partecipanti per, eventualmente, dar loro voce.
La riduzione degli elementi di verifica può favorire equivoci interpretativi lasciando spazio a dinamiche proiettive negative ma anche positive.
Contesti culturali
La possibilità di connettere persone in parti diverse del mondo rendeva necessaria l’attenzione ai fusi orari e alla lingua da utilizzare per la conduzione. Ma anche considerare esempi e metafore in modo scrupoloso, affinché questi avessero significato per tutti.
In uno dei gruppi svolti durante il primo lockdown erano presenti tre nazionalità diverse: italiana, turca e cilena e argomenti quali l’appartenenza, la libertà e l’essere sé stessi, hanno avuto un impatto molto diverso per gli italiani rispetto ai cileni portatori di storie sociali specifiche con differenti vissuti legati alle vicende politiche in relazione alla dittatura.
In queste situazioni è importante fare attenzione a come integrare i differenti saperi, per farli emergere di modo che possano trasformarsi in risorsa per tutti e non essere vissuti come una differenza o una distanza.
Alcune considerazioni cliniche: l’esperienza attraverso le esperienze
La partecipazione ad entrambi i gruppi è stata, da parte di tutti, molto attiva e coinvolgente, sebbene ci sia stato, per alcuni, un breve momento iniziale di preoccupazione e disorientamento.
Le persone, nella maggior parte dei casi, non si conoscevano tra di loro, ma tutti stavano condividendo l’esperienza di confrontarsi con la pandemia e con il lockdown.
La fase di presentazione ha permesso ad ognuno di pensare cosa condividere di sé. La possibilità di osservare gli altri aprirsi ha generato un effetto domino di aperture personali, in cui la qualità delle comunicazioni, pur limitate dal mezzo, hanno gradualmente prodotto una forte intensità relazionale con una rapidissima percezione di condivisione che ha dato accesso ad un senso di legittimità ed universalità dei vissuti.
Le emozioni e la terapia dentro la propria stanza
In uno dei due gruppi infatti, dopo circa quaranta minuti dall’inizio del primo incontro, si è presentato, quello che è stato definito dai partecipanti, “un uragano di emozioni” “dentro un’unica stanza” pur essendo dentro la propria stanza.
Il desiderio di connettersi agli altri in base alle somiglianze tendeva ad aumentare durante le interazioni e più ci si connetteva e maggiore era il desiderio di abbattere le barriere tecnologiche. È stato interessante notare che il coinvolgimento potesse essere forte tanto quanto negli incontri in presenza.
L’intensità di emozioni presenti, l’apertura con cui sono state condivise, prestate e vissute attraverso le storie raccontate, ha fatto sentire alle persone di essere fisicamente lontane e allo stesso tempo molto intime e vicine, “dentro un’unica stanza” appunto, con la sensazione di potersi fidare e affidare, in comunione e connessione tra loro sviluppando rapidamente un forte senso di universalità nel senso di I. Yalom (1992).
Conclusa l’esperienza, è stato chiesto ai partecipanti di raccontare il proprio vissuto.
Facciamoci accompagnare lungo il percorso attraverso le loro parole.
Alessandra sul primo incontro:
“All’inizio dell’incontro ho provato emozioni diverse. Ero frustrata per il fatto di non poter essere nella stessa stanza con i componenti del gruppo, il clima mi sembrava freddo e credo dipendesse dal fatto di non essere in contatto con gli stessi oggetti, gli stessi odori e suoni degli altri. Ognuno era dentro la sua bolla. Ero allo stesso tempo curiosa di conoscere le storie di persone sconosciute e un po’ scettica rispetto al tipo di coinvolgimento emotivo che avrei potuto sperimentare nei loro confronti.
Quando sono iniziate le presentazioni ho sentito che ogni bolla iniziava a smuoversi e quel movimento creava calore. Ho percepito sia in me che in alcuni dei componenti del gruppo un po’ di imbarazzo. Pensavo che, stando distante, nella mia stanza, non mi sarei agitata come invece mi capita quando devo presentarmi dal vivo. Invece, anche in questa situazione, l’imbarazzo si è appropriato del momento con prepotenza. Forse, al di là degli strumenti che utilizziamo, sono i contesti a far emergere certe reazioni ridondanti.
