di Marco Rovelli
Minimum Fax. 2023
Letto da Gianluca Ganda
Che effetto ha avuto la pandemia sulle nostre vite?
Un giorno ci siamo svegliati e il mondo intorno a noi era cambiato. Da due casi di Covid a duecento, è stato un attimo. E, nel men che non si dica, ci siamo trovati tutti chiusi in casa. Una bella sorpresa, causa di molte sofferenze per molti. Una pandemia dai molti lockdown, a cui in tanti hanno risposto grazie alle risorse costruite prima. E con le risorse che la tecnologia ci ha reso fruibili. Qualcuno ricorderà serate a chiacchierare con amici lontani, chi con un bicchiere di chianti chi con uno d’acqua: insomma, con quello che ognuno aveva in casa.
Anche di tutto questo abbiamo parlato con Marco Rovelli la sera del 4 maggio scorso nella nostra sede di Monza, con un pubblico attento che ha conversato con l’autore del libro, qui il video).
Ho continuato a vedere molti clienti, tra quelli che seguivo in quel momento, e molti hanno interrotto la terapia. Con alcuni che hanno sospeso il percorso ho avuto dei contatti dopo, alla fine del primo lockdown: qualcuno mi ha detto che stava meglio, la dimensione di quella chiusura li aveva fatti riflettere, li aveva portati a comprendere che volevano restaurare la loro coppia e lo avevano fatto; oppure che avevano trovato il tempo per vivere più lentamente, erano stati con i loro figli. Qualcuno aveva trovato finalmente lo spazio per dedicarsi a cose che aveva sempre rimandato; altri pensavano di risolvere il proprio matrimonio e si stavano muovendo verso una separazione. Nel settembre 2020 ho assistito invece a un aumento delle richieste, sia nel mio studio privato, sia nel servizio pubblico dove lavoro. Richieste aumentate a dismisura dopo il secondo lockdown. E chi, suo malgrado, nella primavera del 2021, si è trovato richiuso in casa perché positivo al Covid, è stato molto male, ha dato segni di scompenso, per la sensazione di essere in una prigionia senza fine, soffrendo “la perdita di relazioni e di normalità esistenziale” (pag. 8). Di queste storie ci parla Rovelli, ma non solo. Ci tengo a dire subito che il discorso attorno al disagio che porta avanti non si rinchiude nella pandemia e nei sui effetti, sebbene parta da lì. Per arrivare alla tesi che la pandemia ha solo innescato quel disagio sociale che già serpeggiava nella vita di chiunque. Un disagio di origine culturale e sociale: proprio della polis, quindi delle relazioni collettive, politico.
Così incontriamo Luciano: “E quando è arrivata la quarantena da Covid, e si è fermato tutto, tutto è scoppiato. Mi sento svuotato, tutto è troppo pesante. Sento tutta la mia umiliazione, non la reggo più. Il peso che sento addosso, non lo reggo. Non riesco nemmeno più ad alzarmi dal letto. Non so, mi dica lei che cos’è. Sono depresso? Io non lo so, so solo che sto male” (pag. 41). La sua storia è emblematica perché tocca molti elementi della cultura quotidiana in cui siamo immersi: impegno, lavoro, produrre per mostrare che si è capaci. E poi l’inganno del “volere è potere”, l’illusione che il successo è a portata di mano di tutti. Chiunque può diventare Michael Jordan perché (per fare il verso allo slogan delle Nike) basta farlo: “just do it”, magari con le scarpe giuste. Se vuoi qualcosa puoi averlo, basta impegnarsi. E la performance si lega velocemente all’aspetto esteriore. Vedere se stessi con gli occhi degli altri, questo è il risultato, con conseguenze disagevoli se si è spinti a rinunciare a se stessi e ai propri desideri. Con un malessere profondo in chi addirittura rinuncia ai desideri, per svincolarsi da essi. Quindi si è spinti a vendere se stessi agli altri, con un valore dell’individuo dato da chi compra. Una società di individui, in lotta per il successo, con l’incubo del fallimento, nella tirannia del mandato di piacere agli altri. Rovelli propone di sostituire la visione che si fonda sull’individuo a quella che si appoggia ai “condividui”, segnando così un salto verso la relazionalità.
