di Fabio Sbattella
Trauma come realtà sovraindividuale
Il trauma psicologico è oggi una delle forme di sofferenza mentale ed esistenziale più studiate. Nella forma di PTSD e delle sue varianti (Disturbo di Adattamento e PTSD Complesso) è descritto con precisone e ne sono riconosciute le peculiari dinamiche (Winders et al., 2020).
È ormai chiaro che i sintomi del disturbo e le sue conseguenze disadattative non sono dovute a cattiva volontà, colpa, vizio, incapacità o fragilità costitutiva del soggetto. Esse sono dipendenti dalla veemenza dell’evento traumatico subito e da modalità complesse di reazione dell’organismo, in cui si intrecciano dimensioni neurofisiologiche, cognitive, sociali ed emotive.
Il riconoscimento dell’esistenza di articolate forme di sofferenza legate ad eventi stressanti e minacciosi per la vita ha valorizzato anche l’approccio ambientalista in psicologia clinica: esistono certamente alcuni accadimenti nell’ambiente di vita che sono in grado di mettere a rischio in modo determinante sulla salute mentale (Sbattella, 2020).
Si tratta di eventi improvvisi e devastanti (spesso chiamati “traumi”, ma che più correttamente dovrebbero essere chiamati “eventi potenzialmente traumatici”, riservando la parola trauma alla ferita psichica), ma anche di tensioni persistenti, che superano le capacità di risposta dell’organismo, generando stati di tensione che oggi sono modellizzati con il concetto di stress.
Inoltre, le fratture traumatiche (soprattutto quando sono cumulative, precoci e non curate) sono riconosciute da molte ricerche come le radici di varie patologie psichiatriche. Disturbi d’ansia, fobie, depressioni, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze e disturbi di personalità sono riconducili in buona parte a contesti di vita lungamente stressanti e/o a eventi violenti e devastanti subiti (Liotti, Farina, 2011).
L’elenco dei tipici eventi avversi (ACE) è lungo già in età evolutiva (Petruccelli, Davis, Berman, 2019) ed è stato anche possibile stabilire un peso, per ciascuna tipologia di evento stressante e potenzialmente traumatico (Life Events), anche in età adulta (Holmes, Rahe, 1967).
Tale mole di ricerca si concentra, tuttavia, sui traumi come esperienze personali, assumendo l’ottica individualista, che confina la mente nel corpo del singolo e a volte la fa coincidere con il suo sistema nervoso, se non con il solo sistema nervoso centrale, o addirittura il solo encefalo o il solo cervello (per quanto tripartito o sdoppiato in due emisferi differenti, tra loro connessi).
Esistono però tradizioni di pensiero, in psicologia e filosofia, che sottolineano come la mente personale non possa essere ridotta all’individuo singolo e tanto meno ad una parte del suo corpo vivente (Cobb, 2021). La parola mente, infatti, non è sinonimo di cervello, poiché il concetto di mente si riferisce all’insieme di funzioni astratte che sorreggono il comportamento adattativo. Utilizzando una metafora approssimativa, abbiamo spesso paragonato il corpo, il sistema nervoso e il cervello che ne è parte, ad un complesso hardware, in grado di utilizzare complessi programmi di software, che costituiscono la mente. Questi programmi sono istruzioni procedurali, modelli operativi interni, schemi d’azione, script, algoritmi e protocolli, realizzati con diversi linguaggi e sistemi operativi.
Hardware e software sono entrambi delle realtà concrete e complementari, che operano insieme in modo inscindibile, ma sono decisamente distinti.
Quando esistono disturbi psichici, sofferenze esistenziali e disadattamenti, possiamo chiederci se esistano problemi di hardware (neurologici) o di software (idee perfette, modelli di attaccamento disorganizzato, pattern relazionali disfunzionali, pensieri controfattuali etc.). Oppure ci siano difficoltà dell’hardware a far “girare” i software (come nel caso dei disturbi di sviluppo intellettivo), o ancora se manchino software adeguati (per deprivazioni esperienziali e ignoranza) o se ci siano conflitti tra software differenti, che entrano nella mente in conflitto tra loro (come spesso accade a chi ha duplici appartenenze e cresce fa riferimento a due culture). Infine, possiamo chiederci se ci siano disfunzioni ad entrambi i livelli, che si danneggiano reciprocamente, in modo circolare.