Quando abbiamo iniziato a narrare le nostre storie ho percepito che le nostre bolle, con movimenti fluttuanti e delicati, si avvicinavano sempre di più e qualcuna si è addirittura congiunta all’altra. […] Grazie ad alcuni racconti e alle emozioni provenienti dagli altri, ho sentito che potevo fidarmi […] Mi sono sentita molto vicina al gruppo e ai loro racconti, le emozioni provate erano intense tanto quanto quelle che si provano in gruppi non virtuali. […] Verso la fine dell’incontro mi sembrava che, in qualche modo, ognuno di noi fosse stato attivato dai racconti degli altri e avevo come l’impressione che nessuno di noi volesse abbandonare il gruppo, che volessimo ancora raccontare e ascoltare”.
I vissuti che Alessandra ci racconta erano presenti, con parole diverse anche nelle comunicazioni di altri partecipanti. Molti hanno riferito stupore nel verificare l’intensità del coinvolgimento, seppur in un ambiente virtuale. Alessandra coglie infatti un punto centrale, ossia l’importanza di creare il contesto attraverso la definizione delle regole e dei temi, la scelta dei partecipanti, una modalità di intervento che sia rispettosa di tutti.
Anche online, la curiosità di Cecchin (1987) e la mancanza di giudizio definiscono lo spazio rassicurante in cui le persone possono davvero conoscere e farsi conoscere.
Alessandra aggiunge che:
“Dopo aver chiuso la sessione, quel pianto sommesso che il gruppo mi aveva attivato si è fatto spazio attraverso quella piccola fessura sgorgando con maggiore intensità, l’essere nella mia stanza, protetta, senza occhi indiscreti che mi fissavano ha favorito l’emergere di quest’emozione così forte, a tratti dolorosa ma forse necessaria. È durata parecchio, tornava a tratti, fino a che non mi sono sentita completamente svuotata, connessa col presente, calma. Ho riflettuto sul fatto che se la sessione si fosse chiusa in un’aula in cui eravamo fisicamente presenti, in cui probabilmente mi sarei messa a chiacchierare con i componenti del gruppo e in seguito avrei dovuto prendere i mezzi per tornare a casa stando in mezzo a sconosciuti, quasi sicuramente non avrei potuto vivere quel flusso di emozioni così intense ma avrei dovuto trattenerle, e non penso che mi avrebbe fatto bene”.
Emerge in vari racconti come il sentirsi protetti all’interno del proprio contesto di vita consenta un più libero e talvolta intenso accesso emozionale. Sembra che per alcuni il fatto di vivere gli incontri in un contesto che è già personale possa ridurre la necessità di sospendere momentaneamente il flusso emotivo indossando la maschera sociale che solitamente ci protegge nelle interazioni vissute come a rischio di giudizio. Questa modalità rappresenta certamente una differenza che può costituire per alcuni un’occasione e per altri un limite.
Nella regolazione del lavoro emotivo una sospensione del flusso emozionale può costituire infatti per qualcuno un utile raffreddatore di un processo eccessivamente intenso mentre per altri può divenire un incremento dei meccanismi di difesa basati sulla negazione.
Voglia di vicinanza e condivisione oltre la terapia
Il fatto di essere “a casa propria” un po’ protegge rispetto alla tensione che si prova quando si partecipa alla prima seduta di un gruppo in presenza. Il proprio ambiente inizialmente rassicura, ma con il susseguirsi degli incontri inizia a mancare il fatto di non poter condividere fisicamente gli spazi.
Nasce la voglia di incontrarsi, rispetto alle sedute in presenza viene esplicitato molto il desiderio di accogliere gli altri nei propri ambienti di vita, come se l’essersi aperti stando a casa, avesse aumentato l’intimità con il gruppo.