Mentre leggo Rovelli mi vengono in mente molte persone che incontro. Penso a Margherita, una giovane ragazza intraprendente e capace, che un giorno mi dice: “Non mi va di fare niente, non ha più senso fare niente”, con una narrazione di sé che corrisponde bene a quanto ci possiamo aspettare da una situazione di depressione. Ma la conosco. Sì, lei ha dei momenti di crollo ma non mi convince questa visione di lei depressa. Poi scopri che ha cinque cose importanti nel giro di dieci giorni, due esami di università, una relazione in partenza e tre diversi lavori da preparare e gestire. Insomma un caos, un ingorgo stradale di proporzioni mastodontiche. Alla luce di questi elementi il suo messaggio assume tutto un altro senso: “mi sembra che stai cercando di anestetizzarti per evitare il dolore del fallimento, non tanto per non fare. E con tutto quello che hai da fare, su ambiti così diversi, qualche fiasco lo puoi prendere anche tu”. E così ci spostiamo a parlare degli insuccessi e delle sconfitte, dei limiti e delle possibilità. Racconto questo brandello di interazione della stanza di terapia perché mi sembra che in esso si condensino le situazioni che Rovelli racconta tra depressione e narcisismo. Ma sarebbe meglio dire tra l’imperativo della performance e la realtà delle nostre possibilità.
Rovelli mostra il disagio e le patologie come proteste che nascono dal “non ce la faccio più” di Luciano e Margherita. Diserzioni dalla società della prestazione. Con forme diverse: l’attacco di panico nasce da un timore verso il mondo, ritenuto sconosciuto, che sembra sia da affrontare in solitudine; l’anoressia come rifiuto del desiderio, proprio e altrui. Malesseri che Rovelli, appoggiandosi alle narrazioni di esperti psicoanalisti e terapeuti, propone di inquadrare all’interno di logiche sociali.
Luciano come altri trova una prima risposta nei farmaci e su di essi fonda la propria “stabilità”. Rovelli, mutuando lo psichiatra Cipriano, ci dice che questa dimensione si chiama “manicomio chimico, in cui oggi si tende a rinchiudere, in via esclusiva, chiunque manifesti un disagio psichico (pag. 128)”. Un luogo che aiuta a ridurre responsabilità e impegno, di chi si dedica alla cura e di chi si cura: buona sintesi delle pratiche riduzionistiche biomediche.
Rovelli invece propone una domanda che risuona molto con il Milan Approach: “la sofferenza [emotiva, psichica] ha un senso oppure no?” (pag. 11). Pensiamo di cancellarla o vogliamo considerarla, per capire cosa ci sta dicendo? Riflessioni che riecheggiano con le parole di Cecchin: “il sintomo è un messaggero”. E con il pensiero di Marcel (in questo numero di Connessioni già citato da Schinco in proposito a Il mistero del rispetto) che invita a ritenere il disagio e la sofferenza quali stimoli per realizzare un cambiamento. Ecco allora che la sofferenza non può più essere cancellata da quel farmaco che si limita a modificare le emozioni senza modificare i fatti che le originano. Come Basaglia, come molti terapeuti, bisogna guardare la persona nella sua umanità piuttosto che vederla attraverso il suo disagio: “vedere il malato e non la malattia” (pag. 123).
Rovelli parte dal disagio psichico come fatto collettivo e sociale, a fronte di una lettura del malessere e di un intervento di cura che lo ha individualizzato: sei sbagliato come singolo se non ti adegui al pensiero sociale. Il disagio psichico riguarda le forme di sofferenza del corpo sociale. Si differenzia dalle logiche della psichiatria biomedica, insieme di pratiche riduzioniste che si appoggiano a una visione discreta e classificatoria del disagio. Si chiede cosa ci raccontano i nostri sintomi: dicono qualcosa solo a livello individuale o a livello sociale? Rovelli mostra come nell’epistemologia e nella pratica biomedica l’individualizzazione del disagio si sostenga circolarmente con l’individualizzazione della cura. Eppure, parte inscindibile della nostra umanità son le relazioni in cui siamo impegnati. E non possiamo sottrarci alla parte relazionale della nostra vita. La relazionalità è l’ingrediente necessario dell’esistenza umana per come si è sviluppata sino a oggi. Gli evoluzionisti sostengono che la supremazia della razza “sapiens” (gli esseri umani di oggi) si debba alla nostra maggior capacità, rispetto ai Neanderthal o ai Denisoviani, di sviluppare sistemi di comunicazione sociale e di simbolizzazione, strumenti concettuali in grado di creare cooperazioni e coordinazioni di gruppo, oltre a favorire la riflessione e la discussione delle idee, altro aspetto relazionale. Nella nostra società assistiamo invece a una sempre maggior riduzione della sfera interazionale, a vantaggio di una spinta sull’individuo, per il suo investimento nelle prestazioni, con la socialità di gruppo che si ritrova e si confronta sugli obiettivi, sui risultati e sulle prestazioni.
