Libro di Ignacio Martín-Baró
a cura di Mauro Croce e Felice Di Lernia con uno scritto di Noam Chomsky
Bordeaux Edizioni, 2018
Letto da Massimo Giuliani
Da alcuni anni avevo notizia della gestazione di questo volume, e vederlo ora disponibile ai lettori italiani segna il termine di una attesa lunga, ma che sembra – lo dico subito – molto ben ricompensata.
Quella di Ignacio Martín-Baró è una storia misconosciuta, che sta dentro a un’altra storia misconosciuta, quella dei popoli latinoamericani e della loro resistenza a colonialismi e neocolonialismi che ne hanno attraversato la storia.
Martín-Baró, salvadoregno, teorico della Teologia della Liberazione e docente di psicologia presso l’Università del Centro America, muore il 16 novembre del 1989 (seguendo di nove anni l’assassinio di Oscar Romero) nel massacro dei gesuiti dell’Università ad opera di uno squadrone della morte (le notizie di queste ultime settimane ci dicono che un tribunale ha riaperto il caso, per riprendere il processo contro i mandanti). La sua Psicologia della Liberazioneè un prodotto del contagio operato dalla Teologia della Liberazione su tanti altri ambiti del pensiero e della vita sociale e arriva a noi oggi grazie alla cura di Mauro Croce e Felice Di Lernia (psicologo il primo, antropologo il secondo), che non si limitano a tradurne gli scritti principali, ma compiono una preziosa opera di contestualizzazione e attualizzazione del suo pensiero.
Croce, nella sua prefazione, rende conto di una ampia costellazione di pensatori critici che hanno qualche genere di legame con l’opera del gesuita. Troveremo così riferimenti alla pedagogia di Paulo Freire, che si pone come strumento di liberazione (e di alfabetizzazione, e di coscientizzazione) da una educazione funzionale a un regime oppressivo; troveremo Augusto Boal col suo Teatro dell’Oppresso, che scende dal palcoscenico per andare nei luoghi dove l’ingiustizia regna; troveremo una quantità di autori non solo latinoamericani – molti di questi, peraltro, accomunati a Martín-Baródal fatto di essere osteggiati dai regimi con tutti gli strumenti violenti a disposizione – che hanno fatto del proprio sapere uno strumento profondamente radicato e situato in una realtà di sofferenza. Come scrisse Dussel, filosofo argentino naturalizzato messicano e autore di una – giustappunto – Filosofía de la liberación: una filosofia che nasce e vive nelle periferie gode di una posizione privilegiata diversa da quella di chi pratica nei centri egemonici del potere.
Il testo originale è contenuto fra la prefazione di Croce e la postfazione di Di Lernia. Il valore aggiunto dell’opera è costituito da uno scritto di Amalio Blanco, curatore in spagnolo dell’opera di Martín-Baró, e uno di Noam Chomsky che analizza le condizioni storiche in cui maturò lastrage del 16 novembre e i legami fra gli “squadroni” e le Forze Speciali degli Stati Uniti.
L’analisi di Barò è lucida come la sua scrittura. La valutazione delle ragioni della subalternità della psicologia è condotta con uno stile che mette alle corde il lettore – il lettore che sia un professionista della salute, almeno – e gli impedisce di sottrarsi.
Se si potesse ricondurre il valore della sua critica a un punto qualificante, quello sarebbe certamente il richiamo al radicamento in un contesto: Ignacio Martín-Barónon discute in astratto e genericamente, ad esempio, di paradigmi epistemologici, ma affronta il modo in cui, per dirne una, la differenza fra una metodologia guidata dalla teoria e una che invece parta dai problemi diventa significativa nel contesto socio-economico di cui soffrono El Salvador e i popoli dell’America Latina. La sua analisi del problema dell’osservatore non è guidata tanto da un interesse teoretico astratto, ma dalle sue implicazioni etiche – e fin qui non ci sembra strano – ma anche politiche:e questo è certamente meno scontato per noi.