Mara dice:
“[…] sento un grande legame con tutte le persone del gruppo, un legame che mi piacerebbe anche coltivare fisicamente nel tempo… Il gruppo è dentro di me, nelle mie esperienze che risuonano, nelle mie sensazioni, nelle mie emozioni e nei miei pensieri”.
Si sono condivisi aspetti che non rientrano direttamente nella terapia ma che da un certo momento in poi ne fanno comunque parte.
Senza volerlo si è già aperta la propria casa a quelle persone con cui si sono condivise storie importanti e questo permette al gruppo di sentirsi unito in una forma che è più della somma delle singole parti.
Anna pensa al gruppo
“[…] come (a) una tela impressionista in cui i colori non vengono mischiati ma messi puri sulla tela e in cui l’immagine è sempre la stessa ma viene colta sotto diverse sfaccettature in cui la luce è fondamentale perché riesce a dare a chi osserva sensazioni diverse. Ecco io mi vedo come uno di quei colori puri che vengono messi in risalto grazie alla luce e alla bellezza dei colori da cui sono circondati”.
Eravamo dentro otto storie e contemporaneamente in una sola, così come in un frattale, ossia in un disegno in cui nel tutto e nelle singole parti ricorre la stessa forma. Il gruppo stesso è contemporaneamente creatore di un sistema di significati e creatura che si forma attraverso i suoi componenti rappresentandoli. Ognuno poteva così riconoscere come legittimato e condiviso nel gruppo quello che nel suo animo aveva sentito.
Il luogo e il Focus Identitario
Il luogo in cui ogni partecipante si posiziona per fare l’incontro non è importante solo affinché garantisca riservatezza a sé e agli altri partecipanti, ma la sua importanza è data anche dal fatto che tale luogo può avere significati peculiari per il paziente, infatti dobbiamo essere consapevoli che quel posto non è lo studio del terapeuta, ma potrebbe essere una stanza con una storia.
Che storia ha quella stanza per la persona che partecipa all’incontro?
Quale vita, quali emozioni e quali vincoli si sono provati o si provano abitualmente in quel luogo?
Il fatto che lo spazio di incontro non sia un luogo neutro può portare con sé anche il limite che sia più faticoso aprirsi liberamente con il gruppo, vista la ripetuta abitudine in quel luogo ad autolimitarsi per meglio adattarsi al contesto, per questo può divenire necessario indagarne i significati.
È importante capire in quale modo il Focus Identitario del paziente si colloca all’interno del contesto terapeutico rispetto al fatto che l’essere nel consueto ambiente di vita potrebbe creare una fatica nel lasciare gli abituali processi di significazione e connettersi con il gruppo.
Come già scrivemmo (Giordano e Curino, 2013, pag. 66):
“Possiamo definire […] come Focus Identitario (FI) il luogo in cui una persona colloca soggettivamente l’incrocio delle relazioni che ne definiscono la sopravvivenza. All’inizio della vita è inconsapevolmente e in modo naturale centrato nel rapporto fusionale madre/figlio, mano a mano che il bambino cresce si sposta sempre più a comprendere altri contesti di riferimento significativi.
Il FI viene individuato a partire da una serie di interazioni istantanee. In ogni singola occasione il Focus si colloca all’incrocio delle relazioni esistenti in quello specifico momento che incidono sullo spazio di esistenza e di sicurezza personale in quel contesto momentaneo. Si tratta di Focus Occasionali (FO).
Alcuni di questi FO si presentano in maniera continuativa e ricorrente all’esperienza del soggetto che tende ad attribuire a quella particolare configurazione una rilevanza maggiore, definendola come FI”.
Il FI è normalmente collegato al luogo in cui si verificano le interazioni ricorrenti e tale luogo potrebbe appunto essere l’ambiente in cui in quel momento la persona si trova a fare l’incontro.
Questi dati di contesto possono in qualche modo rallentare l’accesso al cambiamento rendendo il processo terapeutico più faticoso, ma ipotizzo che se durante gli incontri si riescono a superare quei vincoli che tanto hanno condizionato la storia, li si sta superando già nell’ambiente in cui questo cambiamento è necessario. In questo senso è come se il gruppo e i suoi processi di significazione irrompessero nello spazio familiare divenendo prevalenti o quanto meno modificando la visione prevalente.