Rovelli non è uno psicoterapeuta. Per questo nella sua indagine dentro la clinica si muove attraverso il pensiero di vari psicoterapeuti. Dialoga con loro, ci porta il loro punto di vista. E ci possiamo stupire di come visioni psicodinamiche, junghiane, freudiane o lacaniane, gestaltiche e sistemiche, trovino un punto di convergenza nella necessità di tornare a un piano relazionale che sia fonte di valore per le persone. Noi siamo relazione, e per recuperare la nostra umanità dobbiamo rifarci alla base relazionale della nostra esperienza esistenziale.
Più sopra accennavo al manicomio chimico. Rovelli ci fa riflettere sul processo, già indagato da molti, dell’effetto della biologizzazione del disagio. Il medico-psichiatra diviene il depositario del sapere scientifico sulla normalità degli affetti: Proprio uno di questi, lo psichiatra Allen Frances, psichiatra e collaboratore alla stesura del DSM III e del DSM IV, scrive “la medicina moderna non ha mai fornito una definizione operativa di ‘salute’ o ‘malattia’” (Frances, A., (2013), Primo non curare chi è normale, Bollati Boringhieri, Torino, 2013). Per arrivare a dire, in polemica con i manuali diagnostici, che normalità è sia risorsa sia fragilità. Sano e malato sono categorie che, insieme a Boscolo e Cecchin, abbiamo imparato ad accantonare. Una biologizzazione del disagio che vorrebbe attribuirlo solo al cervello e alla sua chimica, trascurando l’idea in seno alle filosofie orientali che Mente è sia cervello che cuore. Quella Mente che Bateson ha mostrato proseguire oltre la scatola cranica e che con Clark Chalmers (The Extended Mind, (1998), Analysis, Vol. 58, No. 1, pp. 7-19) diventa quella extended mind che si avvale di artefatti tecnologici e culturali: trova nello smartphone una protesi in grado di darci tante possibilità e complicarci la vita.
Rovelli storicizza il disagio e lo contestualizza nella società attuale. Incrocia i saperi per creare una costellazione di saperi e sguardi sul disagio e sulla dimensione sociale in cui si dispiega. Il risultato è una riflessione sul disagio calato in una dimensione politica, di poteri culturali e sociali che influiscono sulle modalità con cui le persone rispondono alle richieste della vita pubblica. Le stesse richieste sono messe in discussione: perché è così necessario dare prestazioni sempre migliori e più vincenti? Perché bisogna sempre aumentare il fatturato o raggiungere livelli più alti?
C’è da aggiungere che anche chi cura è preso nelle spire della performance, della prestazione, soprattutto se si muove tra i servizi pubblici, dove la cultura è data dalla mission stabilita dai vertici, sulla base delle politiche di gestione sanitaria regionale. Su questo Rovelli forse trascura la complessità della gestione dei servizi e di chi pur lavorandoci non può gestire niente della loro organizzazione. Tanto da non poter parlare di cattiva psichiatria o cattiva tutela, se non si riesce a calare queste azioni di presa in carico nella situazione contestuale in cui si originano: insomma, le difficoltà, le risposte parziali o le semplificazioni non sono sempre imputabile agli operatori. I servizi sono spesso organizzati per dare parvenze di risposta, utili ai vertici, meno a utenti e operatori: per ridurre i tempi e le liste d’attesa, spesso molto voluminose, con risposte veloci spesso parziali, inefficaci e necessariamente riduzionistiche. Con gli utenti che non hanno risposte reali al proprio disagio e malattia, tantomeno una ridotta offerta di percorsi atti a contemplare il disagio. Con gli operatori che spesso sono resi ancora più impotenti dall’organizzazione dei servizi, organizzazione a cui non possono partecipare. Per poi trovarsi come primi destinatari della frustrazione degli utenti.
In sintesi, quello di Rovelli è un libro da leggere sicuramente, utile agli psicoterapeuti di ogni orientamento. Possiamo trovarci riflessioni sul disagio e sul modo di approcciarsi ai suoi portatori, con molte descrizioni di lettura del malessere, da trattare comunque come ipotesi a cui dare un respiro contestuale.