Chiaro, molti di noi lavorano in contesti fortunatamente liberi da quel grado di oppressione e di violenza istituzionalizzata. Ma dalla lettura si capisce che il problema non è quanto siano sanguinari gli oppressori di vario genere e quanto violento possa essere il modo in cui tendono a ricondurre la cura, quella psicologica soprattutto, a una pratica normalizzatrice, quanto la vulnerabilità di questa a quel richiamo, nei casi in cui non rifletta a sufficienza sulla propria collocazione rispetto a quei centri del potere. Né è più trascurabile il rischio che la militanza politica come unico criterio che guida l’azione conduca a subordinare la scienza all’ideologia: per dire quanto una visione epistemologica non limitata alla speculazione teorica, ma collocata nei problemi e nel contesto, imponga un certo grado di complessità del pensiero e attenda risposte non semplici e men che mai binarie.
Il modo in cui la vita e l’opera del gesuita interrogano il lavoro di psicologi, terapeuti e operatori della relazione che si muovono in contesti diversi è questione ben approfondita da Di Lernia nella postfazione, in cui Martín-Baróè messo a confronto anche col più vasto panorama della psicologia mondiale: nella sua singolare tensione a una psicologa che sia intervento concreto si sentiva d’altra parte vicino a studiosi come Kurt Lewin, ad esempio, il cui metodo della ricerca-azione costituiva per lui una credibile alternativa al positivismo, un metodo concreto per una pratica sociale.
Di Lernia, ancora, lo accosta a Basaglia nel modo in cui la sua critica interroga la psicologia e le pratiche di cura, segnate da due errori fondamentali, due peccati originali da cui discendono tutti gli altri: il primo è quello dell’“asportazione chirurgica dei soggetti e dei corpi dai propri macro-contesti”, laddove i soggetti sono non solo gli individui ma anche la famiglia, e per contesti si intendono principalmente le determinanti economiche e politiche; il secondo è l’“illusione ipnotica dell’equidistanza, della neutralità”, cioè di un bisogno protettivo di purezza che ripara il clinico dal contatto con la realtà e che lo rende cieco.
Centrale è la questione che Di Lernia chiama “irruzione della violenza nella cura della violenza” ai tempi della “fine del sociale” teorizzata da Touraine. Il curatore accomuna le militanti della violenza di genere ai militanti della “rivoluzione basagliana” nella resistenza alle narrazioni dominanti di un potere costituito: a quella resistenza l’opera di Martìn-Barò mette a disposizione chiavi di lettura complesse, a cominciare da una epistemologia della violenza, fenomeno segnato da molteplici determinanti e livelli di signficato. Ad essa riserva una analisi che mette in luce come ciascuna prospettiva di osservazione, presa di per sé, costituisca una semplificazione pericolosa – e in questo l’argomento ci pare un utile esempio del modo di procedere dell’autore. Per il quale un approccio non riduzionista deve necessariamente non prescindere da nessuno di questi piani: la struttura formale dell’atto, vale a dire il comportamento violento nel modo in cui si manifesta e nei suoi significati; l’equazione personale, cioè gli aspetti dell’atto spiegabili in base al carattere della persona; il contesto (quello ampio, sociale, e quello immediato, situazionale); lo sfondo ideologico, cioè gli interessi di classe che la giustificano attraverso le loro proprie razionalizzazioni.
Parliamo di un libro di Ignacio Martín-Baróche nella sua edizione italiana diventa un libro su Ignacio Martín-Baró, in virtù della messe di scritti di cui è corredato e del lavoro bibliografico e di orientamento che compiono i curatori, oltre al grande sforzo di contestualizzare e di raccontare la rete di idee nella quale vive l’opera di Martín-Baró. Il libro comincia a colmare un vuoto di dimensioni importanti, e oltre ad essere una doverosa operazione di giustizia per l’autore è un grande servizio per noi, che di voci critiche come questa abbiamo bisogno.
Nelle scorse settimane Psicologia della Liberazione è stato presentato al Salone di Torino, e a questa pagina trovate l’intervista video realizzata nell’occasione da Radio Radicale con Mauro Croce.