L’aspetto decisivo di queta metafora, tuttavia, sta nel comprendere che i “software mentali” utilizzati quotidianamente dalle persone non sono necessariamente incisi nell’hardware che corrisponde al cervello o al corpo del singolo individuo che li agisce. Come nei moderni computer, molti di essi risiedono “in cloud” cioè, sono distribuiti nelle reti alle quali il singolo soggetto ha accesso, grazie alle sue capacità di connessione, comunicazione e intersoggettività (Sbattella, 2019).
Il funzionamento di ciascun essere umano, fuor di metafora, dipende infatti dalle memorie che ha depositato negli oggetti che possiede (smartphone, agende, album fotografici, appunti, souvenir, etc.), nei luoghi che abita (casa, città, luogo di lavoro e di ritrovo comunitario) e nelle persone con cui è in contatto (in particolare nei familiari e nelle persone più care).
Anche molte strategie di problem solving, di decisione e ragionamento risiedono fuori dalla persona e vengono recuperate al bisogno. Infatti, spesso le persone hanno bisogno di dialogare per riflettere; ricorrono all’aiuto di risorse della loro rete relazionale per risolvere problemi; si informano, si confrontano e discutono con altri per prendere decisioni.
La consistenza di questa concezione delle mente è dimostrata da molti fenomeni, ed in particolare dal lutto: la perdita improvvisa di persone, oggetti e luoghi impoverisce la mente e ostacola molti processi mentali, fino a generare problemi di adattamento. Anche la disconnessione dai propri network ottiene gli stessi effetti: deprivazione sensoriale, isolamento sociale, limitato accesso alle informazioni e alle memorie compromettono le capacità di decidere, regolare le proprie emozioni, guidare i propri comportamenti.
L’essere umano, in quanto mammifero sociale, funziona sempre, anche come individuo, in quanto parte di reti e sistemi allargati complessi. Il sistema di attaccamento, ad esempio, serve, fin dai primi giorni di vita, a ricercare, stabilire e mantenere connessioni con la rete di persone in cui sono custoditi preziosi “software” operativi, spesso formulati in termini simbolici e linguistici e organizzati in schemi operativi culturalmente determinati.
È quanto dice, con il linguaggio degli anni 70 del secolo scorso, anche Gregory Bateson, uno dei padri della terapia sistemica, in “Verso un’ecologia della mente” (Bateson, 1972, tr. it. 1977, pag. 499): la mente non è confinata nel cervello di un uomo che taglia albero con un’ascia: la mente va considerata come la connessione dell’organismo nel suo ambiente. Per questo, l’unità mentale minima da considerare è il sistema “uomo-ascia-albero.
Questa concezione sistemica ci aiuta a capire perché i traumi psichici non siano mai non solo individuali. Ogni incidente ha sempre un impatto significativo sulla salute mentale di tutta la rete relazionale della persona che lo subisce: almeno sette persone, secondo alcuni ricercatori, ma spesso molti di più (si pensi ad un incidente che coinvolga un singolo insegnante, un leader, una persona amata da molti). Il tessuto relazionale che viene attraversato dal trauma non è un reticolo “aggiunto”, come un accessorio esterno alla persona.
Esso costituisce buona parte della sua mente. Per questo motivo possiamo parlare di trauma condiviso: il dolore dilaga e riverbera attorno al singolo, come in una rete che lo attraversa, senza soluzione di continuità. Lo strappo vissuto nel singolo corpo è avvertito come frattura da tutti quelli che contano su di lui e in lui hanno posto memorie, speranze, aspettative, affetti. Poiché l’intera rete è destabilizzata e rischia di disorganizzarsi, essa si raccoglie attorno al punto ferito, aumenta le comunicazioni e genera plurimi tentativi per riorganizzarsi.
Non a caso anche i manuali internazionali di psichiatria (APA, 2022) riconoscono che il PTSD, diagnosticato nei singoli individui, possa essere generato da bad news o dall’esposizione prolungato alla violenza subita da altri.
Non è necessario che il corpo del singolo sia direttamente colpito o coinvolto da un avvenimento sconvolgente. Anche la sintonizzazione con il dolore altrui è devastante, se la persona è profondamente connessa all’altro. Il lavoro di elaborazione del lutto, dice da anni la psicoanalisi, consiste in un’opera paziente di “disconnessione” tra le persone, attraverso la quale chi sopravvive recupera gli investimenti affettivi di sé posti nell’altro (memorie, aspettative, sentimenti, dialoghi, informazioni) e restituisce all’altro ciò che lui aveva collocato dentro di sé (Cazzaniga, 2017). Anche le ricerche sul tema della trasmissione transgenerazionale del trauma, partita dalle famiglie delle vittime della Shoah, confermano questa visione (Danieli, 1998).