Facciamo un esempio: se da sempre vivo nella mia famiglia dove tutti tifano la squadra A e disprezzano chi tifa la squadra B, probabilmente mi sarò abituato a non urlare mai “viva B!” Ma se all’improvviso il gruppo di terapia composto da tifosi della squadra B irrompe nella mia casa, sarà più facile per me legittimarmi un liberatorio “viva B!” Il disprezzo e l’apprezzamento a questo punto si bilanceranno con un diverso equilibrio dato che avrò perturbato il mio sistema esterno ed interno, capendo il reale significato che l’argomento ha per me.
Una maggiore fatica iniziale potrebbe quindi portare ad un risultato terapeutico ancora più veloce.
Appartenenza
Esistono diverse qualità di appartenenza tutte legate alla rilevanza del contesto nel modulare la dimensione della sicurezza di vita. Anche in un clan mafioso o in una setta religiosa si realizza un forte senso di appartenenza. Si tratta in questo caso, dal mio punto di vista, di un tipo di appartenenza fondata sulla paura e sull’insicurezza per la propria sopravvivenza fisica o emotiva. Questa qualità di appartenenza si fonda sul giudizio e sul timore di esso.
Dentro i gruppi condotti invece, il senso di appartenenza si è basato sulla fiducia e la sicurezza di potersi aprire in un contesto supportivo caratterizzato da libertà e non giudizio. Il conduttore ha il compito di creare questo specifico tipo di ambiente necessario affinché le persone si sentano libere di sviluppare una qualità di appartenenza che favorisca l’apprendimento.
A tale proposito Miriam racconta:
“[…] Quando sentivo di soffrire in qualche incontro, sapevo che il mio malessere non sarebbe caduto nel vuoto. C’era sempre qualcuno pronto a vederlo e a ‘raccoglierlo’ […]. Sono certissima che non sarà un addio, del resto, quando tanti cuori si sono incontrati, così come è stato per noi, non è più possibile dimenticarsi”.
L’esperienza comunicata da Miriam è stata spesso riferita anche da altri partecipanti ai gruppi.
È come se in ognuno si fosse creato un gruppo interiore che permette, anche dopo la conclusione degli incontri, di vivere le proprie esperienze accedendo al ricordo delle storie degli altri partecipanti moltiplicando i punti di vista e le soluzioni possibili pur accettando e legittimando il proprio.
Marta afferma:
“[…] Porterò tutte le persone che hanno fatto parte di questo gruppo nel cuore, ognuna di loro mi ha lasciato qualcosa che mi ha cambiata per sempre…”.
E Marina:
“[…] ho sperimentato un senso di condivisione partecipata, il sentirmi parte di un gruppo empatico, riflettere sulla mia storia attraverso le esperienze raccontate dagli altri, scoprire che anche altre persone si scontrano con fatiche simili o analoghe alle mie. […] Per quanto mi riguarda, la consapevolezza che non sono sola ad affrontare le ombre del passato e che faccio parte di un gruppo, che percorre il cammino verso la libertà mi dà una grande energia”.
Il legame emotivo con il gruppo sembra aiutare a superare la solitudine che sempre caratterizza il senso di impotenza e non libertà dei contesti limitanti.
Anche online si sviluppa un senso di appartenenza al gruppo. Alcuni lo hanno definito un momento in cui sentire di avere valore ancor più in un tempo nel quale l’isolamento sociale può fare perdere i punti di riferimento consueti.
Sentirsi rilevanti, pensati, incrementa il senso di sicurezza personale che consente di avventurarsi verso il cambiamento. Questo pensiero lo esprime chiaramente Silvia quando riferisce la sua esperienza:
“[…] dopo l’incontro in cui sono stata assente, mi hanno scritto sul nostro gruppo di Whatsapp per informarmi circa gli argomenti di cui avevano parlato; per chiedermi come stavo e dirmi che gli sono mancata. Mi sono sentita così felice! Mi sentivo davvero parte del gruppo e sentivo di essere importante”.