Interventi sistemici e terapia familiare
Le considerazioni teoriche sopra esposte e le evidenze citate sono alla base di molte tecniche di intervento psicologico in emergenza. L’attenzione dedicata ai familiari delle vittime non è, infatti, solo frutto di una posizione etica o di una strategia che mira a limitare i traumi nelle vittime secondarie. Sostenere le reti significative di una vittima significa sostenere psicologicamente anche lei.
Questo vale chiaramente nelle azioni di aiuto psicologico ai genitori di minorenni, che sanno di essere una cosa sola con i loro figli piccoli, ma vale in realtà anche a tutte le età. Perfino i coniugi separati malamente e litigiosi, sono ancora connessi alla controparte da legami, per quanto di natura conflittuale e dannosa. Operare contemporaneamente a favore del singolo e dei suoi familiari (o degli amici stretti, colleghi sul luogo di lavoro, allievi…) significa adottare un’ottica sistemica, nella consapevolezza che nessun essere umano è mai un individuo separabile totalmente dal suo contesto affettivo e relazionale.
Non a caso, molte linee guida internazionali per l’aiuto psicosociale in emergenza insistono sull’opportunità di sostenere i familiari e le reti sociali all’interno delle quali si è verificato un incidente o disastro (WHO, 2013).
Non ci soffermeremo in queste righe sulle metodologie che la nostra Unità di ricerca in Psicologia dell’emergenza utilizza in questo senso durante le prime fasi dell’emergenza (rimandiamo per questo a Sbattella, Tettamanzi 2019). Desideriamo invece soffermarci sul lavoro terapeutico di cui abbiamo esperienza nelle fasi post emergenziali, in qualità di psicoterapeuti sistemici, formati al Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Inizieremo con la narrazione di alcune situazioni cliniche reali, ma rese opportunamente anonime.
Prima narrazione
In una calda giornata d’agosto del 1993 Luigi si mette in viaggio, alla guida della sua station Wagon, verso l’Olanda. Insieme alla nuova compagna e alla figlia piccola, ha deciso di andare a trovare Lara, figlia ventenne del primo matrimonio. La giovane è ad Amsterdam per studiare. In un grave incidente in territorio francese, Luigi, la compagna ed il piccolo perdono la vita. Quindici giorni più tardi, li segue il padre di Luigi, colpito da infarto poco prima del triplice funerale. Nonostante tutto, Lara completa i suoi studi, si sposa in Olanda e diventa madre di tre bambini. A distanza di 10 anni dall’incidente però, inaspettatamente, si toglie la vita, così come ha fatto, un anno prima, suo fratello Luciano, rimasto come lei orfano, quando era appena maggiorenne.
Si tratta di una grave tragedia familiare, dilatata nel tempo, che solleva molti interrogativi. Potremmo chiederci e chiedere a tutti i lettori psicoterapeuti: come possiamo accogliere la grave sofferenza di due giovani che si trovassero nelle condizioni di sopravvissuti, segnati da un lutto plurimo e traumatico come Lara e Luciano? Non si pongono qui domande su ciò che si sarebbe potuto o dovuto fare, ovviamente, perché, come abbiamo scritto, le domande controfattuali sono patogene come tarli nella mente (Sbattella, 2021).
Possiamo però chiederci con quali strategie potremmo in futuro prendere in carico casi di lutto prolungato come questo, anche a partire dalle scarsità delle informazioni qui presentate. Innanzitutto: quali informazioni sarebbero indispensabili per formulare ipotesi cliniche e impostare un buon piano terapeutico? Sarebbe prioritario formulare una psicodiagnosi individuale e un’anamnesi per ciascun fratello o costruire insieme a loro un genogramma e un’analisi delle semantiche familiari condivise (secondo la tradizione sistemica)?
Quanti terapeuti proporrebbero almeno una decina di incontri congiunti con entrambi i fratelli? Molti terapeuti sistemici lo faremmo, perché i giovani sono accomunati da una tragedia comune e hanno bisogno di rileggere insieme il passato e il presente, prima di riprendere il proprio cammino di sviluppo in autonomia. Sarebbe necessario esaminare, oltre al dolore indicibile, i ruoli impliciti che ogni sopravvissuto aveva nella famiglia, le posizioni reciproche che devono essere da loro riequilibrate, il ruolo affettivo che può assumere una relazione terapeutica in questo contesto. Dopo ogni perdita improvvisa le responsabilità concrete e le aspettative emotive reciproche, all’interno del nucleo familiare rimasto, vengono sempre riorganizzate e nessuno può “guarire” a scapito dell’altro, soprattutto nel caso in cui la narrazione familiare insista sull’unità per il reciproco aiuto.
Seconda narrazione
In seguito ad un grave terremoto in centro Italia la Protezione Civile, allestì alcuni campi, all’interno dei quali le persone avrebbero dovuto sostare per alcuni mesi. I responsabili del campo proposero di collocare in ciascuna tenda (da otto posti), uno o due nuclei familiari. Per questo, chiesero agli sfollati di fare le loro proposte, relativamente ai confini di ciò che consideravano il loro “nucleo familiare”. In questo contesto, Marta e Marco ebbero un grave litigio. I due giovani erano trentenni che formavano una coppia dai tempi delle scuole superiori e poco prima del terremoto stavano decidendo di andare a vivere insieme. Nonostante le insistenze di Marta, questa scelta era stata rinviata per anni, a causa di svariati motivi: il protrarsi degli studi di Marco, la scarsità di lavoro, una malattia del padre di Marco. Marta si aspettava che, nel definire i nuclei di coabitazione nelle tende, Marco avesse scelto di vivere con lei, seppure con altre coppie giovani. Marco aveva invece dichiarato che, in questo contesto, non se la sentiva di lasciare sola la madre con il padre e la sorella minore, sebbene si stesse parlando di tende che distavano poche centinaia di metri tra loro. Avendone l’opportunità, a poche settimane dal sisma, venne iniziata una terapia di coppia sistemica.
In questo caso i protagonisti non sono stati feriti da lutti, aggressioni o lesioni nel corpo. Tuttavia, insieme a tutti i nuclei familiari della città, erano precipitati in una situazione estremamente e lungamente stressante. Molte delle case del paese erano lesionate, le attività economiche erano completamente interrotte, le prospettive di vita erano estremamente incerte e le urgenza della quotidianità erano impellenti.
In questi contesti la definizione delle appartenenze e delle priorità diventa sempre cruciale. L’intervento terapeutico, in questo caso, ha puntato sulla facilitazione della comunicazione nella coppia, nella prospettiva di una ridefinizione dei confini familiari e dei progetti di vita.
In primo luogo l’offerta di uno spazio-tempo riservato e protetto, all’interno del quale discutere con una persona terza delle reciproche aspettative, ha rappresentato un intervento di tipo strutturale. La giovane coppia è stata invitata a marcare i propri confini, in modo separato dalle famiglie di origine e con un certo grado di intimità, anche solo per discutere delle proprie divergenze nel contesto della terapia. È stato necessario poi dare voce alle emozioni di entrambi.
Stress, stanchezza, senso di impotenza e paura avevano soverchiato entrambi i giovani ed entrambi cercavano di reagire attivandosi aggressivamente e chiedendo all’altro comprensione e supporto. Una dinamica che spesso è frequente nei contesti di crisi, che va compresa e gestita, prima che distrugga anche le relazioni più solide. A seguito di terremoti e disastri si registra, infatti, sempre un aumento di separazioni, divorzi e conflitti interpersonali (Tettamanzi, Sbattella, Molteni, 2013). La crisi ambientale legata al terremoto aveva destabilizzato le abitudini della coppia, obbligandola a far emergere e a confrontare valori e aspettative di ruolo gestite in passato solo con comportamenti impliciti.
Tra le novità portate dal terremoto, per fortuna, c’è stata anche la possibilità di realizzare sei o sette sedute con uno psicoterapeuta “foresto”, mentre i genitori (suoceri per Marta) dimostravano di riuscire a cavarsela con l’aiuto della comunità allargata.
Terza narrazione
Nell’ambito delle attività di sostegno psicologico alla ricerca di persone scomparse, un imprenditore di mezza età ha chiesto il nostro aiuto per una terapia familiare. Durante un periodo di crisi economica Fabrizio, 53 anni, si è trovato sommerso dai debiti. Tale situazione era per lui estremamente umiliante, perché in passato non aveva mai sbagliato un investimento ed aveva guadagnato un’ottima fama nella sua cittadina. Generoso, onesto, correttissimo con dipendenti, fornitori, clienti e istituzione. Sommerso dall’ansia e dal segreto (non aveva fatto parola in famiglia delle sue difficoltà, neppure quando era stato costretto ad ipotecare i beni della moglie), aveva vissuto, un mattino presto, uno sconvolgente momento di dissociazione. Narrò Fabrizio di essersi come svegliato da uno stato di torpore, e di essersi trovato in un bosco, davanti alla canna del suo fucile, che le sue mani stavano puntando alla gola. Reagendo a questo stato mentale folle si era poi precipitato a casa, dove i familiari avevano già letto la sua lettera d’addio e attivato il piano prefettizio di ricerca persone scomparse.