Conclusioni
I gruppi si sono tenuti durante il lockdown della primavera del 2020, in cui tutti i partecipanti erano esposti per la prima volta nella loro vita ad una fortissima deprivazione sociale, che può avere generato un incremento del bisogno di contatti. Mi chiedo se quello che ho osservato, fuori da queste condizioni particolarissime, possa essere ripetibile e generalizzabile.
Certamente questa esperienza ha reso evidente che la terapia di gruppo online non è solo paragonabile alla terapia in presenza ma può rappresentare uno strumento che, date particolari accortezze, può facilitare alcuni processi di cambiamento.
Giuliani (2019) dice che il virtuale è reale ma in un modo diverso. La terapia di gruppo online ad oggi è, in effetti, un’esperienza diversa ma reale.
Si è rivelata una pratica coinvolgente e riflessiva. I comportamenti e le emozioni che solitamente si evidenziano durante l’evolversi del gruppo in presenza si sono riproposti nell’online con l’aggiunta di fenomeni qualitativamente nuovi probabilmente legati anche al fatto di accogliere i partecipanti nei propri spazi di vita.
Abbiamo fatto l’esperienza che virtualmente ci si può abbracciare, ma soprattutto si può ridere e piangere insieme, si può sentire di contare per gli altri, si può sentire di essere importanti.
Sino ad ora solo il fattore “conflittualità” non è stato particolarmente presente. È possibile ipotizzare che ciò sia dipeso dalle specifiche caratteristiche dei gruppi condotti, ma anche dalla modalità di conduzione. Gli interventi infatti sono stati proposti con maggiore delicatezza rispetto agli incontri in presenza, resa necessaria dalla minore conoscenza dei partecipanti. Il fatto poi di essere online può avere reso meno necessarie reazioni difensive.
Ritornando alle domande iniziali: stiamo andando verso un atto creativo?
Possiamo pensare di integrare il vecchio con il nuovo?
Una modalità che intendo sperimentare appena possibile è quella di condurre gruppi di terapia sistemica alternando al bisogno sedute in presenza a sedute online in cui i partecipanti accolgano nei propri spazi di vita in modo virtuale ma reale il sistema di significati creato dal gruppo.
Riferimenti bibliografici
Bandler, R.; Grinder, J. (1981), La struttura della magia, Roma, Astrolabio Ubaldini.
Bateson, G.; Bateson, M. C. (1987), Angels Fear. Towards an Epistemology of the Sacred, Chicago, University of Chicago Press. Trad. It. Dove gli angeli esitano, Milano, Adelphi, 1989.
Bertrando, P.; Toffanetti, D., (2000), Storia della terapia familiare. Le persone, le idee, Milano, Cortina.
Castaneda, C. (1999), Gli insegnamenti di don Juan, Milano, Rizzoli.
Cecchin, G. (1987), “Hypotesizing, Circularity and Neutrality Revisited: an Invitation to Curiosity”, Family Process, 26, 405-413. Trad. it: “Revisione dei concetti di Ipotizzazione, Circolarità, Neutralita: un Invito alla Curiosità”, Ecologia della mente, n. 5, 1988.
Giordano, C.; Curino, M. G. (2013) Terapia sistemica di gruppo, Roma, Alpes.
Giuliani, M. (2012), Ipotesi sul Sé: Dalla psicoanalisi al virtuale, in Barbetta, P.; Casadio, L.; Giuliani, M. (a cura di), Margini: Tra sistemica e psicoanalisi, Torino, Antigone.
Giuliani, M. (2019), La terapia online, in Barbetta, P.; Telfener, U. (a cura di), Complessità e psicoterapia. L’eredità di Boscolo e Cecchin, Milano, Raffaello Cortina.
Ruesch, J.; Bateson, G. (1968), La Matrice Sociale della Psichiatria, Bologna, Il Mulino.
Yalom, I. (1992), Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Bollati, Boringhieri.