Fabrizio chiese aiuto in modo disperato: oltre al fallimento aziendale, sentiva di aver tradito la moglie e deluso i tre figli adolescenti, che lo avevano sempre considerato un eroe e un modello e che studiavano per entrare a lavorare in azienda. Anche loro quattro erano increduli e sconvolti per l’accaduto.
Come abbiamo più volte ribadito, il supporto psicologico alle famiglie delle persone scomparse non finisce con il ritrovamento della persona o del suo corpo: esso deve proseguire nella fase di ricongiungimento, perché l’allontanamento silente di una persona è spesso un messaggio potente e potenzialmente traumatico nella dinamica familiare che va ascoltato e compreso (Sbattella, 2016).
Per questo motivo, in casi come questi, si rende necessaria una tempestiva e lunga seduta di tipo familiare. Anche con la famiglia di Fabrizio, è stato necessario accogliere tutti e cinque in familiari insieme e fare in modo che ciascuno, con calma, narrasse i fatti, i pensieri e le intense emozioni vissuti nei momenti più difficili della crisi. Questo significa che alcune sedute familiari di tipo sistemico, come in questo caso, possono durare anche due o tre ore, poiché è chiesto a ciascuno di ascoltare i vissuti di tutti gli altri e osservare anche le loro reazioni alle condivisioni altrui.
Il piano terapeutico è stato poi organizzato lungo un anno di lavoro. Nei primi mesi con sedute settimanali e successivamente più dilatate nel tempo. Come spesso accade, nelle prime sedute sono state ordinate le reciproche emozioni legate al presente e agli accadimenti critici. Pensieri, emozioni, comportamenti sono stati considerati tentativi reciprochi e convulsi di adattamento ad una realtà critica e non sintomi di effervescenze neurologiche. La ricerca di senso, all’interno di un contesto caotico, è un’opera da costruire in gruppo.
In una seconda fase sono state divise le generazioni: alcune sedute sono state con i soli genitori, mentre le successive alla fratria. Con i due coniugi, gli incontri sono stati mirati a chiarire e risanare i vissuti di coppia, evitare la parentizzazione degli adolescenti e rinsaldare la responsabilità genitoriale, pur nella crisi. Anche in questa fase, i comportamenti critici non sono stati psichiatrizzati né processati (questo è compito, eventualmente, dei tribunali), quanto esaminati nella prospettiva di trovare nuove strategie di problem solving per gestire insieme preoccupazioni, vergogne, minacce all’autostima e cadute di status economico.
Nelle sedute con i tre fratelli (riuniti insieme) si è facilitata la condivisione tra loro delle emozioni e delle rappresentazioni del mondo adulto. Ruoli familiari e responsabilità nuove (in un contesto economico che di colpo impoverito e precario) sono state riesaminate congiuntamente. In una terza fase, la famiglia è stata nuovamente riunita per alcune sedute, affrontando un’analisi delle narrazioni relative al passato. Crisi di questo genere, infatti, obbligano a ripensare alle incomprensioni passate, ai punti di svolta, alle risorse da sviluppare per aumentare la resilienza familiare (Walsh, 2008).
Conclusione
Abbiamo voluto offrire, con queste tre brevi narrazioni, un semplice assaggio di ciò che intendiamo concretamente per intervento terapeutico, familiare e sistemico nelle fasi post emergenziali. Le strategie e le tecniche, in questo ambito, sono assai diversificate e sono in continuo sviluppo (si veda ad esempio Selvini, Fino, Redaelli, 2022), così come le ricerche sulla loro efficacia.
Ci auguriamo di essere riusciti a trasmettere in ogni caso alcuni messaggi essenziali. In primo luogo, l’idea che il dolore legato a situazioni stressanti e potenzialmente traumatiche non è mai circoscritto al soggetto che più chiaramente è stato esposto agli eventi. Si può dunque parlare di trauma condiviso, ogni qualvolta esista un PTSD o un altro disturbo stress o trauma correlato.
In secondo luogo, speriamo di aver chiaramente trasmesso l’idea che una presa in carico di queste sofferenze non può limitarsi solo ai primi momenti post emergenziali, ma deve potersi sviluppare in psicoterapie lungimiranti, attente ad ascoltare ed includere tutte le reti affettive significative che vengono perturbate dalla crisi.
Bibliografia
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